1. AZMAUT
INDIPENDENZA העצמאות
PERIODICO DI INFORMAZIONE E CULTURA
IL DIRITTO E LA LIBERTà DI ISRAELE , IL PLURALISMO DEI POPOLI DEL MEDITERRANEO
a cura dell’Associazione Italia-Israele di Napoli
N. 1
( Aprile 2009 – Nissan 5769 )
Direttore : Antonio Cardellicchio
Redattore capo: Davide Tagliacozzo
Redazione: Luigi Caramiello, Valerio Filoso, Giuseppe Fitto, Massimiliano Panico, Maddalena Schiavo
Associazione Italia-Israele di Napoli:
Presidente Giuseppe Crimaldi, Vice-Presidenti Luigi Caramiello e Antonio Cardellicchio, Segretario Francesco Lucrezi
SOMMARIO
INTERVENTI
Notte a Ginevra…………………… Editoriale
GinoAji … …….. …………………... Redazione
Un albero di vita …..……................ Antonio Cardellicchio
Dichiarazione di Indipendenza…....Francesco Lucrezi
Guerra e pace nell’ Ebraismo ……. .Roberto Della Rocca
Il Negev: la frontiera …………….. Luciano Tagliacozzo
Facebook ed Israele ………………....Massimiliano Panico
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2. Israele e la Sinistra italiana ……….. Giuseppe Fitto
Animali di Giobbe……………............Redazione
LIBRI
Ehud Gol ……………… …………… Giuseppe Fitto
Stefania Ecchia …………………….... Antonio Cardellicchio
CULTURA
Esilio, tempo e memoria…………………………….. Roberto della Rocca
Musica classica da Israele ………………………….Angela Amato
Incontri del centro studi ebraici……………… .Maddalena Schiavo
Contatti:
E-mail: azmaut.indipendenza@gmail.com
Recapiti telefonici: 339.6952427-340.0699695
INTERVENTI
Notte a Ginevra
Editoriale
Regime negazionista. Leggi razziali di furore antiebraico. Complicità ONU.
Antifascismo capovolto.
“…è passato a volo un messo infernale/tra un alalà di scherani”. Questo verso di
Eugenio Montale (La primavera hitleriana capolavoro scritto per reagire alla visita
ufficiale di Hitler in Italia nel 1938) ci viene in mente ora. Di fronte alla mitologia
carnefice dell’Hitler–Haman dell’Iran alla Conferenza ONU di Ginevra. Tutto previsto,
poi è accaduto…quel che non doveva accadere. Offesa tremenda alla giustizia e alla
pace nel mondo.
Una sede dell’ONU, dopo l’infamia di Durban, dopo tante risoluzioni di aggressione
politica e civile ad Israele, pone al centro una tribuna di propaganda totalitaria di un
regime di odio razziale antiebraico, negazionista e della Shoah e della vita e del
diritto di Israele, centrale di un terrorismo globale che attacca le libertà e le
democrazie nel mondo. Un regime che, infine, esercita il ricatto nucleare di morte per
gli Ebrei per il loro Stato.
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3. In termini semplici e universali un sistema politico che vuole cancellare dalla carta
geografica un altro stato rappresenta una violazione smisurata dei documenti
fondativi dell’ONU e della Dichiarazione dei diritti del’uomo. Il fanatismo ideologico
uccide anche il senso comune e l’ONU che lo coltiva nega se stessa. Uomini e popoli
civili vedono il rischio di una nuova Shoah atomica.
In ogni caso, da Durban a Ginevra, è evidente l’uso politico corrente di questo
ricatto, e già solo questo produce tonnellate di veleno e venti di guerra.
La civiltà è una crosta sottile ci ricordava Tullia Zevi.
Chi non ha perso la propria anima ha visto e compreso: proprio nello Yom ha Shoah,
quando l’intero Israele, nell’intima commozione del mondo civile, si ferma nella
memoria di sei milioni di martiri, l’ONU inaugura una conferenza dove viene
disegnato un programma di odio razziale e di distruzione di Isarele. Eli Wiesel,
testimone esemplare e lucido intenso scrittore della memoria e della resistenza
ebraica, costretto alla protesta antinegazionista a Ginevra, di fronte ala sede delle
Nazioni Unite. Costretto a ricordare: “se avessimo imparato la lezione, non ci
sarebbero stati i campi della Cambogia, il Ruanda o il Darfur. Neppure Auschwitz è
riuscito a guarire il mondo dal male antico dell’entisemitismo”.
Un rappresentante di un centro Simon Wiesenthal testimonia di un insulto di un
delegato dell’Iran a Wiesel. Lo storico prigioniero A-7713, dal numero che gli venne
tatuato ad Auschwitz sul braccio sinistro, è stato chiamato “nazi-sionista”. Quello
che impressiona, che rende molto pericolose le forze razziste e di guerra, sono i
diversi centri concentrici delle complicità, dalle sottovalutazione e illusioni alle
connivenze ideologiche.Si, un certo numero di paesi: Israele, Stati Uniti, Canada,
Australia, Italia, Olanda, Germania, Polonia e Nuova Zelanda, ha deciso la propria
assenza come forma di resistenza, davanti all’antisemitismo della bozza preparatoria,
al precedente di Durban, alla natura del regime iraniano, ai legami con il terrorismo
globale. Così hanno salvato la decenza del diritto internazionale e, più che aiutare
Israele, hanno tutelato i propri interessi nazionali nei confronti del terrore e
mantenuto aperta la possibilità di una strategia e cultura di pace.
Ma quella platea di delegati dell’ONU, un centinaio, che ha applaudito il delirio del
mostro infernale, ha espresso la fisicità delle forze del male, l’arroganza degli
impuniti, la sicumera di chi sa di contare su una rete di complicità, sulla viltà
dell’indifferenza, sulla copertura ufficiale dell’ONU, sull’incapacità e non volontà di
difesa di diverse democrazie, sulla debolezza delle forze di resistenza.
Un’orda barbarica in doppio petto, approvata, giustificata, blandita da legioni di
intellettuali astratti e sofisti, artefici o strumenti di culture di odio e di morte. Non
certo una novità, se ricordiamo le complicità e i servilismi di tanti intellettuali
schierati nei totalitarismi.
I delegati dell’Unione Europea usciti dall’aula e poi rientrati hanno salvato la faccia a
meno della metà, hanno ottenuto degli emendamenti in pezzi di carta inutili e
ambigui.
E poi il Vaticano, che in un inveterato stile Pio XII, fa restare in aula il proprio
delegato anche quando escono gli europei, e che ha creduto giustificarsi invocando
ragioni morali contro ragioni politiche, quando sembra il contrario, che abbia seguito
un calcolo politico contro profonde ragioni morali. Il Vaticano ha ridotto un orrore ad
errore, magari emendabile. Quando anche i delegati di Giordania e Marocco hanno,
in modo significativo e coraggioso, lasciato l’aula con i delegati dell’UE.
Nel complesso, la gamma delle complicità e dei silenzi configura la pretesa, sul piano
politico e del condizionamento dell’opinione pubblica, di una “tirannia della
maggioranza” su scala mondiale contro le minoranze morali, nazionali e religiose.
Già solo l’uso sistematico del peso statistico delle legge del numero come criterio
discriminatorio a danno delle ragioni specifiche costituisce una violenza e contiene
una tendenza totalitaria.
Con franchezza, proviamo fastidio per quelle dichiarazioni di solenne “Mai
più!”pronunciate nel Giorno della Memoria, quando corrispondono a un silenzio di
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4. fronte al negazionismo che oggi da minoranza fanatica è diventato il regime politico
di una media potenza nucleare e un criterio regolatore di un movimento terrorista. Il
silenzio di fronte alla delegittimazione violenta della libertà e dell’ indipendenza
politica e morale del popolo ebraico di oggi si assuma la sua responsabilità.
Perché accade che nell’ideologia dell’ONU e in una certa doxa maggioritaria gli Ebrei
sono riconosciuti solo come vittime sacrificali e invece disconosciuti, odiati, negati, in
quanto popolo vivente nella compiutezza del suo diritto inalienabile, roccia di libertà
e speranza.
Se la Memoria per l’identità ebraica non è un mero passato rievocato ma vita e
vitalità, al presente e al futuro, per gli ipocriti la memoria diventa solo quella dei
cimiteri e dei musei. Contribuendo a questo esito: gli Ebrei tornati nella loro Terra
Promessa, dopo una plurimillenaria domanda di libertà, vengono criminalizzati
proprio per questo.
Ma, attenzione, la morte per gli Ebrei, è solo la punta di diamante di una strategia
geopolitica diretta a capovolgere l’attuale legalità internazionale. Come ha osservato
Carlo Panella, il regime iraniano unifica l’antisemitismo con un revisionismo che
vuole cancellare le responsabilità storiche del nazifascismo nello scatenamento della
seconda guerra mondiale e del verdetto politico- morale sul fascismo. Teheran
“ripropone una visione revisionista della storia del Novecento-scrive Panella- che ha
un notevole spessore nella tradizione iraniana (Là dove, non soltanto lo scià Reza,
ma anche ampi settori del clero nel 1940 sostenevano apertamente l’Asse), così come
in quella araba (tutti i gruppi dirigenti post coloniali in Iraq, Siria, Egitto, Palestina,
ma anche in Tunisia e Algeria si erano schierati o avevano complottato con il
nazifascismo sino al 1945)”.
Ne deriva la delegittimazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, per la permanenza
in esso dei membri della colazione antinazista, a favore di una strategia aggressiva
contro il “complotto” degli Ebrei e di un “capitalismo e un liberalismo che hanno
fallito”. Il maggiore pericolo dell’azione iraniana risiede in questo disegno di
ristrutturazione dell’ONU che elimini il diritto di veto e legalizzi un’alleanza
internazionale di attacco alle libertà istituzionali, all’economia di mercato, alla
convivenza tra le culture. Ideologia e prassi di un terrore che si pone in continuità
con il fascismo e con l’altro totalitarismo, il comunismo, sia sovietico, sia quello dell’
“alleanza antimperialista dei popoli oppressi” della quale l’ideologia khomenista
esprimeva l’eredità.
Nera notte a Ginevra, ma la speranza e la volontà di agire possono andare nella
direzione di un aumento della resistenza dei popoli e degli stati. Il pensiero va agli
studenti dell’Università di Teheran, in regime di carcere duro o scomparsi,
all’opposizione coraggiosa di giovani e donne nel popolo dell’Iran.
Nei giorni più oscuri dobbiamo far venire fuori la luce della ragione e della dignità
umana, favorire la resistenza antitotalitaria. Di tale luce ricordiamo che “Essa si alza
quando ancora è notte” (Proverbi. 31, 15).
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5. Ricordando Gino Ajì
Redazione
Il 20 dicembre del 2008 un male crudele, come si dice, ha strappato Gino Ajì alla sua
compagna (l’amatissima Rossana), alla sua famiglia, ai suoi numerosissimi amici e
all’Associazione Italia-Israele di Napoli, di cui è stato Presidente, per nove lunghi anni
(fu eletto nel maggio del 2000), fino all’ultimo giorno della sua vita. Cittadino partecipe,
generoso, conosciuto e rispettato nei più qualificati ambienti della nostra regione, Gino
ha fortemente contribuito, con il suo impegno, a difendere le ragioni e l’immagine di
Israele e a farne apprezzare, in tutte le occasioni possibili, i valori, le conquiste, le
bellezze e i tesori nascosti. Il suo impegno non aveva una matrice politica, religiosa o
ideologica, ma era parte integrante del suo più generale amore per la vita, gli uomini,
la natura. Di quella terra amava i colori, i paesaggi, i volti, la cucina, la musica. Gli
stessi che amava in tutti i Paesi del mondo, compresi quelli oggi nemici di Israele, per i
quali non desiderava altro che un comune futuro di benessere, pace e fratellanza.
Grande sportivo, sua altra grande passione fu la bicicletta; e due distintivi, nel suo
ultimo viaggio, gli sono stati appuntati sul petto, come due medaglie: quello di Italia-
Israele e quello del club dei “Cicloverdi”. Ed è facile immaginare quale dovette essere il
suo entusiasmo quando, nell’ottobre 2007, le sue due passioni si intrecciarono,
allorché poté partecipare a un grande giro ciclistico per Israele, insieme a circa
cinquecento compagni, di tutto il mondo, riuniti per raccogliere fondi di sostegno per
l’ospedale Alyin di Gerusalemme, specializzato nella cura dei fanciulli disabili. C’erano,
fra quei cinquecento, ragazzi di quindici, sedici anni; molti ventenni, molti trentenni;
alcuni quarantenni; pochi cinquantenni; due sessantenni. Un solo settantenne, da
subito divenuto il “beniamino delle folle”, spinto (pur non essendocene bisogno: non
pochi giovanotti erano costretti a cedergli il passo, e non per cavalleria), nei passaggi
più duri, da allegre grida di incoraggiamento: “Gino, Gino!”.
Come nel recente film “The bucket list” (in Italia, “Non è mai troppo tardi”) (nel quale i
due protagonisti, interpretati da Morgan Freeman e Jack Nicholson, ottengono, prima
dell’annunciata fine, di esaudire i loro più improbabili desideri inappagati), possiamo
ritenere che Gino, con quel festoso giro ciclistico attraverso Erez Israel, abbia coronato
un grande sogno della sua vita.
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6. E vogliamo ricordarlo così, mentre pedalava felice per le strade di Galilea, onorando lo
sport e l’Italia e portando un suo concreto contributo di solidarietà alla patria degli
ebrei e ai suoi bambini meno fortunati.
Un sogno realizzato, dunque. Se, domani o fra mille anni, si realizzerà anche il sogno
di potere pedalare, in amicizia e allegria, da Sderot a Gaza e da Haifa a Beirut, fino a
Damasco e a Teheran, lo si dovrà, un pochino, anche alla sua energia, al suo
ottimismo e alla sua fiducia.
Fabrizio Gallichi, consigliere nazionale dell’Ucei, ha lanciato in un’assemblea della
Comunità Ebraica di Napoli la bella proposta di piantare un albero dei giusti in
memoria di Gino in Erez Israel, mentre la signora Alberta Levi Temin lo ha ricordato
con semplici commosse parole. L’Associazione di Napoli, nell’eleggere il nuovo
Presidente, Giuseppe Crimaldi, giornalista de Il Mattino, e due vice-presidenti, ha
espresso un rinnovato impegno nella continuità dell’esemplare figura umana di Gino.
Nell’inaugurare il periodico Azmaut, ricordando Gino ci vengono in mente le parole di
un insigne scrittore israeliano Aharon Applefeld:
“Chi sono i veri amici?...
Se hanno una parola giusta la porgono come un pezzo di pane in tempo di guerra, e se
non ce l’hanno ti siedono accanto, e tacciono”.
Un albero di vita
Liberi di esistere, Shalom e pluralità delle nazioni
Antonio Cardellicchio
Un popolo piccolo per quantità, la voce di una minoranza che ha un messaggio
universale per le grandi maggioranze, una striscia di terra unica al mondo, una
cultura che ha la pace e la giustizia nella propria radice e nel proprio orizzonte, una
religione di pura fede e regole morali di condotta per il proprio popolo, che riconosce le
fedi e costumi degli altri popoli, che è una religione non proselite e non clericale,
antitetica a ogni forma di religione di stato ed imperialismo religioso, una terra di
libertà con una comunità politica di genere liberale e democratico, garante della
pluralità interna e di quella delle nazioni vicine.
Il diritto, santo e inalienabile, laico risorgimentale e storico razionale, di un popolo alla
sua libertà e indipendenza, in una terra di cui non è proprietario ma ‘affittuario’ per
obblighi morali, come una nazione particolare fondata su valori universali, che è la
negazione vivente e permanente di ogni nazionalismo coatto. Con un diritto vivente
che risiede nella capacità autorealizzata nel duro lavoro dei pionieri che è stato capace
di trasformare “un deserto in un giardino”.
Tutto questo è riconosciuto e negato, riconosciuto anche come esemplare da diverse
culture e persone, negato invece con un odio e una violenza tanto furibondi e
irrazionali da raggiungere l’estremo della cultura della morte e della distruzione, cioè
l’autodistruzione stessa delle forze del male.
Niente di nuovo sotto il sole.
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7. Nella esistenza plurimillenaria di un popolo che ha trasmesso di generazione in
generazione la propria identità, fede, cultura, in positivo, ed è stata ed è oggetto di
persecuzioni e massacri, sporadici e sistematici, ai limiti dell’estinzione.
Lo Stato degli Ebrei ha molti amici e ammiratori nel mondo ed ha diverse legioni di
nemici che ne negano l’esistenza e la legittimità, in un nuovo antisemitismo che ora ha
perduto la maschera dell’antisionismo, che lo confina a “Ebreo delle Nazioni” per
distruggerlo o sottoporlo a minaccia costante, riducendolo a un paese – ghetto.
L’attuale antisemitismo che nega il diritto di Israele è come tutti gli antisemitismi,
l’espressione puramente negativa e aggressiva di gravi problemi irrisolti e irrisolvibili
nel loro ambito da parte dei nemici stessi. Le tirannie statali e l’imperialismo da
“grande nazione” arabo islamista, politico secolare e – o fanatico religioso, i fascismi e
totalitarismi di vario genere, scaricano i loro problemi irrisolti sulla attuale “morte agli
ebrei”. Nemici ottusi che non riescono neppure ad essere amici di loro stessi, a non
concepire percorsi di soluzione positiva per i loro problemi e i loro popoli, trovano
comodo fabbricarsi un capro espiatorio, istigare centinaia di milioni a odiare,
aggredire, uccidere gli Ebrei di Israele, in una tipica cultura totalitaria “di massa”, che
già di per se stessa è nemica della dignità e libertà della persona e dunque, ostacolo
insormontabile alla loro evoluzione civile. L’antisemitismo di sempre è, come scriveva
Thomas Mann, “il socialismo degli stupidi”, perché quasi nessuno è ebreo; per cui
proprio perché la loro stessa identità nazionale è debole o inesistente al positivo, viene
artificialmente generato l’antiebraismo ideologico e fisico, come alibi violento
all’impotenza delle classi dominanti a favorire l’evoluzione delle loro specifiche possibili
civiltà.
Certo, Israele e gli ebrei non possono risolvere i loro problemi. Possono solo:
1) restare se stessi, vivere la propria vita in indipendenza
2) mantenere il proprio messaggio di civiltà e di convivenza
3) esercitare l’autodifesa verso un’aggressione permanente, misurata alla
straordinaria distruttività dei nemici e, nello stesso tempo, preservare il proprio
codice etico in tempo di guerra, di tregua, di pace, rigorosamente evitando di
diventare come loro, anche solo di una virgola.
Impresa difficile, ma giusta e possibile. Fondamentalmente realizzata, quasi sempre.
Osservare certe regole anche durante la necessaria guerra di difesa, lasciare sempre
aperta la porta di una pace futura.
L’autodifesa di Israele per chi riconosce i termini reali della drammatica contesa
appare ed è parte integrante di una prospettiva di pace e giustizia su scala regionale
capace di esprimere gli interessi legittimi dei diversi popoli. Un dilemma è presente
nella coscienza degli Ebrei e degli amici di Israele: l’indipendenza e la libertà di Israele,
ostacolate, aggredite, negate, si mantengono con il coraggio costante di un’iniziativa di
vigilanza e difesa, senza retrocedere d’un passo di fronte a nemici fanatici, razzisti,
ultrabarbari continuatori in modo implicito o esplicito del nazionalsocialismo
hitleriano, strumenti di un terrorismo globale e di un imperialismo panarabo e
islamista politico militare. In quanto tali nemici estremi di Israele e nemici di tutti gli
ordini giuridici e civili di libertà nel mondo. Nemici dunque di tutti i popoli anche di
quelli che dicono di rappresentare in senso razziale nazionalistico. L’altro lato del
dilemma: vivere ed agire essendo se stessi fino in fondo, nell’identità ebraica, nello stile
liberale e democratico degli amici di Israele, attori cioè di un ordine civile di relazioni
pacifiche e pluraliste. Nel fondamento di quella radicale cultura della persona e della
libertà-responsabilità, di inaudita e ardita potenza etica, di eterna fecondità che, nel
messaggio della Torah, è nello tzélem Elohìm (Genesi), l’immagine di Dio con la quale
accade la creazione divina della creatura umana. Un ordine che fa di ogni persona
singola il titolare originario di diritti inalienabili, umani e divini, pre-politici. E dunque
la singola, concreta, semplice esistenza della persona diventa contraria alla schiavitù,
riduzione a cosa, sudditanza, umiliazione; ed è invece associata con le relazioni
orizzontali di prossimità, nel rispetto e nell’amore, nella trama dei diritti e dei doveri,
nella regola etica del Kevòd ha-berìot, il rispetto per tutte le persone.
Rivoluzione spirituale corporale senza pari nel tempo dei tempi.
Radice sia santa sia secolare di ogni civiltà, di ogni fede, di ogni umanesimo.
Sommersa e riemersa nelle vicende tragiche o luminose dell’intera storia umana,
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8. calpestata e distrutta dalle tirannie, idolatrie, totalitarismi. Vivente nell’amore per il
prossimo, nelle coscienze illuminate, nelle relazioni civili e pacifiche.
Ma è poi veramente un dilemma? Non è forse il riconoscimento pieno
dell’indipendenza di Israele più che compatibile, parte integrante di un messaggio e di
una cultura di convivenza, della pluralità diversità dei popoli e delle nazioni nella
regione mediorientale e nel mondo? Chi ha occhi per vedere e udito per sentire ha
compreso da tempo che la leggenda nera dell’odio per Israele è una fabbrica del
mostro, una nebbia ideologica con cui gli oppressori interni dei popoli arabi e islamici
rinforzano le catene, irreggimentano le masse, negano in partenza anche solo
l’evocazione dei diritti della persona.
La logica politica dell’amico-nemico è sempre assoluta e spietata, è una
politicizzazione integrale che genera militarizzazione, nega in un monismo manicheo
ogni complessità, varietà, molteplicità, più semplicemente tappa la bocca, fucila,
impicca e sgozza. La continua guerra di aggressione a Israele è una necessità
totalitaria delle classi dominanti islamiste, utile per eliminare anche le più pallide
tipologie formali di democrazia rappresentativa .
Gli amici di Israele chiedono il suo riconoscimento come paese normale, questo è il
loro compito istituzionale, lo chiedono agli uomini normali, in nome del diritto
internazionale.
Molti uomini e popoli credono che Israele costituisca l’unica democrazia nel Medio
Oriente, opposta a regimi tirannici, e per questo esprimono la loro amicizia e
solidarietà. Una ragione sufficiente e persuasiva.
Israele non solo è diventata spontaneamente una democrazia liberale con il ritorno in
Eretz Israel e l’indipendenza politica, ma, nella sua esistenza plurimillenaria è stata
l’origine, la sorgente di vita e il cuore profondo dell’intero fiume delle azioni e delle idee
di uomini e popoli per la libertà e la democrazia, di tutte le rivoluzioni e riforme
istituzionali costituzionali, in forme e gradi molto diversi, in modi sia indiretti che
diretti.
Se nella civiltà greca l’uomo, antropos, era riconosciuto solo perché diventava cittadino
della polis, zoon politikon, cioè solo in quanto membro della comunità politica, nella
civiltà ebraica, nella Torah, invece, la creatura umana in quanto creazione divina, è
persona di per se stessa. È un’antropologia della libertà che è cultura della persona in
modo radicale, in senso prepolitico e la politica stessa è riconosciuta se è limitata e se
essa riconosce la preesistenza originaria della persona soggetto del diritto.
Così l’idea del Patto (parola chiave presente trecento volte nella Torah) tra Dio e il
popolo d’Israele, stabilito su fondamentali regole di condotta, ispira diverse genealogie
e storie delle politiche di libertà, nella visione, di tipica matrice ebraica, di istituzioni
legittime perché pattizie e associative, con tutto lo straordinario dinamismo
rivoluzionario che questa visione scatena. Con una de-sacralizzazione del potere
politico capace di motivare le azioni umane a favore di una limitazione incessante del
potere politico, per la salvaguardia dell’indipendenza delle persone e delle libere
comunità.
Indipendenza dalla servitù o sudditanza politica e, nel contempo, vita di relazioni
etiche di un popolo, di una comunità volontaria, dove l’elezione divina di Israele si
esprime in un carico di doveri per sé ma non per gli altri.
La trascendenza divina richiede amore e rispetto per il prossimo (a una verticalità di
fede corrisponde un’orizzontalità di relazioni umane molteplici), il Patto con l’Eterno è
garanzia suprema di un ordine morale e giuridico, così nei termini etico religiosi.
Mentre in termini secolari razionali significa che la limitazione del potere politico è
resa possibile dalla capacità e consapevolezza dell’autogoverno popolare, dalla libera
responsabilità delle persone e di un popolo. Esercizio della libertà, libertà esercitata,
nel pluralismo della vita sociale, di una società civile autonoma, in una rete di corpi
intermedi, libere iniziative e poteri originari diffusi.
La compatibilità e l’interazione della propria libertà con le altrui libertà, della libertà
individuale con le relazioni di prossimità, del proprio piccolo mondo privato con le
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9. sfere private degli altri e lo spazio pubblico, comportano, nel Diritto e nell’Etica
dell’Ebraismo, una libertà che agisce come responsabilità, un’autolimitazione
‘spontanea’della propria libertà nel pieno riconoscimento dei doveri.
Doveri verso Dio e verso il prossimo, ci ricorda un insigne giurista ebreo israeliano
Alfredo Mordechai Rabello:
“…non è quella dei diritti la prospettiva normalmente presa in considerazione dal
Diritto ebraico nell’affrontare i problemi; tale diritto ci ha abituato a fissare l’attenzione
sui doveri dell’uomo verso D-o, che si traducono anche in doveri verso il nostro
prossimo.
Per esempio, la Bibbia non parla del diritto del genitore ad essere onorato dal figlio e
del diritto del nostro prossimo all’amore, ma essa parlerà del nostro dovere, vero e
proprio precetto affermativo di onorare nostro padre e nostra madre (come
apprendiamo dal quinto dei Dieci Comandamenti) e del dovere di amare il nostro
prossimo come noi stessi”.
Il diritto ebraico è considerevolmente singolare, possiede la vita millenaria di una
tradizione vitale e solida e l’attualità di un diritto vivente capace di rispondere ai
problemi complessi e sofisticati di oggi. Da un lato, si fonda sulla Torah e sul Talmud
esprimendo valori e regole perenni nel cambiamento incessante delle generazioni e del
mondo, dall’altro (anzi, proprio per questo) è capace di individuare la concretezza del
caso, il volto della singola persona, la specificità della relazione tra uomini.
Comunità ebraiche senza un proprio stato e disperse in mondi diversi, spesso ostili,
hanno saputo realizzare durante millenni un autogoverno giuridico che presenta
alcuni aspetti esemplari. Che appaiono in sintonia con i più avanzati problemi
giuridici del tempo dell’odierna rivoluzione telematica.
Paradossale secondo le pretese di una logica monistica, ma ben comprensibile e ben
funzionante, perché è un Diritto tanto fermo e roccioso nei suoi fondamenti, quanto
flessibile e aperto nella sua regolazione concreta perché, da entrambi i lati, è un diritto
vivente e non una normazione astratta e impersonale.
Accade dunque che, mentre il diritto di legislazione politica, sempre più proliferante e
invasivo, il diritto statizzato, sempre più astratto e impersonale, è entrato in una crisi
profonda e irreversibile e si mostra impotente nella soluzione dei problemi giuridici del
nostro tempo. Si veda, tra l’altro, l’Unione Europea, diventata un pachiderma
burocratico che impone normative astrattissime, spesso irrazionali, sempre
politicizzate, su tutto e a tutti, portando all’apice la divaricazione tra diritto di
legislazione e diritto di giurisprudenza e quella tra i cittadini singoli, le diversità delle
persone e dei popoli, e un super-stato di apparato, forse al limite estremo di una
frontiera tra uno statalismo senza diritto e il diritto in quanto tale. Mentre invece il
diritto ebraico si mostra capace di navigare nell’ultra-modernità, di individuarne i
problemi e offrire risoluzioni di casi, proprio perché già come diritto ultra-tradizionale è
un diritto vivente, affidato a una pluralità di decisori, a un corpo di sterminata
interpretazione e diversificazione, al faccia a faccia di uomini singolari, al caso
concreto come fondamento del diritto e non come un semplice adattamento di una
legislazione uniformata, deliberata dal comando politico, come accade nella maggior
parte dei diritti di stato.
Al contrario del diritto statale contemporaneo e del diritto canonico moderno, il
sistema ebraico non attribuisce una funzione centrale alla legislazione, anzi non ha
una centralità e si fonda invece sui maestri e i loro giudizi, in un pluralismo
complessivo. Perché semplicemente non esiste né il decisore centralizzato della
sovranità statale, né un’istituzione centrale come nella Chiesa Cattolica, che
stabiliscono deliberazioni obbligatorie e coercitive per un intero paese o un’ intera
comunità.
L’impianto del diritto ebraico è molto significativamente reticolare e non piramidale e
proprio questo lo rende diritto vivente dai tempi millenari alla contemporaneità.
Si è visto che Israele, per tanti aspetti, non è proprio un paese normale, che è investito
da un incommensurabile valore simbolico e da una reale singolarità.
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10. Ma come l’elezione del suo popolo vuole dire solo l’intensità e l’estensione dei suoi
doveri morali, così la segullah (singolarità) di Israele contiene il fondamentale e pieno
riconoscimento della specificità e diversità di tutte le nazioni e culture del mondo.
Come dire che la propria diversità ha nel suo dna il rispetto per tutte le altre nazioni e
un universalismo della pluralità, costitutivo per tutti i popoli del mondo, e dunque
contiene dentro di sé la richiesta e la speranza di relazioni pacifiche di convivenza e
mutuo rispetto con tutti. Per la fede e la cultura ebraica non ci può e non ci deve
essere un’unica legge e un’unica religione per tutti gli uomini, perché ciascun popolo
ha un proprio carattere peculiare, una sua evoluzione e cultura. Israele è l’unica
minoranza al mondo che non vuole e non può diventare maggioranza, e dunque
contiene nel suo messaggio universale il pluralismo come senso di verità, esperienza
esistenziale insopprimibile, grande incessante apertura orizzontale, necessità e
capacità di dialogo inter-culturale, bisogno assoluto di vivere in pace con se stessi e
con gli altri.
Che tale modo di essere e di agire, di intrinseci e intimi valori positivi, di regole di
condotta e di pace, venga dipinto dalla leggenda nera come un’Israele razzista e
imperialista, prova solo che la tirannia della maggioranza su scala globale non tollera e
non accetta, ma odia e minaccia di morte le minoranze che vivono la propria diversità,
difendono la propria indipendenza e si mostrano esemplari per la libertà e
responsabilità di tutti i popoli.
Che imperialisti e razzisti, secolari e religiosi, fanatici e idolatri, seminatori di odio e di
morte, di terrore e distruzione, siano naturalmente antisemiti, prova solo che, come
sempre, ogni programma di “morte agli ebrei” significa schiavitù e oppressione per
tutti.
E riprova l’esemplarità ebraica che, proprio perché respinge la subalternità e
l’assimilazione all’egemonia altrui per vivere la propria vita in libertà, afferma un
messaggio e un sentiero di giustizia, pace e libertà per tutti gli altri.
(La seconda parte nel n.2; in particolare sugli argomenti di Shmuel Trigano sulla
demonizzazione di Israele, il sacrificalismo, il nuovo antisemitismo) (Questo articolo
esprime alcuni argomenti e accenti ‘personali’. Azmaut e l’Associazione sono plurali e
richiedono la libera partecipazione di voci e accenti diversi).
Dichiarazione d’indipendenza
Francesco Lucrezi
Di imminente pubblicazione in Francesco Lucrezi, Ebraismo e Novecento, diritti,
cittadinanza, identità., Edizione Belgorte, Livorno.
1.- Ebraismo, esilio, sionismo.
La Dichiarazione di Indipendenza di Israele, pronunciata a Tel Aviv, il 14 maggio 1948
(5 di Iyar 5708), dal governo provvisorio, presieduto da David Ben-Gurion, atto
fondativo del risorto stato ebraico, rappresenta, sul piano giuridico, un documento
alquanto peculiare, frutto della particolare congiuntura storica in cui fu steso e
approvato e delle singolari caratteristiche tanto della diaspora ebraica quanto
dell’ideale sionista.
Se il sionismo, secondo il progetto di Theodor Herzl, avrebbe dovuto porre fine alla
diaspora (cosa che, invece, non è avvenuta, se non in parte), così la rifondazione di
Israele avrebbe dovuto portare al compimento, e quindi alla fine dello stesso sionismo
10
11. (come ebbe a dire lo stesso Ben Gurion, poco dopo la conquista dell’indipendenza, da
quel momento un ebreo avrebbe potuto essere sionista solo per poche ore, quelle della
durata di un volo per Tel Aviv). Anche questa idea, però, la fine del sionismo, si è
rivelata illusoria, in ragione della persistenza tanto della diaspora quanto
dell’incancellabile legame tra essa ed Erez Israel (ossia tra l’ebraismo ‘dentro’ e ‘fuori’ i
confini della patria ebraica): la Dichiarazione d’Indipendenza, così, non è lo
spartiacque tra età dell’esilio ed età della nazione, tra sionismo e post-sionismo, ma
una sorta di palingenesi, di salto di qualità dell’intero ebraismo mondiale. E di tale
indissolubile legame, così come delle contraddizioni e aporie da esso implicate, la
Dichiarazione stessa dà eloquente testimonianza.
Per apprezzare il valore giuridico di tale atto, cercheremo di dare risposta a quattro
domande di fondo:
a) Qual è, alla luce della Dichiarazione, la legittimità del risorto Stato ebraico?
b) Qual è il valore costituzionale della Dichiarazione stessa?
c) Di chi, secondo la Dichiarazione, è la patria lo Stato di Israele, chi ha diritto a
esserne cittadino?
d) Israele, sempre secondo la Dichiarazione, nasce come Stato moderno, o ‘rinasce’
come la nazione cancellata, nel 70 d.C., dall’impero romano?
2.- Legittimità dello stato di Israele.
La Dichiarazione di Indipendenza fa riferimento, come base della legittimità dello
Stato, essenzialmente a tre fattori: l’antico diritto storico degli ebrei sul suolo della
“propria antica patria” (3° comma: nella parte centrale della Dichiarazione, si parla di
“diritto naturale e storico”); la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 (5° c.); la
Risoluzione 181 del 29 novembre 1947 delle Nazioni Unite (9° c.). Di questi tre, il
prevalente sembra senz’altro essere il primo, che rinvia alla millenaria sovranità
statuale ebraica in terra d’Israele, nonché al mai interrotto legame di appartenenza tra
popolo ebraico ed Erez Israel.
Il riferimento al “diritto naturale” richiama quello alla “legge di natura” scritto nella
Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, giustamente definita “figlia
del giusnaturalismo”: ma se i “Founding Fathers” si appellarono alle “Laws of Nature
and of Nature’s God”, i padri costituenti d’Israele, pur rappresentanti di un popolo
nato e cresciuto nella fede nel Dio unico, preferirono dare allo Stato un fondamento
puramente laico, evitando qualsiasi riferimento alla divinità come sorgente di
legittimità, ma sancendo unicamente un appello al suo sostegno (finale della
Dichiarazione: “confidando nell’Onnipotente, noi poniamo le nostre firme…”): una
scelta, questa, che è il segno della netta prevalenza, tra le forze che realizzarono
l’indipendenza, di quelle di ispirazione laico-socialista (e che, forse, con più difficoltà
potrebbe essere oggi ribadita, tenuto conto dell’accresciuto peso, nella società
israeliana, dei partiti di ispirazione religiosa).
Quanto ai riferimenti alla Dichiarazione Balfour (così detta dal nome del Ministro degli
Esteri Britannico, che dichiarò il favore di Sua Maestà alla costituzione di un ‘focolare
nazionale’ ebraico in Palestina) e alle Nazioni Unite (che, com’è noto, nl ’47 sancirono
la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo: spartizione
accettata dagli ebrei, ma rifiutata dalla totalità del mondo arabo), essi denotano un
evidente bisogno di legittimazione innanzi alla comunità internazionale. Entrambi
potrebbero essere considerati superflui, se si tiene conto che la Dichiarazione Balfour
non fu altro, in origine, che una semplice lettera di intenti, significativa sul piano
politico, ma priva di effetti vincolanti sul terreno del diritto. (Un vero e proprio
riconoscimento giuridico, sul piano internazionale, del contenuto della Dichiarazione
si sarebbe avuto solo nel 1922, quando essa venne inclusa, parola per parola, nel
testo del Mandato conferito dalla Società delle Nazioni, che investì la Gran Bretagna
della “responsabilità di mettere in pratica la dichiarazione fatta originariamente il 2
novembre 1917… a favore della creazione in Palestina di una sede nazionale per il
popolo ebraico”).
Quanto alle Nazioni Unite, la cui Risoluzione del 1947 è spesso addotta (o criticata)
come primo fondamento giuridico del diritto all’esistenza di Israele, va ricordato che a
esse non è mai stato riconosciuto, in nessun modo, alcun potere di ‘fare’ o ‘disfare’ gli
Stati, la cui esistenza, sul piano del diritto internazionale, va constatata
esclusivamente sulla base del principio dell’effettività, ossia della semplice presa d’atto
della loro esistenza. La maggioranza degli Stati arabi creati dopo lo smembramento
dell’impero turco erano stati fondati, dopo la prima guerra mondiale, a seguito di
11
12. semplici accordi (spesso soltanto bilaterali) tra le potenze ex coloniali, né, dopo la
seconda guerra e la fondazione delle Nazioni Unite, l’accettazione dei numerosissimi
nuovi membri nell’Assemblea dell’Organizzazione è stata mai vista come una
‘creazione’ di sovranità, piuttosto che come un mero riconoscimento diplomatico.
Evidentemente la nascita dell’ONU, nel 1945, aveva suscitato l’effettiva speranza di un
nuovo ordine di legalità mondiale, che in tale Assemblea avrebbe visto il primo
riconoscimento dei diritti dei popoli: una speranza talmente radicata, nei padri di
Israele, che le Nazioni Unite sono menzionate, in un testo di soli 18 commi, ben cinque
volte; e una speranza, si può dire, che sarebbe poi stata, segnatamente dal punto di
vista israeliano, ampiamente delusa, se si considera l’atteggiamento a dir poco severo
che avrebbe sovente assunto, negli anni successivi, l’Assemblea Generale dell’ONU
(che sarebbe arrivata, nel 1977, ad approvare una vergognosa risoluzione [n. 3379],
poi revocata il 16/12/91, di equiparazione di sionismo e razzismo).
Ma c’è anche da ricordare che, al momento della loro costituzione, nel ’45, le Nazioni
Unite contavano tra i propri membri una maggioranza di Paesi democratici (e della
stessa Unione Sovietica di Stalin si aveva una conoscenza alquanto lontana dalla
realtà) - al contrario della situazione odierna, che vede una netta prevalenza di regimi
totalitari -, e che gli ideali delle Nazioni Unite, indicati, nella Carta di San Francisco,
nella costruzione di un mondo di pace, giustizia e fratellanza, sembravano in assoluta
sintonia con l’ideale sionista. Quanto questi ideali siano stati disattesi (e non solo dal
punto di vista dello stato ebraico), è sotto gli occhi di tutti, ma Israele, se così si può
dire, resta condannata dalla stessa Dichiarazione di Indipendenza a vedere la propria
esistenza legata al benestare di una istituzione che così poco mostra di amarla e
rispettarla, e che tanto si è allontanata dalla propria originaria missione.
3.- Valore costituzionale della Dichiarazione d’Indipendenza.
La Dichiarazione di Indipendenza, com’è noto, non è una carta costituzionale. Come
ha chiarito la Corte Suprema israeliana, già il 2 dicembre 1948, essa “non fa che
stabilire il fatto stesso della creazione dello Stato… Essa esprime la volontà del popolo
e la sua professione di fede, ma non può in alcun modo essere considerata come una
regola costituzionale alla luce della quale sarebbe possibile verificare la
costituzionalità di leggi e ordinanze”. E lo stesso Ben Gurion, nella discussone del
Governo provvisorio precedente all’approvazione della Dichiarazione, il medesimo
giorno 14 maggio del ’48, disse: “Non è una Costituzione, vi sarà una Costituzione a
parte”. Tuttavia, tale fondamentale Documento riveste, indubbiamente, un alto valore
sul piano giuridico e costituzionale: il valore – secondo la definizione di Meir Shamgar,
ex presidente della Corte Suprema – di “un atto politico con significato giuridico”.
La Dichiarazione stessa, al 12° comma, prevedeva che una Costituzione avrebbe
dovuto essere promulgata da un’Assemblea Costituente, da eleggersi non più tardi del
1° ottobre 1948. L’Assemblea fu eletta, ma la sua prima delibera, nel ’49, fu quella di
spogliarsi della funzione costituente, trasformandosi in Parlamento ordinario (la
Knesset), e ciò in quanto, essendo stata eletta dal popolo, si vide depositaria di
un’autorità di gran lunga superiore rispetto a quella del governo provvisorio - che era
privo di tale legittimazione –, e fu pertanto subito chiamata ad affrontare le vitali
emergenze della guerra e della ricostruzione. Né la redazione di una Costituzione
scritta sarebbe mai stata affrontata operativamente in seguito, nonostante reiterate,
autorevoli richieste in tal senso: “the time has come to write a Constitution”, per
esempio, è il titolo di un’intervista rilasciata, nel 1998, dal grande giurista Haim Cohn,
già Vice-Presidente della Corte Suprema d’Israele.
Le ragioni della mancata stesura, a tutt’oggi, di un testo costituzionale unitario vanno
ricondotte a una serie di diversi e gravosi problemi, quali quello della controversa
conciliabilità tra la natura ‘ebraica’ dello stato e il suo carattere ‘democratico’ (Theodor
Herzl, nel suo famoso opuscolo, Der Judenstaat, non a caso aveva parlato, infatti, di
uno ‘Stato degli ebrei’, piuttosto che di uno ‘Stato ebraico’), e quindi della definizione
del diritto di appartenenza delle minoranze musulmane e cristiane (composte da
cittadini a pieno diritto, ma non ebrei), della stessa natura laica o religiosa dell’identità
ebraica dello Stato (forte è stata ed è ancora l’opposizione all’idea di Costituzione da
parte della maggioranza dei religiosi, secondo cui fondamento di uno stato ebraico non
può essere altro che la Torah) o, ancora, della perenne presenza di altre, non rinviabili
emergenze nazionali, a cui dare la precedenza.
Nel 1950 una legge, chiamata Harari dal nome del deputato proponente, avrebbe
comunque dato il via a un lungo e lento processo costituente ‘a tappe’, attraverso
l’emanazione, a maggioranza qualificata di voti, di una serie di ‘leggi fondamentali’,
destinate a dar corpo, in un non definito futuro, a una forma di Costituzione (la prima
legge fondamentale, sulla Knesset, non sarebbe stata approvata che nel 1958). Nel
1992 due leggi fondamentali, sulla ‘Libertà di occupazione’ e sulla ‘Dignità umana e
libertà’ (implicanti, secondo l’allora Presidente della Corte Suprema, il grande giurista
Aharon Barak, una “rivoluzione costituzionale”), avrebbero portato, per la prima volta,
una ‘clausola limitativa’, la quale così recitava: “Non vi saranno violazioni di diritti
12
13. previsti da questa legge, tranne che per una legge consona ai valori fondamentali dello
Stato di Israele, designata per una giusta causa e in misura non superiore al
necessario”.
Le leggi ordinarie, dunque, sono state assoggettate al giudizio della Corte Suprema, la
quale (diventando, così, oltre che Corte di Appello e Cassazione, anche un equivalente
di Corte Costituzionale) avrebbe potuto e dovuto sindacarne la conformità alle leggi
fondamentali (assurte quindi al rango di ‘leggi costituzionali’, come riconosciuto in una
successiva pronuncia della stessa Corte), giudicando, in caso di presunta violazione,
se questa avvenga nel rispetto dei “valori fondamentali” dello stato.
Sorse, però, il problema di definire quali fossero questi “valori fondamentali”, cosicché,
il 9 marzo del 1994, fu approvato un testo riveduto della legge fondamentale sulla
Libertà di occupazione, nel quale si spiegava che tali valori erano quelli indicati in una
bozza del Ministero della Giustizia, che faceva a sua volta esplicito riferimento alla
Dichiarazione di Indipendenza. Le leggi ordinarie, quindi, devono conformarsi alle
Leggi fondamentali, ma possono ad esse derogare in ossequio alla Dichiarazione di
Indipendenza. Com’è evidente, la Dichiarazione di Indipendenza, in quanto norma
sovrastante rispetto alle Leggi fondamentali, è quindi salita su un rango superiore a
quello di una stessa Carta Costituzionale.
4.- Patria e cittadinanza.
La Legge del Ritorno, approvata (non come legge fondamentale, la prima delle quali,
come detto, risale al 1958) nel luglio 1950 dalla Knesset (e poi completata dalle
successive Leggi della Cittadinanza, del 1952 [che chiariva la posizione dei cittadini
non ebrei] e dell’Ingresso, sempre del ’52 [sui visti di entrata e i limiti di soggiorno nel
Paese per i non israeliani]), sancisce che ogni ebreo che lo desideri, al momento del
suo trasferimento (attraverso la ‘aliyà’, la ‘salita’ nella Terra Promessa) in Israele,
acquisti immediatamente (in quanto ‘olè’, ‘salito’) la cittadinanza israeliana. Tale legge
deriva direttamente da quanto statuito nella Dichiarazione di Indipendenza, che
stabilisce che lo Stato ebraico “aprirà le porte della patria a ogni ebreo” che vi faccia
ritorno, conferendo all’intero “popolo ebraico la condizione di membro nella famiglia
delle nazioni con tutti i privilegi” (6° c.), e “sarà aperto all’immigrazione ebraica e alla
riunione degli esiliati” (12° c.).
Se la “completa uguaglianza di diritti sociali e politici”, “senza distinzione di religione,
razza o sesso” (12° c.), è garantita a tutti gli abitanti del Paese, e quindi anche alla
minoranza araba, è evidente che il carattere ‘ebraico’ dello Stato, e la sua
incondizionata accoglienza verso tutti gli ebrei del mondo, pongono le basi di una
singolare estensione della cittadinanza nei confronti dell’intero popolo mosaico. La
cittadinanza israeliana, è da notare, non viene automaticamente estesa a tutti gli
ebrei, ma solo a coloro che esercitino tale facoltà, effettuando la aliyà, e ciò crea un
indissolubile, peculiare rapporto di appartenenza tra il popolo israeliano e la golà,
l’ebraismo della diaspora, ‘potenziale’ cittadino dello Stato. Se alcune insofferenze
serpeggiano, da tempo, in alcuni settori della società civile israeliana, verso la
perpetuazione della legge del ritorno come diritto incondizionato (in particolare nei
confronti degli ebrei residenti nei Paesi liberi e opulenti, che avrebbero ormai avuto
più di mezzo secolo per esercitare tale diritto), è da credere che queste non potranno
mai valere a rinnegare tale principio basilare, che è scolpito in modo ineludibile nella
Dichiarazione di Indipendenza. Israele sarà sempre la ‘patria potenziale’ di tutti gli
ebrei.
Si noti che la Dichiarazione di Indipendenza non si pronuncia sulla definizione di chi
possa dirsi ‘ebreo’, cosicché tale problema, ai fini dell’esercizio dei diritti previsti dalla
Legge del ritorno, si è più volte presentato innanzi alla giurisdizione israeliana, fino
alla Corte Suprema. Particolarmente noto il caso dell’ebreo Rufeisen, noto come
‘fratello Daniel’, convertito al cattolicesimo ed entrato in un ordine religioso, che chiese
di essere registrato come ebreo, vedendosi respinta la richiesta dalla Corte Suprema,
nel 1962, con la motivazione che nell’ebraismo nazionalità e religione non possono
essere separati. Altro caso controverso fu quello dei figli di un padre ebreo e una
madre non ebrea, gli Shalit, per i quali i genitori chiesero la cittadinanza, pur non
avendo provveduto alla loro conversione; la Corte Suprema, nel 1968, accolse, a
maggioranza, la richiesta. Solo nel 1970 la Legge del Ritorno è stata emendata, per
includervi una definizione di chi sia ebreo, secondo la quale è da considerare tale chi
sia nato da madre ebrea o si sia convertito all’ebraismo e non appartenga ad altra
confessione religiosa (lasciando tuttavia aperta la questione di quali conversioni siano
da considerare valide, se solo quelle effettuate secondo il rito ortodosso, o anche quelle
promosse dalle sinangoghe riformate: la Corte Suprema, nel 1987, emanò una
sentenza di apertura, ma il problema è tuttora oggetto di discussioni e contrasti).
5.- Israele antico e moderno.
Sul piano storico, civile, culturale e religioso, non c’è dubbio che quella di Israele, nel
1948, sia non una ‘nascita’ ma una ‘rinascita’, a distanza di quasi 19 secoli, della
stessa identità statale cancellata, nel 70 d.C., dall’impero romano. Una rinascita
compiuta dai discendenti degli esiliati, che, sulla stessa terra degli antichi re, profeti e
13
14. sacerdoti di Israele, intorno alla stessa Gerusalemme di Davide e Salomone, hanno
fatto rifiorire la patria perduta – caso unico nella storia -, professando la stessa
religione, parlando la stessa lingua, osservando le stesse tradizioni del remoto passato.
Significativamente, il numero degli ebrei presenti in ‘Erez Israel’ al momento
dell’Indipendenza (circa 650.000 anime, in gran parte scampati alla Shoah) è ritenuto
coincidente, secondo la tradizione, con quello dei seguaci di Mosé che, verso il 1200
a.C., si affrancarono dalla schiavitù d’Egitto e, traversato il deserto, raggiunsero la
Terra Promessa, per ivi dar luogo alla prima ‘nascita’ della nazione.
Sul piano giuridico e costituzionale, si può senz’altro dire che la rinascita di Israele,
nel senso non solo di un riacquisto di sovranità e indipendenza da parte di un popolo
che ne era stato spogliato in età antica, ma di una vera e propria ricostituzione di
un’identica identità statuale, ‘interrotta’ o ‘sospesa’ per una quasi bimillenaria
‘parentesi’, rappresenti un unicum, una realtà senza analogie o precedenti storici
(nessuno, per esempio, vedrebbe una qualche forma di continuità giuridica tra l’Italia
di oggi e la Roma di Cesare, o tra l’Egitto odierno e quello dei Faraoni). Eppure, nel
caso di Israele, tale continuità esiste, anche sul piano del diritto, e trova proprio nella
Dichiarazione di Indipendenza la sua solenne sanzione, già nel 1° comma (che apre la
Dichiarazione ricordando che il popolo ebraico proprio in Erez Israel “ha ottenuto per
la prima volta un proprio stato”), e poi nel 2° (che ricorda l’ininterrotta fedeltà, nei
secoli dell’esilio, alla patria perduta), nel 3° (che ricorda i secolari sforzi degli ebrei per
“ristabilirsi nella propria antica patria”), nel 4° (ove si rammenta la proclamazione, in
occasione del Primo Congresso Sionistico, del 1897, del “diritto del popolo alla
rinascita nazionale nel proprio Paese”), nel 5° (che afferma l’esigenza di ‘ristabilire’ lo
stato ebraico in Erez Israel).
Certamente, i concetti di ‘stato’ e di ‘sovranità’ nel mondo antico erano ben diversi da
quelli contemporanei, ma proprio la singolare, ancorché unica, realtà del caso
israeliano dovrebbe, a nostro avviso, contribuire a fare accettare un’interpretazione
più ‘estensiva’ ed elastica dell’idea di statualità, facendo prendere atto che una
moderna sovranità possa riproporre la realtà storica e giuridica di un’entità del
passato, sospesa ma non cancellata. Perché la continuità tra l’antico e il moderno
Israele non è simbolica ma concreta, reale, come può essere dimostrato da svariati
esempi.
La Knesset, il Parlamento unicamerale israeliano, si presenta come la ricostituzione
della stessa Knesset Ha-Ghedolah dei tempi di Esdra e Neemia (V sec. a.C.), di cui
riproduce, anche nel numero di membri (120) la funzione di rappresentanza popolare.
La legge istitutiva dello Yad Va-Shèm, il sacrario della Shoah, del 1953, estende una
‘cittadinanza della memoria’ (non ‘onoraria’ o ‘simbolica’, ma giuridicamente effettiva,
ancorché post mortem) a tutti gli ebrei d’Europa sterminati durante l’Olocausto,
mostrando un’estensione retroattiva della sovranità dello stato risorto.
Tale forza retroattiva è evidente e dichiarata anche nella legge della Knesset che
permette di perseguire, senza limite di prescrizione, i crimini nazisti contro il popolo
ebraico (e la Corte, durante il processo Eichmann, nel 1961, respinse, in ragione di
questa dichiarata retroattività legale, le eccezioni della difesa, secondo cui il processo
sarebbe stato illegittimo, venendo l’accusato giudicato in forza di una norma non solo
scritta dopo i fatti oggetto del giudizio, ma addirittura promulgata da uno stato che, al
tempus commissi delicti, non esisteva).
Molti settori del vigente diritto israeliano (in particolare in tema di diritto di famiglia:
matrimonio, divorzio ecc.) sono ancora disciplinati dalla halachà (la parte precettiva
della Torah, ricavata dai 613 precetti [mitzvòt] del Pentateuco), ossia dalla medesima
normativa in vigore nell’antico Israele, ed è sempre ad essa che si fa riferimento –
attraverso l’interpretazione del Rabbinato, a volte sollecitata dalle stesse autorità civili
– per la soluzione di alcune questioni controverse (p. es., in tema di bioetica).
E ancora, quando, agli inizi degli anni ’60, furono scoperti 27 scheletri sulla rocca di
Masada (dove, nel 73, d.C., si tolsero la vita gli ultimi zeloti combattenti contro Roma,
per non cadere vivi nelle mani del nemico, e dove periodicamente, ai giorni d’oggi, i
soldati di Israele giurano di difendere la patria [“Masada shall never fall again”]), il
governo d’Israele, avendo mostrato di credere all’identificazione – pur contestata – di
tali resti nelle spoglie di alcuni dei resistenti, volle ad essi tributare onoranze di stato.
Gli esempi addotti – pur potendosi l’elenco allungare – dovrebbero essere sufficienti.
Ma non si può chiudere questa nota senza accennare al lungo e triste capitolo della
presunta ‘continuità negativa’, ossia agli ostili pregiudizi di chi ha mostrato (o mostra
ancora) di ritenere che lo stato ebraico non sia risorto ‘creditore’, nei confronti della
storia, di milioni e milioni di martiri, ma piuttosto ‘debitore’, per sempre, per la sola,
‘eterna’ e terribile colpa del ‘deicidio’. Singolare esempio di tale idea ‘malata’ di
continuità, e di un suo risvolto giuridico, si ebbe in un’iniziativa concertata che, subito
dopo la costituzione della Corte Suprema israeliana, nel 1949, vide giungere al
Tribunale, da varie parti del mondo, una serie di istanze tendenti a chiedere la
revisione della sentenza di condanna pronunciata, dal Sinedrio di Gerusalemme,
contro Gesù di Nazaret.
Il Presidente del Tribunale, Moshè Smoira, chiese al giovane Procuratore Chaim Cohn,
studioso di diritto ebraico e romano antico, nonché suo genero, di rispondere con
cortesia – nonostante l’evidente spirito malevolo delle richieste – ai sottoscrittori,
14
15. spiegando le ragioni dell’incompetenza della Corte (invito che fu volentieri raccolto da
Cohn: il quale, anzi, si interessò talmente al caso richiamato da dedicare anni di studi
alla vicenda, poi sfociati nel celebre libro, ora tradotto anche in italiano, Processo e
morte di Gesù. Un punto di vista ebraico).
L’Israele moderno, dunque, è veramente nato – per usare il titolo dell’altro, noto libro
di Herzl – come ‘Altneuland’, patria nuova e antica. Oggi, a distanza di sessantuno
anni dalla sua fondazione, esso non solo non più figura più, e da tempo, tra i membri
‘iuniores’ dell’Assemblea delle Nazioni Unite, ma si conferma anche, e per sempre, il
Paese più antico del mondo.
Guerra e pace nell’ Ebraismo
Rav Roberto Della Rocca
Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.
Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con
troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.
Lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato
contrassegnato da grandi e continue battaglie.
In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i
periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per
quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra
guerre furono evidentemente degni di essere registrati.
Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta
l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.
Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve.
Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico.
Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra
stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua
giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve
essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà
del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un
trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e
moralità ebraica.Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro
alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è
detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere
contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace".
Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si
dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la
possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita
… non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la
popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero"
(Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.
Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere
gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo
(Hilchòt Melachim 6:7-10).
Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le
distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano
l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che
quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri
forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.
15
16. Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei
nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli
oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la
distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo
metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature
stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?"
Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite
erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di
gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per
la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli
egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra
allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da
altri esseri umani.
Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha
comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.
Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti
umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata
al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome
poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le
guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una
guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a
Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.
La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le
nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.
In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di
completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e
dall’intolleranza.
Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire
e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il
giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti
essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima
sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le
tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne
risulta la pace…".Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la
completi e la attui pienamente.
Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogni
sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la
guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo
disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della
Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi
una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni,
perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo,
ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per
ogni persona.
Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene
supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom"
pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio,
conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo
shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).
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17. Il Negev: la Frontiera
Luciano Tagliacozzo
Seguendo una ispirazione dei fondatori dello Stato Ebraico, in particolare di David Ben
Gurion, il KKL (Fondo Nazionale Ebraico) ha stabilito nel 2005 un piano di nuovi
insediamenti nel Sud di Israele, il deserto del Negev, che diventa il nuovo terreno per
la “colonizzazione interna”, cioè l’espansione demografica , agricola e industriale
israeliana. A tutt’oggi il Negev è dimora di 379.000 ebrei e 174.000 beduini. Questo
pianeta-deserto verrà dunque nei prossimi anni ad essere completamente cambiato,
dalle nuove città oasi e foreste. Vediamo di esaminarne la storia la geografia e le
prospettive socio-politiche.
STORIA DEL NEGEV
Il deserto del Negev è abitato da popolazioni nomadi almeno dal 7000 A.E.V. La
testimonianza della Bibbia (Genesi) che ci indica Abramo e Isacco presenti o fondatori
di Beer Sheva, Arad distrutta all’epoca di Moshe e dell’Esodo, sono confortate in gran
parte dai ritrovamenti archeologici, che hanno ritrovato gli insediamenti Amaleciti ed
Idumei. Recentemente l’archeologo Emmanuel Anati ha ritrovato sull’Har arkom, nel
Negev meridionale insediamenti del’epoca dell’Esodo e ha ipotizzato che questa
montagna fosse il vero Sinai-Horev su cui Mosè ricevette i dieci Comandamenti. Nel
testo biblico la parte settentrionale del Negev fu territorio della tribù di Jehudah e
quella meridionale della tribù di Simeone; durante il regno di Salomone il territorio
israelita si estese fino ad Eilat, sul mar Rosso.
Nel 1948 la divisione della Palestina britannica in due stati, e lo Stato d’Israel pone
una amministrazione militare sul Negev, e dichiara l’85% del territorio del Negev “State
Land” ; Beer Sheva che è una città araba di 4000 abitanti nel 1947 diventa una città
ebraica di più di 200.000 abitanti. Arad, viene fondata nel 1962 presso l’antico
insediamento dell’epoca biblica. Eilat, viene conquistata nel Marzo 1949 da una
spedizione della Brigata Golani dello Zahal. Attualmente è un fiorente porto di 46900
abitanti, con attrattive turistiche e un importante parco marino .Importante ricordare
Dimona, sede della centrale nucleare,città di 32700 abitanti, abitata in gran parte da
immigrati ebrei del Nord Africa, e i Kibutzim, es Sde Boker, in cui si ritirò Ben Gurion,
che vedeva nel Negev il futuro d’Israele. Recentemente gli insediamenti ebraici di Gaza
sono stati ricostruiti nel Negev, ed è in corso una risistemazione delle strade e della
ferrovia.
Nel 1979 Ariel Sharon dichiara 100000 mq di deserto parco Naturale, aprendo però
un contenzioso con alcune tribù beduine, che lamentano di non potere più avere le
loro materie prime tradizionali (es. il pelo di capra nera per costruire le tende). Il
governo. Decine di migliaia di beduini sono sedentarizzati nelle nuove città arabe
costruite nel Negev dal governo, e in parte sono emigrati verso le città industriali del
Nord d’Israele.
Il programma Blueprint Negev per una prima fase da realizzare entro il 2013, con
250.000 nuovi insediamenti ampliamento dei Kibutzim della valle dell’Aravah,
sistemazione del Prco naturale del Nahal Beer Sheva , con 40.000 nuovi alberi,
creazione di nuove oasi come Halutzit, fonte di vita e lavoro. Come hanno detto i
Profeti d’Israele “I profughi di Sefarad abiteranno le città del Negev”.
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18. Facebook e Israele: quando la rete si schiera al lato giusto
Massimiliano Panico
L’iniziativa più eclatante è stata sinora quella organizzata dal generale Roberto
Martinelli: in sole tre settimane, grazie all’ausilio di Facebook e dell’Associazione Amici
di Israele Abruzzo, è riuscito a mobilitare tremila persone contro la decisione del
Comitato organizzatore dei “Giochi del Mediterraneo” di lasciare a casa gli atleti
israeliani. In pochi giorni il gruppo “Israele deve partecipare ai prossimi Giochi del
Mediterraneo” ha raggiunto quasi 1500 aderenti, provocando l’interrogazione
parlamentare di Fiamma Nirenstein e la presa di posizione (da più parti accusata di
eccessiva moderatezza) del ministro degli esteri Frattini, che ha dichiarato che quelli di
Pescara 2009 saranno gli ultimi Giochi senza atleti israeliani. Il generale Martinelli, già
al comando della Multinational Force and Observers (MFO), la forza internazionale
schierata in Sinai per verificare il rispetto degli accordi di pace siglati a Camp David da
Egitto e Israele, ha così mostrato quali risultati è possibile ottenere con i c.d. “social
network”, i gruppi che su internet condividono interessi, foto ed esperienze di vita.
“Israele deve partecipare ai prossimi Giochi del Mediterraneo” non è che uno dei
gruppi presenti su Facebook e dichiaratamente schierati al fianco di Israele. Basti
pensare a “Israele: Difendiamola”, amministrata da “Avanti Israele”, Mirella Coen
(donna italo – israeliana che vive in Israele dal 1965) ed Emiliano Nepa, un giovane
italiano vicino all’ebraismo: con i suoi 3.303 membri, è forse il gruppo più numeroso.
Ci sono poi “Sostegno a Israele - Support for Israel”, amministrato da Mattia Bacciardi,
iscritto all’Università LUISS “Guido Carli” e candidato come delegato nazionale del PD
a Roma, che conta quasi 600 iscritti, e “Sostegno incondizionato per Israele”, fondato
da Edoardo Gaj e giunto a quota 300 aderenti.
Diverse sono le ragioni che hanno spinto uomini e donne di diversa età, estrazione
politica e culturale, a creare questi gruppi pro Israele. Si va dal background culturale,
politico e professionale del generale Martinelli, alla voglia di divulgare informazioni non
faziose di Edoardo Gaj, alla reazione al boicottaggio anti-israeliano indetto dalla
sinistra massimalista alla Fiera Internazionale del Libro di Torino di Bacciardi.
Giuseppe S. ricorda con orrore un episodio della Seconda Intifada, quando due
palestinesi sterminarono una giovane donna israeliana incinta ed i suoi tre figli, tutti
con meno di sette anni. “Da quell’episodio”, dice Giuseppe, “per me Israele
rappresenta una giovane donna che difende i suoi figli”, e proprio per comprendere la
ragione di quell’odio ha cominciato a studiare la situazione medio orientale.
Della cultura israeliana si apprezza la modernità che convive con una tradizione
plurimillenaria, i suoi scrittori, “la capacità di costruire una società laica, liberale,
plurale, insomma il meglio della civiltà occidentale”, secondo le parole di Mattia
Bacciardi. Quasi tutti i gruppi erano già attivi al momento della reazione agli attacchi
di Hamas da Gaza. L’operazione “Piombo fuso” è stata per molti degli organizzatori dei
gruppi pro Israele un successo militare (anche se non è arrivata all’eliminazione di
Hamas, è comunque riuscita a ridurne fortemente il potenziale bellico) ma anche, e
soprattutto, un successo mediatico. Forse per la prima volta, la stampa e l’opinione
pubblica non sono apparse aprioristicamente ostili ad Israele. La rottura della tregua,
mai peraltro mantenuta dall’organizzazione terroristica con sede a Gaza, e la divisione
esistente all’interno dello stesso gruppo dirigente palestinese, hanno indotto il
pubblico ad una maggiore riflessione sulle ragioni del conflitto. Del resto, sin dai primi
giorni degli scontri ci sono state, in Rete, iniziative di solidarietà ad Israele, come
quella del professor …, che sul suo sito ha preteso l’immediata cessazione dei lanci di
missili palestinesi sul territorio israeliano, segno tangibile della presenza di una nuova
classe politica e culturale più incline alle ragioni dello Stato Ebraico.
Fatta eccezione per il generale Martinelli, acuto conoscitore della realtà medio
orientale, un dato accomuna i sostenitori di Israele: nessuno di loro ha ancora visitato
la terra che tanto difende. Anche se c’è chi corre ai ripari: “Andrò in Israele quest’anno
18
19. per la prima volta”, dice Giuseppe S., mentre Mattia Bacciardi spera di andarci presto.
Grazie ad internet, però, tutti hanno avuto modo di apprezzare la cultura e la
mentalità israeliana, rimanendo affascinati dalla “joie de vivre”, dalla apertura mentale
e dal loro essere “occidentali”.
E forse proprio dalla Rete, dalle possibilità di dialogo e di confronto, spesso anche
duro, potrebbe venire la nuova speranza per il processo di pace medio orientale.
Israele e la Sinistra italiana
Giuseppe Nitto
Israele, da quando l’Unione Sovietica preferì dal 1956 appoggiare i paesi arabi,
sospingendo lo Stato ebraico dal “non allineamento” nelle braccia americane, ha
sempre diviso la Sinistra italiana (e così quella europea ed internazionale), provocando
accesi scontri tra i politici, gli studiosi e i giornalisti ad essa riconducibili.
Ma è soprattutto in questi ultimi anni, a partire dal fatidico 11 settembre 2001, che la
questione israeliana, e il connesso conflitto con gli arabi e i palestinesi, è divenuta
cruciale nell’elaborazione geopolitica della Sinistra. La quale ha dovuto misurarsi con
una circostanza nuova e storicamente peculiare: il governo di centrodestra all’epoca in
carica, aveva stretto un saldo rapporto con Israele e il suo capo di governo Ariel
Sharon, temperando la consolidata politica estera perseguita dall’Italia verso il mondo
arabo, musulmano e islamico, inaugurata da Enrico Mattei. La cosiddetta “politica di
equivicinanza” nei confronti di palestinesi e israeliani, che ebbe il suo apogeo nei
governi di pentapartito con Craxi a Palazzo Chigi e Giulio Andreotti alla Farnesina,
venne infatti sostituita da una politica – ancorata ad un rinnovato e più robusto
vincolo atlantico - più attenta e sensibile alle ragioni di Israele, colpito tra il 2001 e il
2003 da una violentissima “Seconda Intifada”, in un contesto di Quarta Guerra
Mondiale, secondo il “neocon” Norman Podhoretz, che un Occidente, diviso e incerto,
aveva ingaggiato, suo malgrado, contro il Grande jihad del network terrorista di
Usama ibn Laden.
A ciò si aggiunga, quale motivo di ulteriore imbarazzo nella Sinistra, che la Destra
erede del fascismo, con il suo leader Gianfranco Fini (frattanto al dicastero degli Esteri
per poi assurgere nel 2008 alla seconda carica dello Stato), ripudiava solennemente il
razzismo nazifascista rubricandolo quale “male assoluto”, suggellando una solida
alleanza con Israele, e una sorta di riappacificazione con l’ebraismo italiano, recandosi
a Yad Vashem, il Museo della Shoah di Gerusalemme. Ora, al fine di dipanare ogni
equivoco, è necessario rilevare che nella Sinistra (eccetto quella estremista e
antagonista) c’è sempre stata una Sinistra per Israele – che poi è il nome
dell’associazione fondata nel 1967 da un grande socialista milanese, il compianto “Iso”
Aldo Aniasi. Una Sinistra che, sebbene minoritaria e trasversale, talvolta timida
dinanzi al chiassoso e iperfazioso filopalestinismo della Sinistra comunista, è riuscita a
dare una nuova sensibilità e una maggiore attenzione verso le ragioni di Israele, tant’è
che l’associazione Sinistra per Israele è stata rilanciata in gran spolvero nel 2007.
Presidente è l’ex direttore dell’Unità e deputato Furio Colombo, con l’esplicito supporto
di vecchi amici d’Israele quali Piero Fassino, Giorgio Napolitano, Franca Chiaromonte,
Umberto Ranieri, Peppino Caldarola, Franco Debenedetti, nonché il giovane deputato
diessino Lele Fiano, animatore dell’associazione a Milano con, tra gli altri, Luciano
Belli Paci, Felice Besostri, Bruno Segre e Gabriele Eschenazi.E’ possibile cogliere la
rilevante novità che ha attraversato una parte della Sinistra circa il proprio rapporto
con Israele – anche in una parte di quella radicale a cominciare da Fausto Bertinotti e
Luciano Canfora – riflettendo su due eventi succedutisi a distanza di oltre tre anni.
Nell’aprile 2002, Massimo Teodori (parlamentare di Forza Italia, ex radicale e studioso
di storia americana) lanciava sul Foglio di Ferrara la proposta di tenere un “Israel
19
20. Day”, una marcia di solidarietà in favore del popolo israeliano provato dalla
sanguinosa Intifada dei martiri suicidi. La proposta veniva subito raccolta
dall’Elefantino e il 15 aprile 2002, a Roma oltre 15 mila persone si radunarono al
Campidoglio per poi raggiungere il vecchio Ghetto ebraico al Portico d’Ottavia, dinanzi
al Tempio Maggiore in un clima commosso e pacifico.
E tuttavia a quell’evento una parte di quella Sinistra amica di Israele, non partecipò,
con l’eccezione di Ranieri, Caldarola e Debenedetti, giustificandosi con il timore di una
presunta “strumentalizzazione”, omettendo di considerare che l’iniziativa era
trasversale e bipartisan, tant’è che tra i promotori vi era anche Furio Colombo.
Timidezza, timore della Sinistra filopalestinese, paura che l’oceanico Popolo della Pace
protestasse, insomma: fu un’occasione perduta che di certo allargò il solco tra la
Sinistra e Israele e il medesimo ebraismo italiano, che accorse in massa, e che favorì il
feeling tra il centrodestra e Israele e una larga parte degli ebrei italiani.
Tutto quindi lasciava presagire una Sinistra ancora ipotecata dai settori più
antipatizzanti verso Israele e il suo odiatissimo leader Ariel Sharon, giacchè frattanto
la polemica infuriava e la guerra all’Irak fece il resto.
Invece, fortunatamente, la Sinistra per Israele è riuscita con fatica e con tenacia, a
sensibilizzare la questione di Israele presso l’opinione pubblica, - cioè il suo
sacrosanto diritto a vivere in pace e in sicurezza; è riuscita a far comprendere che il
terrorismo suicida va condannato senza esitazioni anche perchè esiziale per gli stessi
palestinesi; è riuscita a marginalizzare i settori più faziosi e pregiudizialmente ostili ad
Israele, condannando pericolose derive antisemite che purtroppo, come acutamente
osservava Fiamma Nirenstein, prese piede anche in alcuni settori della Sinistra
antagonista.
E infatti, quando il presidente iraniano Ahmadinejad dichiarò di voler cancellare dalla
faccia dalla terra Israele, la Sinistra (eccetto le frange radicali con alcune significative
eccezioni) non ha esitato a scendere in piazza il 3 novembre 2005 a Roma, per
manifestare pacificamente sotto l’Ambasciata iraniana il diritto all’esistenza di Israele
e sentimenti di simpatia verso il popolo iraniano.
A distanza di poco più di tre anni, quella stessa Sinistra che il 15 aprile 2002 se n’era
restata a casa per timore che un luciferino Giuliano Ferrara potesse strumentalizzarla
(sic!), cambiò idea e si riversò nelle strade di Roma guarda caso proprio su invito del
direttore del Foglio.
Da ciò è ben possibile affermare che la Sinistra riformista e liberale, e soprattutto il
PD, dove peraltro Rutelli e l’ex Sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti sono dei
vecchi amici d’Israele, ha compiuto un tragitto decisivo, coraggioso e importante. Quel
solco di diffidenza e di freddezza che si era creato con Israele e una buona parte
dell’ebraismo italiano, è stato ricucito (come ad esempio l’ex Ambasciatore Ehud Gol
riferì allo scrivente) e le ferme condanne delle indegne gazzarre avvenute a Milano
durante alcune celebrazioni del 25 aprile, quando bandiere israeliane furono bruciate
e la delegazione della Brigata Ebraica presa a fischi e ingiuriata, è un segno di un
processo politico ormai irreversibile che fan ben sperare.
Tuttavia va segnalato che questa Sinistra non appena Israele usa la forza militare va
in crisi e sbanda, come dimostrano la Guerra contro Hizbollah (luglio 2007) e la
recente Guerra di Gaza contro Hamas, tant’è che in quelle occasioni si è imposta
soprattutto la posizione di Massimo d’Alema, - e la sua ambigua equivicinanza – con
ripetute condanne di Israele per un presunto uso sproporzionato della forza militare,
stigmatizzando il numero di vittime civili, senza considerare le responsabilità di
Hizbollah e Hamas.
La storia, come si dice, sarà galantuomo, e però chi scrive è convinto che la Sinistra
riformista e liberale consoliderà un saldo e leale rapporto con Israele, nella
consapevolezza che ogni ipotesi di pace deve premettere, senza condizioni, il diritto
alla esistenza di Israele, in un futuro che veda due popoli, due Stati e soprattutto due
democrazie che possano vivere una accanto all’altra in concordia.
20
21. Animali di Giobbe
Redazione
Giovedì 2 aprile, nei locali del complesso monumentale di S.Maria la Nova, in occasione
dell’inaugurazione del III anno di attività del Museo di Arte Sacra “ARCA”, è stato
presentato il libro di Francesco LUCREZI Gli animali di Giobbe - LucianoEditore.
Sono intervenuti Mariantonietta PICONE (Ordinario di storia dell'arte contemporanea
presso l'Università Federico II di Napoli),Carmine MATARAZZO (Docente di filosofia
dell'educazione presso la Facoltà Teologica - sez. San Tommaso), Rav Pierpaolo
PINHAS PUNTURELLO (Ministro di Culto Comunità Ebraica di Napoli), Padre Giuseppe
REALE (Presidente dell’Associazione Oltre il Chiostro e del Museo ARCA). Ha moderato
Clotilde PUNZO (Direttrice
del periodico Colloquionline).L’attrice Antonella STEFANUCCI ha letto i capitoli 38-40
del Libro di Giobbe, e il Coro Polifonico di Procida S.Leonardo, diretto dal M° Aldo De
Vero, si è esibito in un concerto di musica sacra.
LIBRI
Ehud Gol, Da Gerusalemme a Roma, Mondadori, Milano, 2008, pp. 236, Euro 17,50
Giuseppe Nitto
Diplomatico di lungo corso, già di stanza negli Stati Uniti, in Spagna e in Brasile, portavoce
dell’attuale Presidente d’Israele Shimon Peres, quando era Ministro degli Esteri, Ehud Gol è
stato Ambasciatore dello Stato ebraico in Italia per circa sei anni, dal 2001 fino al 2007.
Anni non facili, giacché culminati nella strage dell’11 settembre e dalla ripresa su grande
scaladegli attentati kamikaze di estremisti palestinesi contro Israele, la Seconda Intifada,
che Gol ha vissuto a Roma con fermezza, lucidità e determinazione, caratterizzando la
propria mission diplomatica con un opportuno e felice protagonismo, anche di natura
mediatica, che ha fatto storcere più nasi in quei settori antipatizzanti di Israele che tuttora
esistono nel nostro paese.Come dimostra limpidamente il libro nel quale Gol ha ripercorso
ilproprio ufficio (“Da Gerusalemme a Roma – il Medio Oriente, l’Italia, il Mondo: riflessioni di
un Ambasciatore”, Mondadori, 2007), il diplomatico israeliano non ha lesinato il suo
intervento sulla lotta globale al terrorismo islamista e sulla difesa di Israele, impegnandosi
nel rasserenare i rapporti non facili tra Italia e Israele, benché il Premier Berlusconi (che
non a caso ha prefato il libro di Gol) e la sua compagine governativa appena insediata,
avevano stabilito con Israele delle buone relazioni, certo migliori dei Governi di
centrosinistra. Specchio di questa cifra dell’Ambasciatore, sono i numerosi articoli sui più
importanti quotidiani e periodici italiani che egli ha pubblicato e che sono raccolti nel libro,
che peraltro offre al lettore un utile compendio per ricostruire le tormentate tappe che
hanno scandito il faticoso processo negoziale che Israele ha intessuto con le Autorità
palestinesi e il mondo arabo, dal quale è ben possibile evincere che Israele non ha mai
rinunziato alla trattativa per giungere ad una pace vera e giusta. Certo Israele, dovendo
difendere i propri cittadini e la propria sicurezza, ha dovuto suo malgrado utilizzare la forza
militare, correndo il rischio di favorire incomprensioni e critiche ingenerose da parte di una
21
22. opinione pubblica, soprattutto europea, poco incline a capire fino in fondo le ragioni dello
Stato ebraico. Ragioni, come spiega perfettamente Ehud Gol, spesso misconosciute, talvolta
manipolate, in taluni casi negate. Pure, va sottolineato il tenace impegno di Gol nel far
conoscere all’Italia le straordinarie e poco conosciute realtà d’Israele: un paese che,
nonostante sia in guerra da quando fu fondato, annovera eccellenze di altissimo profilo in
tantissimi settori, come la sanità, l’università, la ricerca, per non parlare di arte, letteratura,
cinema e teatro. Una mission che il suo successore, l’Ambasciatore Gideon Meir, ha fatto
propria, raccogliendo il fertile testimone lasciatogli dal suo predecessore.
Stefania Ecchia, Sviluppo economico e innovazioni istituzionali nel distretto di Haifa sul
finire dell’Impero Ottomano (1890-1915), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2008, pp.
404, Euro 40,00
Antonio Cardellicchio
Un libro accurato, motivato e argomentato, su una fase storica di un luogo cruciale del Medio
Oriente e del mondo intero. Che rende meglio comprensibili le ragioni di un percorso che
condurrà all’attuale Haifa israeliana, modello di convivenza pluralista, di identità, culture,
edi ed etnie diverse e centro prepulsore di innovazione tecnoscientifica ed economica.
L’analisi di Stefania Ecchia, ricercatore in Storia economica all’Università di Salerno, dopo un
periodo di ricerca all’Università Ebraica di Gerusalemme, mostra l’effetto delle riforme
istituzionali dell’Impero ottomano nel periodo dei Tanzimat (plurale di tanzim:
riorganizzazione) sulla Palestina e sul distretto di Haifa. Le riforme istituzionali favoriranno
una più esplicita affermazione dei diritti di proprietà terriera, attraverso l’attivazione del
Codice fondiario del 1858, e tale dinamica permetterà un aumento significativo della
produzione agricola nell’ambito di un sistema di piccola proprietà legalmente garantito. La
realizzazione di riforme politiche ha consentito l’inserimento della Palestina nei mercati
internazionali senza che ciò abbia comportato una subordinazione periferica o una
dipendenza, ma, al contrario, tale realtà ha indotto uno sviluppo economico e sociale
sostenuto, realizzato con l’iniziativa della popolazione locale in un contesto di effervescente
competizione tra le diverse componenti etnico-religiose.
L’indagine, condotta su fonti concrete di prima mano, atti notarili locali inediti, sembra
comprovare e arricchire per certi aspetti determinate tendenze internazionali di analisi nel
cosiddetto terzo mondo, che confutano una serie di luoghi comuni su un pauperismo, una
dipendenza, uno sfruttamento imperialistico, propri di un’ottica ideologica.
Come quella, fondamentale, di Hernando de Soto, che ha suscitato un vivace dibattito
internazionale e diversi programmi di ricerca e d’intervento innovativi (tranne che in Italia,
dove l’eco è stata marginale o latitante). de Soto, fondatore e presidente dell’ILD (Institute of
Liberty and Democracy) di Lima in Perù, che l’Economist considerò tra le think thank più
influenti del pianeta, analizza con rigore l’economia informale, illegale, “sommersa”, di certe
metropoli del terzo mondo e indaga sulle ragioni della diseguaglianza economica. Nella sua
visione l’economia sommersa non è il cancro del capitalismo, è invece un “capitale morto” che
aspetta di emergere, di venire alla luce. Ovunque nel mondo i poveri sono dotati di talento e
sorprendente abilità nel ricavare profitto ingegnosamente dal nulla, e a volte riescono ad
accumulare abbastanza per realizzare imprese di successo. Quello di cui sono invece privi è
quella relazione diretta tra mercato e legalità che è sempre la condizione essenziale
dell’autentico investimento economico.
22
23. L’opera di de Soto ha demolito le spiegazioni convenzionali della miseria urbana del terzo
mondo e ha mostrato che un ordine legale contrattuale sarebbe determinante per un nuovo
sentiero di sviluppo autopropulsivo.
Il lavoro di Stefania Ecchia ci fa vedere in modo significativo che un’analisi puntuale sul
campo, con una metodologia efficace, riesce ad essere sorprendente e realistica e a smentire
tipologie concettuali macroeconomiche e schemi ideologici. Viene alla luce un caso
emblematico di crescita economica su scala locale, resa possibile da un circuito di riforme
istituzionali, certezza del diritto privato contrattuale, incremento demografico,
sedentarizzazione delle tribù beduine.
Ricordiamo a proposito i noti grandi paradigmi delle relazioni tra sviluppo economico e
cambiamento istituzionale: la prima fondamentale rivoluzione industriale al mondo, quella
britannica di fine ‘700, è preceduta dalle due rivoluzioni politiche costituzionali del ‘600 e da
un solido ordine contrattuale di common law; il formidabile dinamismo economico e sociale
degli Stati Uniti dell’ 800-‘900 è preceduto dalla rivoluzione americana che instaura un
sistema costituzionale di libertà e garanzie, con un ordine liberale e federale che agisce da
cornice giuridica ottimale per l’intraprendenza e la mobilità del mercato e della società. La
ricerca dell’autrice prova i vantaggi che il distretto di Haifa e l’intero Impero ottomano ebbero
dalla loro integrazione nell’economia capitalistica internazionale, originata da una scelta
riformista e da una convergenza di interessi tra la Sublime Porta e i Paesi occidentali. Una
scelta temperata dal rispetto della specifica tradizione islamica ottomana che poteva dare
quella ferma identità necessaria a un’entità multietnica e multireligiosa come l’Impero
ottomano.
Un quadro di evoluzioni, tolleranze, convivenze, riforme, che verrà poi travolto dai
nazionalismi arabi e da quello turco con i loro carico di odio, fanatismo e violenza. Repressioni
antisemite, strage degli Armeni, regimi tirannici, forti diseconomie, non erano neppure
concepibili nell’Impero ottomano del periodo in esame.
Di particolare interesse le vivaci pagine dedicate alla “questione sionista”, mostrate nella loro
intricata complessità, dalla prima aliyà del 1882-1903, formata da circa 25.000 ebrei
askenaziti che fuggono dai pogrom, alle transazioni per l’acquisto di terre avvenute tra
notabili arabi ed ebrei ottomani, i quali spesso agivano da prestanomi per i coloni sionisti.
“I Tanzimat crearono i presupposti legali ed economici che resero possibile la colonizzazione
ebraica. Se nella maggioranza delle vicende di colonizzazione, l’appropriazione del territorio è
avvenuta attraverso l’espropriazione delle terre della popolazione nativa in forza della
superiorità militare della potenza coloniale, al contrario, la colonizzazione ebraica non fu
sostenuta da un potere militare o politico: l’appropriazione delle terre avvenne attraverso
l’acquisto della proprietà terriera privata nel libero mercato. Senza la duplice possibilità creata
dai Tanzimat, quella di un mercato della terra e di una nuova classe di proprietari terrieri
pronta a rivendere la terra statale di recente acquistata, la colonizzazione sionista non si
sarebbe mai potuta realizzare.” (pp. 206-7).
Lo sviluppo dell’impresa agricola sionista in Palestina è sempre ultra-motivata in senso ideale
nazionale, dove la coltivazione della terra dei padri viene considerata l’unico tramite per
raggiungere la meta della formazione di uno Stato ebraico indipendente.
Le moshavot furono il tipo di insediamento sionista prevalente fino al 1914, ancora con
l’impiego di manodopera araba, ma ebbero una produttività bassa rispetto alle colonie
ebraiche del successivo periodo mandatario. Con la seconda aliyà del 1904-1910, ben 40.000
nuovi pionieri socialisti stabiliscono i primi kibbutzim e creano l’iniziale architettura del futuro
Stato d’Israele. Il loro scopo era il ribaltamento della struttura socio-economica dell’ebraismo
della diaspora fondata sulle attività terziarie. Il fondamento socio-economico del “nuovo
yshuv” era proprio la coltivazione della terra.
“Il lavoro agricolo in Palestina diventava così il punto focale del programma pioneristico,
perno irrinunciabile della colonizzazione sionista e terreno indispensabile sul quale costruire
la futura indipendenza nazionale. La necessità di rigenerare il popolo ebraico in Palestina
tramite il lavoro della terra, presupponeva, nell’ottica dei nuovi coloni, una profonda
trasformazione sociale. A questo proposito, i pionieri della seconda aliyà sposarono l’ideale di
un uomo nuovo, di un ebreo nato da Eretz Israel, dalla terra di Israele, conquistata e
fecondata esclusivamente dal lavoro ebraico. Il fine del movimento non era solo quello di far
23
24. rinascere la terra ebraica ma anche, attraverso il lavoro agricolo, lo stesso popolo ebraico, da
qui l’avversione dei pionieri della seconda aliyà verso il modello coloniale offerto dalle
precedenti moshavot” (p. 224).
Per questi pionieri la terra apparteneva di diritto a chi la lavorava, dunque se fosse stata
coltivata dai contadini arabi sarebbe restata proprietà araba.
“Al contempo, nell’ottica dei nuovi coloni, il diritto alla terra sulla base del lavoro poneva ebrei
ed arabi su un piano di parità: la questione del possesso della Palestina si sarebbe risolta
attraverso una grande competizione sul lavoro, che avrebbe visto i due popoli impegnarsi
pacificamente per conquistare quanta più terra possibile” (p. 225).L’ideale sionista della
rinascita del popolo ebraico in Eretz Israel attraverso il lavoro agricolo, fondato sul criterio che
la terra è di chi la lavora presentava una grande affinità con lo spirito semitico contenuto nel
diritto fondiario ottomano che appunto riconosceva la proprietà della terra a coloro che la
coltivavano di fatto. Questo stesso spirito è adottato dal Jewish National Fund che
parcellizzava la terra acquistata e la cedeva in concessione perpetua ai coloni ebrei per essere
coltivata esclusivamente da loro, mentre la proprietà restava all’intero popolo
ebraico.“Attraverso l’opera del JNF, più della metà della terra in mano agli ebrei, al momento
della nascita dello Stato di Israele, era costituita da proprietà di questo stato. Forte è dunque
l’analogia con la concezione ottomana della terra miri, possesso dell’intera comunità
musulmana; concezione dietro la quale si profila l’originaria fede religiosa, comune a ebrei e a
musulmani, che la terra non può essere di nessuno perché in realtà è solo di Dio”. (p. 227).
CULTURA
Esilio, Tempo e Memoria
Rav Roberto Della Rocca
il 14 gennaio 2009, per iniziativa dell'Associazione Italia Israele e della Comunità Ebraica di
Napoli, con l'Istituto Studi Filosofici, si è tenuto nellasede dell'Istituto un interessante dibattito
tra Rav Roberto Della Rocca,Direttore del Dipartimento Cultura Educazione dell'Ucei e il noto
filosofo prof. Aldo Masullo sul tema dell'esilio, tempo e memoria Ecco il testo, intenso e
suggestivo,dell'intervento di Rav. Della Rocca, su aspetti essenziali del modo di pensare
ebraico.La Tradizione ebraica è caratterizzata dall'imperativo categorico zachor, ricorda.
" Noi ebrei - scriveva Martin Buber nel 1938 - siamo una comunità basata sul ricordo. Il
comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere........".
Il verbo zachar, nelle sue varie forme, ricorre nella Bibbia ben 222 volte, e nella maggior parte
dei casi ha per soggetto o Israele o Dio. La memoria, infatti, incombe su entrambi.
Il concetto di ricordare trova il suo complemento e completamento in quello di segno opposto:
dimenticare. Al popolo ebraico viene ingiunto di ricordare e al tempo stesso viene anche
imposto di non dimenticare. La Toràh in particolare nel versetto del Deuteronomio, 32; 7, ci
sprona ripetutamente a ricordare e a non dimenticare.
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