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I TRE VOLTI DELLA TEOLOGIA IN DANTE ALIGHIERI:
«SAPIENTIA» DIVINA, ANGELICA E UMANA
alessandro raffi
La teologia come Sapientia increata
Nel secondo libro del Convivio, Dante procede a codificare l’insieme delle
arti e delle scienze che costituiscono l’enciclopedia del sapere a lui con-
temporaneo, elaborando un sistema di corrispondenze che associa ogni
singola disciplina a un cielo del cosmo medievale. Alla sfera della Luna egli
fa corrispondere la grammatica, a Mercurio la dialettica, al cielo di Vene-
re la retorica. Seguono le arti del quadrivio con il Sole associato all’arit-
metica, Marte alla musica, Giove alla geometria e Saturno all’astronomia.
La corrispondenza biunivoca si arresta soltanto all’altezza della sfera delle
stelle fisse, dove coabitano due scienze: fisica e metafisica. Senza entrare
nei dettagli del complesso rapporto allegorico che Dante stabilisce per giu-
stificare tale eccezione, basti ricordare che la fisica è posta in analogia con
il polo visibile della sfera delle stelle fisse, il quale rimanda alla conoscen-
za delle realtà sensibili e corruttibili. Il polo opposto, afferente alla meta-
fisica, rinvia all’insieme delle «cose incorruttibili, le quali ebbero da Dio
cominciamento di creazione» (Convivio II xiv 11). Oltrepassata la sfera
del Primo mobile, il nono cielo in cui risiede l’etica, Dante completa la
sua costruzione facendo corrispondere la teologia all’Empireo: «ed al cielo
quieto risponde la scienza divina, che è Teologia appellata» (Convivio II xii
8)1
. Il disegno architettonico che sta alla base di tale edificio si conforma al
1
In questo lavoro facciamo riferimento all’edizione critica del Convivio curata da C.
alessandro raffi
2
principio secondo cui il movimento di ciascun cielo attorno al centro del
cosmo vale come allegoria della «rotazione» di ogni singola disciplina at-
torno all’oggetto che le compete. Per sua natura il sapere è movimento, in
quanto scaturisce dal desiderio che appartiene costitutivamente all’essere
umano, creatura finita in cammino verso la verità. Sotto questo profilo, la
teologia è una scienza ineguagliabile che sovrasta l’intero complesso delle
scienze umane: la trascendenza dell’Empireo, che include tutti gli altri cieli
senza essere circoscritto da alcuna sfera, raffigura la fine di ogni ricerca, il
pieno possesso di quella Verità che per le creature razionali finite rimane
oggetto di desiderio e di speranza. Il cielo dei cieli «quieto e pacifico è lo
luogo di quella somma Deitade che sola sé compiutamente vede» (Convi-
vio II iii 10). La collocazione della teologia nell’Empireo riproduce in for-
ma allegorica la trascendenza del sapere divino rispetto all’intero comples-
so delle conoscenze conseguibili con l’uso della ragione naturale. Intesa in
questa accezione, la teologia si identifica per Dante con la Sapientia cantata
dai libri salomonici e con l’insegnamento di Cristo:
Lo Cielo empireo per la sua pace simiglia la divina scienza, che piena è di tutta
pace; la quale non soffera lite alcuna d’oppinioni o di sofistici argomenti, per la
eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio. E di questa pace dice
esso a li suoi discepoli: «La pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi», dando
e lasciando a loro la sua dottrina, ch’è questa scienza di cu ’io parlo. Di costei
dice Salomone: «Sessanta sono le regine, e ottanta l’amiche concubine; e de le
ancille adolescenti non è numero: una è la colomba mia e la perfetta mia». Tut-
te scienze chiama regine e drude e ancille; e questa chiama colomba, perché
è sanza macula di lite, e questa chiama perfetta perché perfettamente ne fa il
vero vedere nel quale si cheta l’anima nostra (Convivio II xiv 19-20).
Queste righe contengono la più esaustiva trattazione della teologia che sia
dato rinvenire nell’opera del sommo poeta. Dante deduce le caratteristiche
della scienza divina dalle due peculiarità dell’Empireo: l’assenza di moto e
VASOLI e D. DE ROBERTIS (DANTE ALIGHIERI, Opere minori, tomo I, parte II, Milano
– Napoli, Ricciardi Editore 1988). Come è noto, il Convivio è databile agli anni 1304-1307.
Secondo il progetto originario avrebbe dovuto comprendere quindici trattati, un’introdu-
zione generale e quattordici commenti ad altrettante canzoni scritte in volgare. Dante riuscì
a completare soltanto la stesura dei primi quattro libri, per il sopraggiungere del nuovo
impegno della Commedia cui avrebbe dedicato tutte le sue energie. Tra la stesura dei primi
tre libri e la redazione del quarto, all’incirca tra il 1305 e il 1306, si colloca la composizione
del De vulgari eloquentia.
i tre volti della teologia in dante alighieri
3
la pace assoluta2
. Dato che il sapere umano è legato al desiderio, e quindi
al movimento circolare della scienza attorno al proprio oggetto, la dottrina
di cui l’Empireo è icona raffigura un Sapere affrancato dai limiti gnoseo-
logici che caratterizzano il mondo delle creature terrene. La pace assoluta
che la contraddistingue non coincide con la reale situazione in cui versa
il sedicente sapere teologico degli esseri umani, né tanto meno riflette la
condizione storica della teologia al tempo di Dante. Alla pace eterna del
coelum coeli corrisponde pertanto la quiete della Sapientia Dei, intesa nel
senso del genitivo soggettivo, ma anche l’annuncio di verità e salvezza che
risuona nella parola di Cristo3
. Nel passo sopra citato, Dante sottolinea il
carattere costitutivamente kerygmatico della teologia riportando il passo
del Vangelo di Giovanni 14, 27: «Pacem relinquo vobis, pacem meam do vo-
bis». Se la teologia non è altro che la pace con cui «la somma Deitade» vede
compiutamente se stessa, ossia la piena coincidenza tra certezza soggettiva
e verità oggettiva, questa stessa pace ci viene donata attraverso il Figlio in
quanto Verbo incarnato. Il passo in cui Dante descrive le caratteristiche
della teologia non fa alcun riferimento né all’idea scolastica di scientia ar-
gumentativa, né al principio tommasiano di subalternazione secondo cui
gli articula fidei da assumere come principi della teologia sono ricavati «lu-
mine superioris scientiae, quae scilicet est scientia Dei et beatorum» (STh I,
q. 1, art. 2, Resp.). Un aspetto, questo, su cui sarà opportuno soffermarsi
facendo tesoro delle riflessioni di Padre Kenelm Foster e di Etienne Gilson.
Alla voce «Teologia» dell’Enciclopedia Dantesca Kenelm Foster precisa:
Dante, a dir poco, non è meno distante da Bonaventura che da Tommaso. An-
zitutto perché Bonaventura attribuisce scarso valore alla filosofia separata dalla
T., e in secondo luogo perché per lui, come per Tommaso (pur con diversa accen-
2
Sulle caratteristiche dell’Empireo dantesco si veda il magistrale lavoro di B. NARDI, La
dottrina dell’Empireo nella sua genesi storica e nel pensiero dantesco, in ID. Saggi di filosofia
dantesca, Firenze, La Nuova Italia 1967.
3
Si veda anche la seguente apostrofe, a conclusione del terzo libro del Convivio: «O
peggio che morti che l’amistà di costei fuggite, aprite li occhi vostri e mirate: ché innanzi
che voi foste, ella fu amatrice di voi [...]; e poi che fatti foste, per voi dirizzare, in vostra
similitudine venne a voi. E se tutti al suo conspetto venire non potete, onorate lei ne’ suoi
amici e seguite li comandamenti loro, sì come quelli che nunziano la volontà di quella et-
ternale imperadrice; [...]» (Convivio III xv 17-18). L’identificazione tra Cristo e la Sapienza
incarnata «in similitudinem hominum» («in vostra similitudine venne a voi») è palesemente
ricavata dalla Lettera ai Filippesi 2, 7.
alessandro raffi
4
tuazione), quello della T. è un “modus ratiocinativus sive inquisitivus” (I Sent.
proem. 2, sol.) “per discursus et inquisitionem” (III Sent. XXXIV I 2 3) in quanto
esso verte sul “credibile” proprio perché “transit in rationem intelligibilis per ad-
ditionem rationis” (I Sent. proem. 1). In sostanza, la ricerca razionale rappresenta
anche per Bonaventura una parte essenziale della T. [...]. Di contro alle opinioni
dei due grandi teologi, la nozione dantesca di T. può essere caratterizzata, nega-
tivamente, come la rimozione della ragione dall’ambito della T., e positivamente,
come l’identificazione della T. con l’insegnamento di Cristo, cioè come una sorta
di adombramento sulla terra, accolto solo per fede, di verità che trascendono la
‘presente’ capacità della ragione e che saranno svelate in una vita futura4
.
L’unica theologia viatorum che Dante è disposto a riconoscere consiste nell’a-
scolto della Parola consegnata alla Scrittura e trasmessa nella tradizione della
fede ecclesiale. Nel Convivio non vi è ancora alcuna traccia della complessa
dialettica speculativa che tanta parte avrà nei canti dottrinali del Paradiso, là
dove Beatrice o le anime degli altri beati introdurranno Dante alla conoscen-
za dei misteri della fede argomentando more sillogistico a partire da premesse
accolte «immediate a Deo per revelationem» (STh I, q. 1, art. 5, ad 2). La ridu-
zione della teologia al kerygma evangelico sembra negare alla sacra doctrina
quel carattere di scienza argomentativa che San Tommaso, rivendicava, tra
gli altri luoghi, nell’articolo 8 della I Quaestio della Summa Theologiae, libro
I5
. Contrariamente a quanto si continua a ripetere, Dante è tutt’altro che il
pedissequo ripetitore delle dottrine tomistiche. Come ha dimostrato Etienne
Gilson nella sua magistrale monografia dedicata al pensiero dantesco, i rife-
rimenti biblici presenti nel brano del Convivio sopra citato sembrano scelti,
se non in polemica con l’Angelico, certamente con l’intento di delineare una
posizione assai differente, anche in merito alla vexata quaestio dei rapporti tra
filosofia e teologia. Gilson fa notare che nell’articolo della Summa Theologiae
che va sotto il titolo «Utrum sacra doctrina sit dignior aliis scientiis», Tom-
maso rivendica il primato della teologia sulle scienze umane allo scopo di
subordinare la ragione alla fede. Nel Sedcontra ricorre il passo dei Proverbi 9,
4
Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana 1970-1978, vol. V, 565
[d’ora in poi ED].
5
Si veda a questo proposito quanto scrive Inos Biffi: «[...] la sacra doctrina comporta tut-
ta un’attività delle risorse della ratio, che, mentre lasciano intatto il livello e la prerogativa
della fede, da cui sono accolti i principi in un atteggiamento obbedienziale, è attivamente
presente nel suo esercizio». (I. BIFFI, Sulle vie dell’Angelico: teologia, storia, contemplazio-
ne, Milano, Jaca Book 2009, 36).
i tre volti della teologia in dante alighieri
5
3: «Misit ancillas suas vocare ad arcem». Nel brano del Convivio sopra citato,
Dante proclama la trascendenza della teologia allegando una citazione dal
Cantico dei cantici 6, 7 («Sexaginta sunt reginae, et octoginta concubinae, et
adulescentularum non est numerus: una sit columba mea, perfecta mea»). La
preferenza «di un Salomone all’altro», commenta Gilson, si spiega con il fatto
che il simbolismo adottato da Tommaso «fa delle altre scienze altrettante an-
celle della teologia che è la loro regina, mentre il testo scelto da Dante fa della
teologia una colomba pura, ma non una regina»6
. Stando all’interpretazione
di Gilson, Dante, separando nettamente la scienza divina dall’intero comples-
so delle scienze umane, intende affermare la trascendenza della teologia, ma
al tempo stesso negare la subordinazione delle seconde alla prima. Il primato
incontestabile della scienza divina non equivale a una riduzione strumentale
della filosofia a mera ancilla priva di una intrinseca dignità epistemologica. La
teologia è una colomba pura e immacolata, ma le scienze umane, compresa
quella sorta di teologia naturale che è la metafisica, sono regine, non ancelle.
Il candore della colomba rinvia alla perfezione sovrannaturale di una dottrina
che «è sanza macula di lite»: i commentatori non hanno mai rilevato che l’e-
spressione adottata in questo contesto rimanda, a distanza di pochi paragrafi,
all’analoga formula con cui Dante, nell’associare la geometria al cielo di Gio-
ve, stabiliva un rapporto allegorico tra il colore bianco del pianeta e la perfe-
zione della geometria, scienza definita «sanza macula di errore»7
. All’interno
6
E. GILSON, Dante e la filosofia, Milano, Jaca Book 1987, 111. Si vedano ancora le
seguenti osservazioni di K. Foster: «Nella correlazione di scienze e sfere celesti, D. fa cor-
rispondere le nove sfere, conoscibili a opera della ragione naturale, alle scienze che com-
pongono il corpo della filosofia, mentre alla T., la Divina Scienza, lascia il cielo estremo,
conoscibile grazie alla sola fede; si tratta dell’Empireo, cielo assolutamente privo di moto
e pieno di pace. Cos’è allora la T. in sé? Essa non è altro che la dottrina lasciata da Cristo
al mondo, come legato di pace; un corpo dottrinale sul quale non è dato argomentare – e
tanto meno dibattere – proprio per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è
Dio. La T. è la colomba mia e la perfetta mia, secondo le espressioni profetiche di Salomo-
ne; colomba per la sua quiete serena (sanza macula di lite) e perfetta in quanto ci mostra
perfettamente il vero... nel quale si cheta l’anima nostra (II xiii-xiv; in particolare xiii 8, xiv
19-20)» (in ED, vol. V, 566).
7
«E ancora la Geometria è bianchissima, in quanto è senza macula d’errore e certissima
per sé e per la sua ancelle, che si chiama Perspettiva» (Convivio II xiii 27). Il lessico adottato
in questo passo ci suggerisce una ulteriore osservazione: per Dante una scienza è «ancella»
di un’altra quando tra le due sussiste un rapporto di subalternazione, come appunto nel
caso della geometria e della prospettiva. La prima procede da principi noti per sé, la secon-
da procede da principi desunti dalla prima. Quello della geometria e della prospettiva è un
alessandro raffi
6
del simbolismo cromatico che Dante impiega costantemente in tutte le sue
opere, il bianco rimanda all’idea di una conoscenza priva di ombre, sia che
tale conoscenza derivi dal lume naturale dell’intelletto umano, che perviene
alla verità attraverso sequenze dimostrative come nel caso delle geometria, sia
che essa derivi dalla Luce fontale che Dio irradia sulle creature. Non essendo
compito della teologia quello di fornire evidenze dimostrative a partire dagli
articula fidei, la pacifica certezza in cui consiste la scienza divina si comunica
a noi unicamente attraverso il kerygma evangelico. Le motivazioni che indu-
cono Dante a teorizzare la trascendenza della teologia trovano un riscontro
in un passo del secondo libro del Convivio che precede di qualche capitolo
l’esposizione del sistema enciclopedico. Affrontando il tema dell’immortalità
dell’anima, Dante sostiene con forza la tesi secondo cui l’unico vero fonda-
mento di tale credenza è la dottrina di Cristo:
Ancora, n’accerta la dottrina veracissima di Cristo, la quale è via, verità, luce:
via, perché per essa sanza impedimento andiamo a la felicitade di quella im-
mortalitade; verità, perché non soffera alcuno errore; luce, perchè allumina noi
ne la tenebra de la ignoranza mondana. Questa dottrina dico che ne fa certi so-
pra tutte altre ragioni, però che quello la n’hae data che la nostra immortalita-
de vede e misura. La quale noi non potemo perfettamente vedere mentre che ’l
nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede perfettamen-
te, e per ragione lo vedemo con ombra d’oscuritade [...](Convivio II viii 14-15).
Colui che ha incarnato la Sapienza del Padre ci ha insegnato che l’anima
è immortale, sopperendo alla mancanza di argomenti razionali in grado
di offrirci una prova risolutiva. Nella parola di Cristo risuona la scienza di
Colui che vede e misura ogni cosa, compresa la nostra immortalità: que-
sta scienza è la colomba bianca che illumina la fede, là dove il lume della
ragione metafisica ci permette di adocchiare la verità «con ombra di oscu-
ritade». La perfetta consonanza tra i due passi è evidente persino a livello
espressivo: la dottrina veracissima di Cristo «non soffera alcuno errore»
(Convivio II viii 14); la scienza divina «non soffera lite alcuna d’oppinio-
ni o di sofistici argomenti» (Convivio II xiv 19). Ogni scienza umana che
pretenda di ergersi a «teologia» corre il rischio, nel migliore dei casi, di
trasformarsi in vaniloquio.
esempio classico che appartiene al repertorio dei topoi più diffusi nell’ambito della Scolasti-
ca, si veda ad es. il già citato passo di San Tommaso, STh I, q. 1, art. 2, Resp.
i tre volti della teologia in dante alighieri
7
Il rigore con cui Dante separa la teologia dal novero delle scienze uma-
ne torna nell’invettiva di Beatrice collocata all’altezza del canto XXIX del
Paradiso. Dopo aver ricordato la caduta degli angeli ribelli, Beatrice con-
danna la posizione di quanti vanno affermando, nel mondo, che anche
le intelligenze separate sono dotate di memoria. Come si può essere così
stolti da eguagliare la condizione dei viatores alla beatitudine di coloro
che contemplano gli esemplari delle cose in Dio? Traendo spunto da que-
sto tema specifico Beatrice dà inizio a una digressione con cui condanna
l’arroganza di coloro che antepongono le proprie personalissime dottrine
alla «divina Scrittura» deformandone il vero significato. Nel ricordare che
a Dio piace soltanto «chi umilmente ad essa si accosta» (Paradiso XXIX, v.
93) la guida di Dante conclude:
«Non disse Cristo al suo primo convento:
‘Andate, e predicate al mondo ciance’;
ma diede lor verace fondamento;
e quel tanto sonò ne le sue guance
sì ch’a pugnar per accender la fede
de l’Evangelio fero scudo e lance».
(Paradiso XXIX, vv. 109-114)
Il supplemento di grazia offerto dalla teologia rivelata colma le lacune del
sapere umano in ambiti che per tradizione sono rivendicati dalla ratio me-
tafisica: il Convivio adduce l’esempio dell’immortalità dell’anima, il canto
XXIX del Paradiso cita il problema delle facoltà cognitive delle intelligenze
angeliche. Attenersi strettamente alla dottrina evangelica è l’unico modo
per parlare con «fondamento» di simili questioni, in quanto esclusivo ese-
geta della Scientia Dei è il Figlio. E se una distanza abissale separa la visione
che il Figlio ha del Padre dalla veduta concessa alle massime intelligenze
angeliche, fossero anche i serafini collocati nei più alti scranni della gerar-
chia celeste, quale scientia argumentativa potrà pretendere di offrire alla
fede armi più potenti del Vangelo?
Dalla Sapientia Dei alla teologia partecipata
Tra le undici scienze che Dante accoglie all’interno dello schema enciclo-
pedico elaborato nel secondo libro del Convivio la filosofia è assente, o
meglio: non viene esplicitamente nominata come tale. Siamo di fronte a
alessandro raffi
8
un apparente paradosso che lo stesso Dante ritiene opportuno chiarire al
lettore, come leggiamo in questo passo del terzo libro:
[...] per lunga consuetudine le scienze ne le quali più ferventemente la Filosofia
termina la sua vista, sono chiamate per lo suo nome. Sì come la Scienza Natu-
rale, la Morale, e la Metafisica, la quale, perché più necessariamente in quella
termina lo suo viso e con più fervore, Prima Filosofia è chiamata. Onde vedere
si può come secondariamente le scienze sono Filosofia appellate (Convivio III
xi 16-17).
Il terzo libro del Convivio è costruito in forma di commento alla canzone
Amor che ne la mente mi ragiona, e il suo obiettivo è quello di offrire una
definizione rigorosa della filosofia intesa come «amoroso uso di sapienza».
Dal punto di vista contenutistico gli oggetti della filosofia sono quelli stu-
diati dalle sue principali divisioni: fisica, etica, e metafisica. Il suo campo
di indagine coincide con l’ambito delle tre scienze superiori nei confronti
delle quali le arti liberali svolgono una funzione subalterna e propedeutica,
in conformità all’assetto istituzionale delle università medievali. Tuttavia,
per Dante l’essenza della filosofia non può essere colta in maniera appro-
priata attraverso una definizione che guardi unicamente ai contenuti. La
peculiarità della filosofia sta nel «fervore» con cui l’occhio di chi è dedito
alla scienza si innamora degli oggetti del sapere. Se nelle partizione dei
contenuti Dante si attiene al criterio aristotelico che distingue scienze te-
oretiche e scienze pratiche, quando si tratta di stabilire in cosa consista
l’attività speculativa egli sembra riecheggiare il motivo platonico dell’eros
filosofico. La concezione stilnovistica dell’amore che ha segnato gli esor-
di dell’attività poetica di Dante viene tradotta nell’ambito teoretico. Ed è
per questo motivo che egli celebra la filosofia attraverso la metafora della
«Donna gentile», nucleo dominante del terzo libro del Convivio. Ecco allo-
ra spiegata l’apparente anomalia: nel sistema enciclopedico delle discipline
redatto nel secondo libro del Convivio compaiono i termini che indicano
le singole scienze in quanto sono definite in relazione ai loro contenuti. Il
nome di filosofia non ricorre perchè quest’ultima denota l’habitus dello
scienziato, il bios theoretikos aristotelico, l’eros filosofico: un modello esi-
stenziale, piuttosto che un apparato dottrinale. Parafrasando un celeberri-
mo motto di Ludwig Wittgenstein potremmo dire che anche per Dante la
filosofia non è una dottrina, ma un’attività. La «primaia e vera filosofia», il
«cui nobile nome per consuetudine è comunicato a le scienze» ha dunque
«per subietto materiale [...] la sapienza, e per forma ha amore, e per com-
i tre volti della teologia in dante alighieri
9
posto de l’uno e de l’altro l’uso di speculazione» (Convivio III xiv 2). Un
sinolo nella accezione aristotelica, o una forma sostanziale che si regge sul
primato ontologico dell’amore. E quindi, se la filosofia scaturisce dal desi-
derio ne consegue che le sue tre divisioni – fisica, metafisica ed etica – sono
da considerare altrettante «sfere» del sapere, separate e sovrastate dal cielo
sempre quieto della teologia. Tra l’amoroso uso di sapienza, la filosofia, e
la pace che Cristo dona all’umanità, la teologia, sussiste la stessa disconti-
nuità che separa i nove cieli mobili dall’Empireo.
Ma se l’essenza della filosofia consiste nello sguardo innamorato di una
mente pensante che si posa su un campo di oggetti per contemplarne la
natura, non dovremmo concedere che la filosofia nel suo più alto significa-
to è presente in Dio prima ancora che nelle creature fatte a sua immagine
e somiglianza? Possiamo davvero credere che quella sapienza umana che
ha «per forma ha amore, e per composto de l’uno e de l’altro l’uso di spe-
culazione» non abbia alcuna relazione con la Sapienza increata in cui e per
cui tutto fu fatto in principio? Potrebbe essere vera sapienza, la filosofia,
se in essa non brillasse almeno una scintilla della Luce fontale? A queste
domande il Convivio risponde nel modo che segue:
Ché avvegna che Dio, esso medesimo mirando, veggia insiememente tutto, in
quanto la distinzione de le cose è in lui per lo modo che lo effetto è ne la cagio-
ne, vede quelle distinte. Vede adunque questa nobilissima [scilicet: la Donna
gentile, ovvero la Filosofia] di tutte assolutamente, in quanto perfettissima-
mente in sé la vede e in sua essenzia. Ché se a memoria si reduce ciò che detto
è di sopra, filosofia è uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è
in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto; che
non può essere altrove, se non in quanto da esso procede. È adunque la divina
filosofia de la divina essenza, [...] ed è in lui per modo perfetto e vero, quasi per
etterno matrimonio. Ne l’altre intelligenze è per modo minore, quasi come
druda de la quale nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto
contentan la loro vaghezza (Convivio III xii 11-14).
Se tutte le cose sono in Dio, e Dio «esso medesimo mirando» vede gli ar-
chetipi di tutto ciò che esiste, Egli vede anche quella Donna gentile da cui
si sprigiona l’umano desiderio di conoscenza. Il concetto platonico di par-
tecipazione, opportunamente ridisegnato nel contesto creazionistico, ci
fornisce gli strumenti idonei a riproporre il problema della Sapientia Dei
sotto un’angolatura nuova rispetto alla prospettiva che sembra prevalere
nel secondo libro del Convivio. Se nella scala delle undici scienze veniva
promossa un’idea di teologia come «divina scienza», appannaggio esclusi-
alessandro raffi
10
vo del Padre che si traduce nella parola del Verbo incarnato, il terzo libro
esalta la filosofia come una forma di conoscenza che in Dio assume i tratti
dell’onniscienza, mentre nelle creature intelligenti è sapere partecipato e
irradiato:
E così si vede come questa è donna primamente di Dio e secondariamente
de l’altre intelligenze separate, per continuo sguardare; e appresso de l’umana
intelligenza per riguardare discontinuato (Convivio III xiii 7-8).
Alla distinzione tra Sapienza increata e sapere delle creature subentra l’ul-
teriore suddivisione tra la visione in patria, concessa agli angeli e ai beati,
e lo sguardo discontinuo dei viatores. Le intelligenze separate non distol-
gono mai lo sguardo dal volto del Padre, contemplano gli esemplari eterni
di tutte le cose nella gloria di un presente sempiterno che ha avuto inizio
il primo giorno della creazione. Vi è dunque una teologia partecipata che
si identifica con la beatitudine della vita ultraterrena e con la piena citta-
dinanza delle creature nella Gerusalemme celeste. Una teologia in forma
di pura intuizione intellettuale concessa attraverso il lumen gloriae, non
una conquista della mente finita la quale, trascorrendo dianoeticamente
da un contenuto all’altro, attinga a quella verità che in hac vita può essere
soltanto rivelata e quindi creduta per fede. Ai passi che abbiamo citato pos-
siamo utilmente affiancare questo brano tratto dal De vulgari eloquentia,
il trattato sulla lingua volgare la cui composizione si intreccia, anche dal
punto di vista della datazione, con la stesura del Convivio. Negando che
possa esistere una lingua degli angeli, sulla base della tesi secondo cui «soli
homini datum fuisse loqui», Dante argomenta come segue:
Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant
promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua vel alter alteri
totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum Speculum in quo
cuncti representantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur, nullo signo lo-
cutionis indiguisse videntur (De vulgari eloquentia I ii 3).
La necessità di comunicare attraverso segni costituiti dall’unità di un si-
gnificante e un significato appartiene alla condizione di quelle creature
razionali che se da un lato sono in grado di concepire dei cogitata, dall’al-
tro hanno bisogno di un veicolo sensibile affinché i loro pensieri possano
essere trasmessi ad altri individui della stessa specie. Per motivi diametral-
mente opposti, angeli e bruti non dispongono di alcun tipo di linguaggio:
i tre volti della teologia in dante alighieri
11
le intelligenze incorporee comunicano direttamente tra loro attraverso un
atto di pura intuizione intellettuale. Gli animali, in quanto privi di ragione,
non hanno alcun cogitatum da esprimere: i loro versi non sono significan-
ti associati a un significato intelligibile, bensì grumi di materiale fonetico
inarticolato. Il linguaggio è lo strumento di comunicazione che appartie-
ne all’uomo in quanto essere collocato sulla linea di confine tra il mondo
sensibile e il mondo intelligibile. Tra i cittadini della Gerusalemme celeste
sussiste una sorta di sincronia pura, la medesima intimità che permette
alle anime dei beati che Dante incontrerà nel Paradiso di leggere in anti-
cipo i suoi dubbi prima ancora che vengano formulati expressis verbis8
. Al
«continuo sguardare» che è proprio di angeli e beati si contrappone il «ri-
guardare discontinuato» che contraddistingue la condizione dei viatores.
La filosofia che gli esseri umani praticano come amoroso uso di sapien-
za se da un lato risponde al desiderio di sapere che caratterizza la natura
dell’animale razionale, dall’altro non può essere in alcun modo considera-
ta un equivalente della visione in patria. Angeli e beati hanno il privilegio
di vedere direttamente la verità in Dio, nella visione faccia a faccia che è
oggetto della promessa escatologica. Nel frattempo in cui deambuliamo
come viandanti, possiamo soltanto intravedere per speculum in aenigmate
i segni della presenza divina nella natura e nella storia, purché si assuma
come viatico alla salvezza quell’unico Magister che è Cristo.
Il divario che sussiste tra la conoscenza noetica dei beati e il sapere dei
viatores viene ad assumere un valore strutturale in tutta la Commedia, e
in particolar modo nella terza cantica. Esemplare, in questo senso, è la
lezione che Dante impartisce al lettore in due momenti del suo pellegri-
naggio attraverso le sfere celesti. All’inizio del grande affresco storico con
cui Giustiniano, assoluto protagonista del canto VI del Paradiso, illustra
la funzione provvidenziale dell’impero romano, il beato rende omaggio a
papa Agapito. Giustiniano ricorda che prima di intraprendere la sua opera
8
Sui rapporti di filiazione diretta che sussistono tra l’angelologia dantesca e gli scritti del
Corpus Dionysianum si vedano soprattutto gli studi recenti di D. SBACCHI, La presenza
di Dionigi Areopagita nel Paradiso di Dante, Firenze, Olschki 2006; e S. BARDELLA, In
the Light of the Angels. Angelology and Cosmology in Dante’s «Divina Commedia», Firenze,
Olschki 2010. Ciò che Dante afferma riguardo alla conoscenza angelica si conforma alle
tesi esposte da San Tommaso nella quaestio «utrum angelus cognoscat discurrendo» (Sth I,
q. 58, art. 4). Si vedano ad esempio i seguenti versi: «Queste sustanze, poi che fur gioconde
/ de la faccia di Dio, non volser viso / da essa, da cui nulla si nasconde» (Paradiso XXIX,
vv. 76-79).
alessandro raffi
12
riformatrice «[...] ’l benedetto Agapito, che fue / sommo pastore» (Paradiso
VI, vv. 16-17) riuscì a convertire l’adepto del monofisismo alla «fede since-
ra». La conversione alla vera fede cattolica era condizione imprescindibi-
le affinché l’operato dell’imperatore bizantino si inserisse nell’alveo della
Provvidenza. Allo scopo di rendere ancor più chiaro a Dante il significato
delle sue parole, Giustiniano aggiunge: «Io li credetti; e ciò che ’n sua fede
era / vegg’io or chiaro sì, come tu vedi / ogni contradizione e falsa e vera»
(Paradiso VI, vv. 19-21). La visione di cui fruisce il beato ha una potenza
noetica tale che Dante, come qualsiasi altro viator, può riuscire a intender-
la attraverso un paragone: il grado di evidenza con cui la verità si manife-
sta in patria è simile al grado di certezza con cui un assioma della logica
appare immediatamente vero all’intelletto umano sulla base del principio
di non contraddizione. Un esempio analogo ricorre nel colloquio tra Dan-
te e Cacciaguida all’altezza del canto XVII del Paradiso. Nel rivolgersi al
trisavolo per avere una risposta certa sul futuro che lo attende al termine
del viaggio ultraterreno, è lo stesso Dante a paragonare l’evidenza noetica
con cui i beati vedono le cose in Dio all’evidenza con cui le «terrene menti»
intuiscono la verità degli assiomi della geometria: «O cara piota mia che
sì t’insusi / che come veggion le terrene menti / non capere in triangol due
ottusi / così vedi le cose contingenti [...]» (Paradiso XVII, vv. 13-16). Il pane
degli angeli condiviso dai beati è la visione che Dio concede nel render-
li partecipi della propria Sapientia, nel fulgore del Lumen gloriae e nella
piena parusia del Logos. Angeli e beati sono saldamente insediati nell’Em-
pireo, non discorrono da intelligibile a intelligibile seguendo i meandri
argomentativi delle scienze terrene, ma partecipano della visione faccia
a faccia che trascende i termini delle umane «sfere» del sapere. Scientia
beatorum, nella accezione dantesca, equivale a teologia partecipata dalla
creatura, in un atto di intuizione intellettuale che coincide con la somma
beatitudine. Altro è il sapere teologico di cui fruiscono i beati contem-
plando gli esemplari eterni di tutte le cose nel Verbo, altro il sapere dimo-
strativo che ciascuno di essi porge a Dante abbassandosi «inver lo segno
del nostro intelletto» (Paradiso XV, v. 45): ossia, articolando la simplicitas
della visione in patria in una sequenza di argomentazioni sillogistiche. Il
privilegio inusitato di visitare il mondo dei beati in vita non cancella l’e-
norme «disagguaglianza» che sussiste tra Dante viator e la gloria dei beati.
La distinzione tra teologia increata intesa come scientia Dei, e quella che
potremmo definire teologia partecipata, la scientia beatorum, ci permette
di ridurre la teologia del frattempo ad un’unica dimensione: l’ascolto fe-
dele della parola di Cristo. Le risorse della dialettica argomentativa hanno
i tre volti della teologia in dante alighieri
13
tutt’al più un valore didattico e propedeutico, possono valere come stru-
menti retorici per combattere gli eretici e impugnarne le posizioni, ma non
ci autorizzano in alcun modo a definire la teologia come una scienza che
l’uomo possa praticare in questa vita, fosse anche sulla base di principi
accolti immediate a Deo per revelationem.
La teologia come “itinerarium mentis in Deum”
Nel quarto libro del Convivio, Dante ci offre un esempio di lettura tropo-
logica delle Sacre Scritture attraverso un commento all’episodio narrato
nel Vangelo di Marco 16, 1 e seguenti. L’evangelista racconta che alle tre
Marie, recatesi presso il sepolcro in cerca del Salvatore, apparve in Sua
vece un angelo con l’aspetto di un giovane vestito di bianco, il quale rivolse
loro queste parole: «Voi domandate lo Salvatore, e io vi dico che non è qui;
[...] ite, e dite a li discepoli suoi e a Piero che elli li precederà in Galilea; e
quivi lo vedrete, sì come vi disse» (Convivio IV xxii 14). Pare che l’inter-
pretazione dantesca del passo di Marco non trovi alcun precedente: le tre
Marie vengono identificate con altrettante scuole filosofiche dell’antichi-
tà pagana – epicurei, stoici, e aristotelici – accomunate dall’aver conside-
rato come fonte di salvezza la vita attiva e i beni mondani rappresentati
dal sepolcro, simbolo delle realtà corruttibili. Ma poiché la salvezza non
risiede nelle realtà di questo mondo transeunte, le tre scuole filosofiche
si imbattono in un angelo che reca loro l’annuncio della vera salvezza in
Cristo. Nell’interpretazione di Dante l’angelo non rimanda a una istanza
trascendente, ma simboleggia il raziocinio della mente umana, o meglio la
nobiltà di ogni singolo essere umano identificata con l’intelletto possibile
di cui parla Aristotele nel De anima. Dante ha elaborato questo problema,
legato alla complessa tematica dell’origine dell’anima, in tutto il blocco dei
primi venti capitoli del IV libro. In antitesi alla concezione feudale che la
tradizione attribuiva all’imperatore Federico II, il quale avrebbe somma-
riamente definito la nobiltà come «antica ricchezza e belli costumi», Dante
costruisce una definizione filosoficamente articolata che si ispira al model-
lo aristotelico delle quattro cause. Al termine di una lunga dissertazione
impostata secondo i criteri della quaestio scolastica, egli chiarisce che la
nobiltà appartiene al singolo individuo, e non alla stirpe o alla casata. Al
pregiudizio feudale che considera l’aristocrazia come una rendita eredi-
taria, Dante sostituisce la concezione individualistica secondo cui la vera
nobiltà è «seme di felicitade messo da Dio nell’anima ben posta» (Convi-
alessandro raffi
14
vio IV xx 9), ribadendo quanto segue: «[...] e dico intelletto per la nobile
parte de l’anima nostra, che con uno vocabulo “mente” si può chiamare»
(Convivio IV xv 11). L’autentica nobiltà appartiene alla dimensione del-
lo spirito e si identifica con il patrimonio che Dio infonde in ogni essere
creato a Sua immagine. Questo patrimonio è il seme di virtù che ciascuno
di noi è chiamato a coltivare, e la mente umana, che incarna tale tesoro,
coincide con la voce della ragione che parla in noi assumendo le sembian-
ze dell’angelo evocato in allegoria dal passo di Marco. È questo angelo in
interiore homine a indirizzare le tre scuole filosofiche antiche alla vera sal-
vezza che Cristo annuncerà al mondo intero. La beatitudine che andate
cercando in questo mondo transeunte, proclama l’angelo, risiede altrove.
Essa scaturisce dalla vita speculativa, intesa come l’anticipazione della pace
ultraterrena che conseguiremo pienamente allorché «erimus sicut angeli»
(Vangelo di Matteo, 22, 30). Dante sembra suggerire che la filosofia, quali-
ficata come «amoroso uso di sapienza», secondo quanto teorizzato nel III
libro del Convivio, pur non costituendo un corpus di dottrine caratteriz-
zato da una dipendenza ancillare nei confronti della teologia è comunque
una attività dotata di un orientamento escatologico. Tra l’Egitto del nostro
peregrinare nel frattempo, e la gloria futura della Gerusalemme celeste, si
insinua questa regione intermedia che è la Galilea della vita speculativa. La
gioia che promana da essa, già in questa vita, anticipa la beatitudine che
è oggetto della promessa. È opportuno seguire da vicino Dante nella sua
minuziosa esegesi:
Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene, come detto è, che
ne la nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste sette, cioè a qualunque
va cercando beatitudine ne la vita attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo a li
discepoli [...] che in Galilea li precederà: cioè che la beatitudine precederà noi
in Galilea, cioè ne la speculazione. Galilea è tanto a dire quanto bianchezza.
Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro; e così la
contemplazione è più piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia. E
dice: “Elli precederà”; e non dice: “Elli sarà con voi”: a dare a intendere che ne
la nostra contemplazione Dio sempre precede, né ma lui giugnere potemo qui,
lo quale è nostra beatitudine somma (Convivio IV xxii 16-18).
L’angelo che appare alle tre donne accanto al sepolcro vuoto è il nunzio
della salvezza in Cristo, e le sue parole vanno intese alla lettera: in questa
vita Egli «precederà», e non sarà «con voi» nella visione faccia a faccia. La
distanza che separa l’amoroso uso di sapienza attuabile in questa vita dalla
i tre volti della teologia in dante alighieri
15
pace dell’unica vera «teologia», identificata con la visione in patria, viene
ribadita anche in questo contesto. Il simbolismo cromatico continua ad
avere una funzione strutturale nell’ambito delle metafore dantesche: se nel
secondo libro del Convivio il candore della colomba era icona della «scien-
za divina», nel quarto libro la bianchezza della Galilea rimanda alla beati-
tudine raggiungibile in questa vita9
. L’angelo vestito di bianco che appare
alle tre donne è a sua volta il nunzio della Rivelazione, ma è anche la voce
che «ne la nostra ragione parla». Egli ci insegna che se la beatitudine som-
ma consiste nella visione del Volto di Dio di cui fruiremo nella vita futura,
la speculazione attuabile nel frattempo è anch’essa «piena di luce spiritua-
le». Partendo da tali premesse, Dante perviene a ridefinire il tradizionale
dualismo tra vita attiva e vita contemplativa nei termini di una distinzione
fra tre livelli di beatitudine:
E così appare che nostra beatitudine [...] prima trovare potemo quasi imper-
fetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta
quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espe-
dite e direttissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote
avere (Convivio IV xxii 18).
Non c’è alcuna contraddizione nel ripartire la beatitudine in tre gradi di
perfezione, qualora l’intento sia quello di separare la letizia conseguibile
nella vita futura per mezzo della Grazia dai possibili livelli di attuazione
delle potenzialità proprie della ragione naturale. Alla fine, la riflessione
dantesca si ricollega al medesimo criterio epistemologico adottato nel se-
condo libro del Convivio. Alle nove sfere celesti corrispondenti alle scien-
ze umane praticabili in statu viae, si contrappone la teologia intesa come
scientia Dei et beatorum, un sapere che risiede nell’Empireo sia in senso
allegorico che in senso letterale. Al desiderio che alimenta il movimento
delle nove scienze attorno al loro subiectum fa riscontro la beatitudine di
coloro che contemplano il Verbo nel fulgore della grazia illuminante, nella
pienezza di una visione che non è in alcun modo attardata dalle procedure
proprie di un sapere dianoetico. Di più: la sfasatura tra la visione di cui
fruiscono i beati in patria e i limiti della condizione terrena costituisce l’as-
9
La fonte a cui Dante attinge nel ricostruire l’etimologia di «Galilea» è Isidoro di Siviglia,
come puntualmente rilevato da Cesare Vasoli nella nota a p. 792 dell’edizione critica del
Convivio citata in precedenza: «Galilaea regio Palestinae vocata quod gignat candidiores
homines quam Palestina» (ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae XIV iii 23).
alessandro raffi
16
se epistemologico attorno al quale ruota l’intera struttura narrativa della
Commedia. Dante pellegrino è un uomo del frattempo a cui la Grazia ha
concesso lo straordinario privilegio di visitare i tre regni dell’oltretomba
prima che la sua vita terrena sia giunta al termine. Tuttavia, questo privi-
legio non abolisce in alcun modo, anzi esalta la distanza che separa la sua
condizione di mortale dalla perenne letizia dei beati. Al desiderio del vian-
dante in cammino verso la visio Dei si contrappone la pace di coloro che
sono cittadini a pieno titolo della Gerusalemme celeste. Il paradosso del
pellegrino che irrompe nel regno dei beati introducendo il tempo nell’eter-
nità è forse l’aspetto più inquietante dell’intera Commedia, un aspetto su
cui gli studiosi hanno da tempo offerto contributi illuminanti10
. Proviamo
ad addentrarci in questo paradosso avvalendoci di un esempio tratto dal
canto XIII del Paradiso, dove ha luogo l’incontro fra Dante e San Tomma-
so.
Ci troviamo in una fase decisiva nell’ascesa verso l’Empireo. Sullo sfon-
do del clima corale che caratterizza il cielo del sole, dove si raccolgono le
anime dei sapienti, San Tommaso intona un grandioso cantico sulla cre-
azione. L’incalzante sequenza di terzine in cui si scandisce la lezione di
teologia in patria traduce in termini discorsivi, ossia nel linguaggio che
Dante può intendere, la verità contemplata nel Verbo attraverso un atto di
intuizione intellettuale:
Ciò che non more e ciò che può morire
non è se non splendor di quella idea
che partorisce, amando, il nostro Sire:
ché quella viva luce che sí mea
dal suo lucente, che non si disuna
da lui né dall’amor ch’a lor s’intrea,
per sua bontate il suo raggiare aduna,
quasi specchiato, in nove sussistenze,
etternalmente rimanendosi una.
10
Per un’analisi di questi aspetti si vedano, in particolare, gli studi seguenti: B. NARDI,
Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza 1949; H.U. VON BALTHASAR, Dante, in Glo-
ria, vol. 3, Stili laicali, Milano, Jaca Book 1976; S. BEMROSE, Dante’s angelic intelligencies.
Their importance in the Cosmos and in Pre-Christian religion, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura 1983; F. LIVI, Dante e la teologia. L’immagine poetica nella “Divina Commedia”
come interpretazione del dogma, Roma, Leonardo da Vinci, 2008; Aa.Vv. Etica e teologia
nella “Commedia” di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2009; T. BAROLINI, Il
secolo di Dante. Viaggio alle origini della cultura letteraria italiana, Milano, Bompiani 2012.
i tre volti della teologia in dante alighieri
17
Quindi discende all’ultime potenze
giù d’atto in atto, tanto divenendo,
che più non fa che brevi contingenze;
e queste contingenze essere intendo
le cose generate, che produce
con seme e sanza seme il ciel movendo.
(Paradiso XIII, vv. 52-66)
La verità che Tommaso vede faccia a faccia viene articolata in un discor-
so che obbedisce ai canoni della scientia argumentativa. L’Angelico inizia
ripartendo la totalità dell’essere in due regioni: «ciò che non more e ciò
che può morire». Il processo creativo viene raffigurato all’interno della
prospettiva trinitaria, in maniera tale da rendere la metafisica quasi una
appendice della teologia. L’asse portante del discorso è assicurato dalla di-
stinzione tra «genitum» e «factum» ricavata dal simbolo niceno: se la vita
intradivina delle tre persone scorre in un perpetuo circuito pericoretico
che non cade nel tempo, essendo coeterno all’unità del Padre, la vita delle
cose create, che ricevono l’essere da Dio, si protende nel tempo secondo
due possibilità complementari, corrispondenti alla suddivisione aristote-
lica del cosmo nei domini del sopralunare e del sublunare. Da un lato, le
sfere celesti governate dalle intelligenze angeliche e dotate di una materia
perfettamente saldata alla forma: si tratta delle realtà «le quali ebbero da
Dio cominciamento di creazione» (Convivio II xiv 11). Dall’altro, i quattro
elementi di cui è costituita la materia del mondo inferiore, uno spazio in
continua effervescenza dove le forme si avvicendano le une alle altre deter-
minando la generazione e la corruzione delle sostanze individuali. Fermo
restando che ognuna delle due metà, a diverso titolo, costituisce un riflesso
dell’Idea, la cui dimora iperurania è tutt’uno con la Sapientia Dei, viene ri-
badito il principio secondo cui ciò che deriva da Dio «sanza mezzo» ignora
la morte e la corruzione: sia che si tratti delle intelligenze angeliche sia
che si tratti dell’anima di ogni singolo essere umano, compreso il «seme
di felicitade» in cui consiste la sua nobiltà. Non c’è angolo dell’essere che
non sia raggiunto da Dio in quanto causa remota e universale di tutte le
cose, ma sarebbe assurdo voler inferire da tale premessa che ogni ente del
mondo inferiore, ogni singola «contingenza» che si squaderna nello spa-
zio della materia sublunare sia il risultato di una creazione ex nihilo. Ne
va dell’autosufficienza della natura intesa come ordine cosmico munito di
una razionalità immanente e dotato di autonoma legalità. Ogni singolo
processo naturale, altrimenti, sarebbe un miracolo. Tutto ciò che esiste,
alessandro raffi
18
quindi, è «splendore dell’Idea», riflesso dell’archetipo eterno presente
nell’intelletto divino, ma le realtà imperiture e gli enti corruttibili lo sono a
diverso titolo. L’Idea partorita dall’amore del Sire è causa esemplare di tut-
te le cose. Idea al singolare, appunto, non una folla politeistica come quella
che il Demiurgo del Timeo platonico prende a modello per dare forma
alla materia primordiale. Al mito dell’Artifex che plasma la materia sulla
base di un paradigma contemplato dall’esterno, subentra l’icona della vita
intradivina: il Padre non è mero architetto, ma Sire partoriente e Amore
diffusivo che vede nel Figlio l’archetipo di tutte le cose. La moltiplicazione
della Luce esplode al di fuori del Deus-Trinitas nell’istante della creazione,
e viene incessantemente riverberata dal gioco di specchi delle nove «sussi-
stenze» angeliche che danzano eternamente attorno al Punto da cui hanno
origine tutte le cose. Nell’assumere le caratteristiche di un vero e proprio
«regista del paradiso dei teologi», richiamando le parole di Inos Biffi, Tom-
maso si rivolge a Dante nelle vesti di un magister che sopperisce ai limiti
di una mente terrena adottando il linguaggio di quest’ultima11
. Il discor-
so di teologia che Tommaso svolge nel cielo del sole traduce in termini
dianoetici una verità che per lui, in quanto beato, è oggetto di intuizione
intellettuale. Non bisogna mai dimenticare che la gerarchia dei cieli entro i
quali i beati appaiono a Dante, man mano che il suo itinerarium in Deum
si avvicina alla meta, costituisce un espediente didattico e narrativo la cui
strategia viene spiegata al lettore nel IV canto del Paradiso. I beati risiedo-
no nell’Empireo, regno spirituale che è al di fuori dello spazio e del tempo;
Dante risale la scala di Giacobbe avvalendosi dell’indispensabile soccorso
di Beatrice. Affinché sia possibile un dialogo tra Dante e i beati è necessario
che l’eternità si cali nel tempo, ovvero che i beati insediati nell’Empireo si
manifestino a Dante in una sequenza corrispondente alla serie dei nove
cieli12
. In altri termini, è necessario che la teologia partecipata di cui essi
fruiscono attraverso l’intuizione delle cose nel Verbo, si traduca in discor-
so, in logos partecipabile da un intelletto mortale. È ovvio che Tommaso,
nel canto XIII del Paradiso non parla da Dottore della Chiesa memore del
sapere racchiuso nella Summa Theologiae, ma come autentico «teologo»
11
I. BIFFI, Figure del pensiero medievale. La nuova razionalità, vol. 4, Milano, Jaca Book
2009, 689.
12
Per un approfondimento di questa particolare tematica, mi permetto di rinviare al mio
saggio Dante e il Timeo: nota sugli aspetti metaletterari del IV canto del Paradiso, in «Campi
Immaginabili», 34/35, 2006.
i tre volti della teologia in dante alighieri
19
che adesso vede in Dio ciò che un tempo «in sua fede era», come già di-
chiarava Giustiniano in Paradiso VI, v. 19. Dall’alto del suo scranno celeste
l’Angelico impartisce a Dante una lezione di teologia ben diversa da quella
che avrebbe potuto tenere agli studenti dell’università di Parigi! Autentico
teologo è colui che partecipando alla «festa di Paradiso» vede faccia a faccia
ciò che per noi pellegrini rimane oggetto della promessa escatologica. Del-
la visione concessa ai beati Dante avrà un assaggio soltanto al culmine del
suo itinerario in cielo, allorché nel XXXIII canto del Paradiso, per interces-
sione della Vergine Maria a cui San Bernardo si rivolgerà con la preghiera
più intensa dell’intero poema, gli sarà concesso il privilegio di scorgere per
un fugace istante il Volto di Dio. Le sfere celesti che Dante attraversa di
grado in grado, dal cielo della Luna fino al Primo Mobile, non tradiscono
l’idea di scienza come studium e movimento che Dante aveva elaborato
attraverso l’enciclopedia del secondo libro del Convivio. Il moto circolare
delle nove sfere si rapporta alla quiete dell’Empireo come lo studium dei
viatores alla sazietà di chi è beato in patria. E il decimo cielo, oltre ad essere
metafora della scienza abissale posseduta da Colui che solo vede sé com-
piutamente, diventa letteralmente la Patria di coloro che sono chiamati a
partecipare di tale visione, entro i limiti e nella misura concessa a un intel-
letto creato. Vi è pace sia nella «teologia» increata e impartecipata del Pa-
dre, sia nella teologia partecipata dalle creature irradiate e illuminate dalla
Grazia. Ecco allora che l’Empireo, nella radicale trascendenza che lo separa
da ogni altra «sfera» del sapere, si configura come il luogo di una scienza
che ha oltrepassato l’intero ambito del sermo per approdare alla trasparen-
za della pura «theoria». L’Empireo è lo spazio «senza ubi né quando» in
cui rifulge la Gerusalemme celeste, intesa nel senso etimologico: «visione
di pace». L’espressione theologia viatorum, nella prospettiva di Dante, ha
senso soltanto come ascolto fedele della parola evangelica e apertura al
kerygma del Verbo incarnato. Mai, in questa vita, potremo «sillogizzare»
facendo della natura di Dio il termine ultimo di una certezza mondana, o il
punto d’avvio di un discorso scientificamente certo. L’apertura al mistero
e l’orientamento escatologico impediscono a Dante di pensare alla teolo-
gia come a una disciplina scientifica, con una mossa radicale che alla fine
mette tra parentesi sia il tradizionale concetto di subalternazione, sia l’idea
stessa di scientia argumentativa. Quanto delle posizioni dantesche possa
essere considerato un’anticipazione della critica che Duns Scoto rivolgerà
alla teologia di Tommaso è un tema che eccede l’ambito del presente la-
voro. Si tratta di un territorio ancora inesplorato che merita senza dubbio
ulteriori approfondimenti.
Dante teologo areopago_raffi

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  • 1. 1 I TRE VOLTI DELLA TEOLOGIA IN DANTE ALIGHIERI: «SAPIENTIA» DIVINA, ANGELICA E UMANA alessandro raffi La teologia come Sapientia increata Nel secondo libro del Convivio, Dante procede a codificare l’insieme delle arti e delle scienze che costituiscono l’enciclopedia del sapere a lui con- temporaneo, elaborando un sistema di corrispondenze che associa ogni singola disciplina a un cielo del cosmo medievale. Alla sfera della Luna egli fa corrispondere la grammatica, a Mercurio la dialettica, al cielo di Vene- re la retorica. Seguono le arti del quadrivio con il Sole associato all’arit- metica, Marte alla musica, Giove alla geometria e Saturno all’astronomia. La corrispondenza biunivoca si arresta soltanto all’altezza della sfera delle stelle fisse, dove coabitano due scienze: fisica e metafisica. Senza entrare nei dettagli del complesso rapporto allegorico che Dante stabilisce per giu- stificare tale eccezione, basti ricordare che la fisica è posta in analogia con il polo visibile della sfera delle stelle fisse, il quale rimanda alla conoscen- za delle realtà sensibili e corruttibili. Il polo opposto, afferente alla meta- fisica, rinvia all’insieme delle «cose incorruttibili, le quali ebbero da Dio cominciamento di creazione» (Convivio II xiv 11). Oltrepassata la sfera del Primo mobile, il nono cielo in cui risiede l’etica, Dante completa la sua costruzione facendo corrispondere la teologia all’Empireo: «ed al cielo quieto risponde la scienza divina, che è Teologia appellata» (Convivio II xii 8)1 . Il disegno architettonico che sta alla base di tale edificio si conforma al 1 In questo lavoro facciamo riferimento all’edizione critica del Convivio curata da C.
  • 2. alessandro raffi 2 principio secondo cui il movimento di ciascun cielo attorno al centro del cosmo vale come allegoria della «rotazione» di ogni singola disciplina at- torno all’oggetto che le compete. Per sua natura il sapere è movimento, in quanto scaturisce dal desiderio che appartiene costitutivamente all’essere umano, creatura finita in cammino verso la verità. Sotto questo profilo, la teologia è una scienza ineguagliabile che sovrasta l’intero complesso delle scienze umane: la trascendenza dell’Empireo, che include tutti gli altri cieli senza essere circoscritto da alcuna sfera, raffigura la fine di ogni ricerca, il pieno possesso di quella Verità che per le creature razionali finite rimane oggetto di desiderio e di speranza. Il cielo dei cieli «quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade che sola sé compiutamente vede» (Convi- vio II iii 10). La collocazione della teologia nell’Empireo riproduce in for- ma allegorica la trascendenza del sapere divino rispetto all’intero comples- so delle conoscenze conseguibili con l’uso della ragione naturale. Intesa in questa accezione, la teologia si identifica per Dante con la Sapientia cantata dai libri salomonici e con l’insegnamento di Cristo: Lo Cielo empireo per la sua pace simiglia la divina scienza, che piena è di tutta pace; la quale non soffera lite alcuna d’oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio. E di questa pace dice esso a li suoi discepoli: «La pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi», dando e lasciando a loro la sua dottrina, ch’è questa scienza di cu ’io parlo. Di costei dice Salomone: «Sessanta sono le regine, e ottanta l’amiche concubine; e de le ancille adolescenti non è numero: una è la colomba mia e la perfetta mia». Tut- te scienze chiama regine e drude e ancille; e questa chiama colomba, perché è sanza macula di lite, e questa chiama perfetta perché perfettamente ne fa il vero vedere nel quale si cheta l’anima nostra (Convivio II xiv 19-20). Queste righe contengono la più esaustiva trattazione della teologia che sia dato rinvenire nell’opera del sommo poeta. Dante deduce le caratteristiche della scienza divina dalle due peculiarità dell’Empireo: l’assenza di moto e VASOLI e D. DE ROBERTIS (DANTE ALIGHIERI, Opere minori, tomo I, parte II, Milano – Napoli, Ricciardi Editore 1988). Come è noto, il Convivio è databile agli anni 1304-1307. Secondo il progetto originario avrebbe dovuto comprendere quindici trattati, un’introdu- zione generale e quattordici commenti ad altrettante canzoni scritte in volgare. Dante riuscì a completare soltanto la stesura dei primi quattro libri, per il sopraggiungere del nuovo impegno della Commedia cui avrebbe dedicato tutte le sue energie. Tra la stesura dei primi tre libri e la redazione del quarto, all’incirca tra il 1305 e il 1306, si colloca la composizione del De vulgari eloquentia.
  • 3. i tre volti della teologia in dante alighieri 3 la pace assoluta2 . Dato che il sapere umano è legato al desiderio, e quindi al movimento circolare della scienza attorno al proprio oggetto, la dottrina di cui l’Empireo è icona raffigura un Sapere affrancato dai limiti gnoseo- logici che caratterizzano il mondo delle creature terrene. La pace assoluta che la contraddistingue non coincide con la reale situazione in cui versa il sedicente sapere teologico degli esseri umani, né tanto meno riflette la condizione storica della teologia al tempo di Dante. Alla pace eterna del coelum coeli corrisponde pertanto la quiete della Sapientia Dei, intesa nel senso del genitivo soggettivo, ma anche l’annuncio di verità e salvezza che risuona nella parola di Cristo3 . Nel passo sopra citato, Dante sottolinea il carattere costitutivamente kerygmatico della teologia riportando il passo del Vangelo di Giovanni 14, 27: «Pacem relinquo vobis, pacem meam do vo- bis». Se la teologia non è altro che la pace con cui «la somma Deitade» vede compiutamente se stessa, ossia la piena coincidenza tra certezza soggettiva e verità oggettiva, questa stessa pace ci viene donata attraverso il Figlio in quanto Verbo incarnato. Il passo in cui Dante descrive le caratteristiche della teologia non fa alcun riferimento né all’idea scolastica di scientia ar- gumentativa, né al principio tommasiano di subalternazione secondo cui gli articula fidei da assumere come principi della teologia sono ricavati «lu- mine superioris scientiae, quae scilicet est scientia Dei et beatorum» (STh I, q. 1, art. 2, Resp.). Un aspetto, questo, su cui sarà opportuno soffermarsi facendo tesoro delle riflessioni di Padre Kenelm Foster e di Etienne Gilson. Alla voce «Teologia» dell’Enciclopedia Dantesca Kenelm Foster precisa: Dante, a dir poco, non è meno distante da Bonaventura che da Tommaso. An- zitutto perché Bonaventura attribuisce scarso valore alla filosofia separata dalla T., e in secondo luogo perché per lui, come per Tommaso (pur con diversa accen- 2 Sulle caratteristiche dell’Empireo dantesco si veda il magistrale lavoro di B. NARDI, La dottrina dell’Empireo nella sua genesi storica e nel pensiero dantesco, in ID. Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia 1967. 3 Si veda anche la seguente apostrofe, a conclusione del terzo libro del Convivio: «O peggio che morti che l’amistà di costei fuggite, aprite li occhi vostri e mirate: ché innanzi che voi foste, ella fu amatrice di voi [...]; e poi che fatti foste, per voi dirizzare, in vostra similitudine venne a voi. E se tutti al suo conspetto venire non potete, onorate lei ne’ suoi amici e seguite li comandamenti loro, sì come quelli che nunziano la volontà di quella et- ternale imperadrice; [...]» (Convivio III xv 17-18). L’identificazione tra Cristo e la Sapienza incarnata «in similitudinem hominum» («in vostra similitudine venne a voi») è palesemente ricavata dalla Lettera ai Filippesi 2, 7.
  • 4. alessandro raffi 4 tuazione), quello della T. è un “modus ratiocinativus sive inquisitivus” (I Sent. proem. 2, sol.) “per discursus et inquisitionem” (III Sent. XXXIV I 2 3) in quanto esso verte sul “credibile” proprio perché “transit in rationem intelligibilis per ad- ditionem rationis” (I Sent. proem. 1). In sostanza, la ricerca razionale rappresenta anche per Bonaventura una parte essenziale della T. [...]. Di contro alle opinioni dei due grandi teologi, la nozione dantesca di T. può essere caratterizzata, nega- tivamente, come la rimozione della ragione dall’ambito della T., e positivamente, come l’identificazione della T. con l’insegnamento di Cristo, cioè come una sorta di adombramento sulla terra, accolto solo per fede, di verità che trascendono la ‘presente’ capacità della ragione e che saranno svelate in una vita futura4 . L’unica theologia viatorum che Dante è disposto a riconoscere consiste nell’a- scolto della Parola consegnata alla Scrittura e trasmessa nella tradizione della fede ecclesiale. Nel Convivio non vi è ancora alcuna traccia della complessa dialettica speculativa che tanta parte avrà nei canti dottrinali del Paradiso, là dove Beatrice o le anime degli altri beati introdurranno Dante alla conoscen- za dei misteri della fede argomentando more sillogistico a partire da premesse accolte «immediate a Deo per revelationem» (STh I, q. 1, art. 5, ad 2). La ridu- zione della teologia al kerygma evangelico sembra negare alla sacra doctrina quel carattere di scienza argomentativa che San Tommaso, rivendicava, tra gli altri luoghi, nell’articolo 8 della I Quaestio della Summa Theologiae, libro I5 . Contrariamente a quanto si continua a ripetere, Dante è tutt’altro che il pedissequo ripetitore delle dottrine tomistiche. Come ha dimostrato Etienne Gilson nella sua magistrale monografia dedicata al pensiero dantesco, i rife- rimenti biblici presenti nel brano del Convivio sopra citato sembrano scelti, se non in polemica con l’Angelico, certamente con l’intento di delineare una posizione assai differente, anche in merito alla vexata quaestio dei rapporti tra filosofia e teologia. Gilson fa notare che nell’articolo della Summa Theologiae che va sotto il titolo «Utrum sacra doctrina sit dignior aliis scientiis», Tom- maso rivendica il primato della teologia sulle scienze umane allo scopo di subordinare la ragione alla fede. Nel Sedcontra ricorre il passo dei Proverbi 9, 4 Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana 1970-1978, vol. V, 565 [d’ora in poi ED]. 5 Si veda a questo proposito quanto scrive Inos Biffi: «[...] la sacra doctrina comporta tut- ta un’attività delle risorse della ratio, che, mentre lasciano intatto il livello e la prerogativa della fede, da cui sono accolti i principi in un atteggiamento obbedienziale, è attivamente presente nel suo esercizio». (I. BIFFI, Sulle vie dell’Angelico: teologia, storia, contemplazio- ne, Milano, Jaca Book 2009, 36).
  • 5. i tre volti della teologia in dante alighieri 5 3: «Misit ancillas suas vocare ad arcem». Nel brano del Convivio sopra citato, Dante proclama la trascendenza della teologia allegando una citazione dal Cantico dei cantici 6, 7 («Sexaginta sunt reginae, et octoginta concubinae, et adulescentularum non est numerus: una sit columba mea, perfecta mea»). La preferenza «di un Salomone all’altro», commenta Gilson, si spiega con il fatto che il simbolismo adottato da Tommaso «fa delle altre scienze altrettante an- celle della teologia che è la loro regina, mentre il testo scelto da Dante fa della teologia una colomba pura, ma non una regina»6 . Stando all’interpretazione di Gilson, Dante, separando nettamente la scienza divina dall’intero comples- so delle scienze umane, intende affermare la trascendenza della teologia, ma al tempo stesso negare la subordinazione delle seconde alla prima. Il primato incontestabile della scienza divina non equivale a una riduzione strumentale della filosofia a mera ancilla priva di una intrinseca dignità epistemologica. La teologia è una colomba pura e immacolata, ma le scienze umane, compresa quella sorta di teologia naturale che è la metafisica, sono regine, non ancelle. Il candore della colomba rinvia alla perfezione sovrannaturale di una dottrina che «è sanza macula di lite»: i commentatori non hanno mai rilevato che l’e- spressione adottata in questo contesto rimanda, a distanza di pochi paragrafi, all’analoga formula con cui Dante, nell’associare la geometria al cielo di Gio- ve, stabiliva un rapporto allegorico tra il colore bianco del pianeta e la perfe- zione della geometria, scienza definita «sanza macula di errore»7 . All’interno 6 E. GILSON, Dante e la filosofia, Milano, Jaca Book 1987, 111. Si vedano ancora le seguenti osservazioni di K. Foster: «Nella correlazione di scienze e sfere celesti, D. fa cor- rispondere le nove sfere, conoscibili a opera della ragione naturale, alle scienze che com- pongono il corpo della filosofia, mentre alla T., la Divina Scienza, lascia il cielo estremo, conoscibile grazie alla sola fede; si tratta dell’Empireo, cielo assolutamente privo di moto e pieno di pace. Cos’è allora la T. in sé? Essa non è altro che la dottrina lasciata da Cristo al mondo, come legato di pace; un corpo dottrinale sul quale non è dato argomentare – e tanto meno dibattere – proprio per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio. La T. è la colomba mia e la perfetta mia, secondo le espressioni profetiche di Salomo- ne; colomba per la sua quiete serena (sanza macula di lite) e perfetta in quanto ci mostra perfettamente il vero... nel quale si cheta l’anima nostra (II xiii-xiv; in particolare xiii 8, xiv 19-20)» (in ED, vol. V, 566). 7 «E ancora la Geometria è bianchissima, in quanto è senza macula d’errore e certissima per sé e per la sua ancelle, che si chiama Perspettiva» (Convivio II xiii 27). Il lessico adottato in questo passo ci suggerisce una ulteriore osservazione: per Dante una scienza è «ancella» di un’altra quando tra le due sussiste un rapporto di subalternazione, come appunto nel caso della geometria e della prospettiva. La prima procede da principi noti per sé, la secon- da procede da principi desunti dalla prima. Quello della geometria e della prospettiva è un
  • 6. alessandro raffi 6 del simbolismo cromatico che Dante impiega costantemente in tutte le sue opere, il bianco rimanda all’idea di una conoscenza priva di ombre, sia che tale conoscenza derivi dal lume naturale dell’intelletto umano, che perviene alla verità attraverso sequenze dimostrative come nel caso delle geometria, sia che essa derivi dalla Luce fontale che Dio irradia sulle creature. Non essendo compito della teologia quello di fornire evidenze dimostrative a partire dagli articula fidei, la pacifica certezza in cui consiste la scienza divina si comunica a noi unicamente attraverso il kerygma evangelico. Le motivazioni che indu- cono Dante a teorizzare la trascendenza della teologia trovano un riscontro in un passo del secondo libro del Convivio che precede di qualche capitolo l’esposizione del sistema enciclopedico. Affrontando il tema dell’immortalità dell’anima, Dante sostiene con forza la tesi secondo cui l’unico vero fonda- mento di tale credenza è la dottrina di Cristo: Ancora, n’accerta la dottrina veracissima di Cristo, la quale è via, verità, luce: via, perché per essa sanza impedimento andiamo a la felicitade di quella im- mortalitade; verità, perché non soffera alcuno errore; luce, perchè allumina noi ne la tenebra de la ignoranza mondana. Questa dottrina dico che ne fa certi so- pra tutte altre ragioni, però che quello la n’hae data che la nostra immortalita- de vede e misura. La quale noi non potemo perfettamente vedere mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede perfettamen- te, e per ragione lo vedemo con ombra d’oscuritade [...](Convivio II viii 14-15). Colui che ha incarnato la Sapienza del Padre ci ha insegnato che l’anima è immortale, sopperendo alla mancanza di argomenti razionali in grado di offrirci una prova risolutiva. Nella parola di Cristo risuona la scienza di Colui che vede e misura ogni cosa, compresa la nostra immortalità: que- sta scienza è la colomba bianca che illumina la fede, là dove il lume della ragione metafisica ci permette di adocchiare la verità «con ombra di oscu- ritade». La perfetta consonanza tra i due passi è evidente persino a livello espressivo: la dottrina veracissima di Cristo «non soffera alcuno errore» (Convivio II viii 14); la scienza divina «non soffera lite alcuna d’oppinio- ni o di sofistici argomenti» (Convivio II xiv 19). Ogni scienza umana che pretenda di ergersi a «teologia» corre il rischio, nel migliore dei casi, di trasformarsi in vaniloquio. esempio classico che appartiene al repertorio dei topoi più diffusi nell’ambito della Scolasti- ca, si veda ad es. il già citato passo di San Tommaso, STh I, q. 1, art. 2, Resp.
  • 7. i tre volti della teologia in dante alighieri 7 Il rigore con cui Dante separa la teologia dal novero delle scienze uma- ne torna nell’invettiva di Beatrice collocata all’altezza del canto XXIX del Paradiso. Dopo aver ricordato la caduta degli angeli ribelli, Beatrice con- danna la posizione di quanti vanno affermando, nel mondo, che anche le intelligenze separate sono dotate di memoria. Come si può essere così stolti da eguagliare la condizione dei viatores alla beatitudine di coloro che contemplano gli esemplari delle cose in Dio? Traendo spunto da que- sto tema specifico Beatrice dà inizio a una digressione con cui condanna l’arroganza di coloro che antepongono le proprie personalissime dottrine alla «divina Scrittura» deformandone il vero significato. Nel ricordare che a Dio piace soltanto «chi umilmente ad essa si accosta» (Paradiso XXIX, v. 93) la guida di Dante conclude: «Non disse Cristo al suo primo convento: ‘Andate, e predicate al mondo ciance’; ma diede lor verace fondamento; e quel tanto sonò ne le sue guance sì ch’a pugnar per accender la fede de l’Evangelio fero scudo e lance». (Paradiso XXIX, vv. 109-114) Il supplemento di grazia offerto dalla teologia rivelata colma le lacune del sapere umano in ambiti che per tradizione sono rivendicati dalla ratio me- tafisica: il Convivio adduce l’esempio dell’immortalità dell’anima, il canto XXIX del Paradiso cita il problema delle facoltà cognitive delle intelligenze angeliche. Attenersi strettamente alla dottrina evangelica è l’unico modo per parlare con «fondamento» di simili questioni, in quanto esclusivo ese- geta della Scientia Dei è il Figlio. E se una distanza abissale separa la visione che il Figlio ha del Padre dalla veduta concessa alle massime intelligenze angeliche, fossero anche i serafini collocati nei più alti scranni della gerar- chia celeste, quale scientia argumentativa potrà pretendere di offrire alla fede armi più potenti del Vangelo? Dalla Sapientia Dei alla teologia partecipata Tra le undici scienze che Dante accoglie all’interno dello schema enciclo- pedico elaborato nel secondo libro del Convivio la filosofia è assente, o meglio: non viene esplicitamente nominata come tale. Siamo di fronte a
  • 8. alessandro raffi 8 un apparente paradosso che lo stesso Dante ritiene opportuno chiarire al lettore, come leggiamo in questo passo del terzo libro: [...] per lunga consuetudine le scienze ne le quali più ferventemente la Filosofia termina la sua vista, sono chiamate per lo suo nome. Sì come la Scienza Natu- rale, la Morale, e la Metafisica, la quale, perché più necessariamente in quella termina lo suo viso e con più fervore, Prima Filosofia è chiamata. Onde vedere si può come secondariamente le scienze sono Filosofia appellate (Convivio III xi 16-17). Il terzo libro del Convivio è costruito in forma di commento alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona, e il suo obiettivo è quello di offrire una definizione rigorosa della filosofia intesa come «amoroso uso di sapienza». Dal punto di vista contenutistico gli oggetti della filosofia sono quelli stu- diati dalle sue principali divisioni: fisica, etica, e metafisica. Il suo campo di indagine coincide con l’ambito delle tre scienze superiori nei confronti delle quali le arti liberali svolgono una funzione subalterna e propedeutica, in conformità all’assetto istituzionale delle università medievali. Tuttavia, per Dante l’essenza della filosofia non può essere colta in maniera appro- priata attraverso una definizione che guardi unicamente ai contenuti. La peculiarità della filosofia sta nel «fervore» con cui l’occhio di chi è dedito alla scienza si innamora degli oggetti del sapere. Se nelle partizione dei contenuti Dante si attiene al criterio aristotelico che distingue scienze te- oretiche e scienze pratiche, quando si tratta di stabilire in cosa consista l’attività speculativa egli sembra riecheggiare il motivo platonico dell’eros filosofico. La concezione stilnovistica dell’amore che ha segnato gli esor- di dell’attività poetica di Dante viene tradotta nell’ambito teoretico. Ed è per questo motivo che egli celebra la filosofia attraverso la metafora della «Donna gentile», nucleo dominante del terzo libro del Convivio. Ecco allo- ra spiegata l’apparente anomalia: nel sistema enciclopedico delle discipline redatto nel secondo libro del Convivio compaiono i termini che indicano le singole scienze in quanto sono definite in relazione ai loro contenuti. Il nome di filosofia non ricorre perchè quest’ultima denota l’habitus dello scienziato, il bios theoretikos aristotelico, l’eros filosofico: un modello esi- stenziale, piuttosto che un apparato dottrinale. Parafrasando un celeberri- mo motto di Ludwig Wittgenstein potremmo dire che anche per Dante la filosofia non è una dottrina, ma un’attività. La «primaia e vera filosofia», il «cui nobile nome per consuetudine è comunicato a le scienze» ha dunque «per subietto materiale [...] la sapienza, e per forma ha amore, e per com-
  • 9. i tre volti della teologia in dante alighieri 9 posto de l’uno e de l’altro l’uso di speculazione» (Convivio III xiv 2). Un sinolo nella accezione aristotelica, o una forma sostanziale che si regge sul primato ontologico dell’amore. E quindi, se la filosofia scaturisce dal desi- derio ne consegue che le sue tre divisioni – fisica, metafisica ed etica – sono da considerare altrettante «sfere» del sapere, separate e sovrastate dal cielo sempre quieto della teologia. Tra l’amoroso uso di sapienza, la filosofia, e la pace che Cristo dona all’umanità, la teologia, sussiste la stessa disconti- nuità che separa i nove cieli mobili dall’Empireo. Ma se l’essenza della filosofia consiste nello sguardo innamorato di una mente pensante che si posa su un campo di oggetti per contemplarne la natura, non dovremmo concedere che la filosofia nel suo più alto significa- to è presente in Dio prima ancora che nelle creature fatte a sua immagine e somiglianza? Possiamo davvero credere che quella sapienza umana che ha «per forma ha amore, e per composto de l’uno e de l’altro l’uso di spe- culazione» non abbia alcuna relazione con la Sapienza increata in cui e per cui tutto fu fatto in principio? Potrebbe essere vera sapienza, la filosofia, se in essa non brillasse almeno una scintilla della Luce fontale? A queste domande il Convivio risponde nel modo che segue: Ché avvegna che Dio, esso medesimo mirando, veggia insiememente tutto, in quanto la distinzione de le cose è in lui per lo modo che lo effetto è ne la cagio- ne, vede quelle distinte. Vede adunque questa nobilissima [scilicet: la Donna gentile, ovvero la Filosofia] di tutte assolutamente, in quanto perfettissima- mente in sé la vede e in sua essenzia. Ché se a memoria si reduce ciò che detto è di sopra, filosofia è uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto; che non può essere altrove, se non in quanto da esso procede. È adunque la divina filosofia de la divina essenza, [...] ed è in lui per modo perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio. Ne l’altre intelligenze è per modo minore, quasi come druda de la quale nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan la loro vaghezza (Convivio III xii 11-14). Se tutte le cose sono in Dio, e Dio «esso medesimo mirando» vede gli ar- chetipi di tutto ciò che esiste, Egli vede anche quella Donna gentile da cui si sprigiona l’umano desiderio di conoscenza. Il concetto platonico di par- tecipazione, opportunamente ridisegnato nel contesto creazionistico, ci fornisce gli strumenti idonei a riproporre il problema della Sapientia Dei sotto un’angolatura nuova rispetto alla prospettiva che sembra prevalere nel secondo libro del Convivio. Se nella scala delle undici scienze veniva promossa un’idea di teologia come «divina scienza», appannaggio esclusi-
  • 10. alessandro raffi 10 vo del Padre che si traduce nella parola del Verbo incarnato, il terzo libro esalta la filosofia come una forma di conoscenza che in Dio assume i tratti dell’onniscienza, mentre nelle creature intelligenti è sapere partecipato e irradiato: E così si vede come questa è donna primamente di Dio e secondariamente de l’altre intelligenze separate, per continuo sguardare; e appresso de l’umana intelligenza per riguardare discontinuato (Convivio III xiii 7-8). Alla distinzione tra Sapienza increata e sapere delle creature subentra l’ul- teriore suddivisione tra la visione in patria, concessa agli angeli e ai beati, e lo sguardo discontinuo dei viatores. Le intelligenze separate non distol- gono mai lo sguardo dal volto del Padre, contemplano gli esemplari eterni di tutte le cose nella gloria di un presente sempiterno che ha avuto inizio il primo giorno della creazione. Vi è dunque una teologia partecipata che si identifica con la beatitudine della vita ultraterrena e con la piena citta- dinanza delle creature nella Gerusalemme celeste. Una teologia in forma di pura intuizione intellettuale concessa attraverso il lumen gloriae, non una conquista della mente finita la quale, trascorrendo dianoeticamente da un contenuto all’altro, attinga a quella verità che in hac vita può essere soltanto rivelata e quindi creduta per fede. Ai passi che abbiamo citato pos- siamo utilmente affiancare questo brano tratto dal De vulgari eloquentia, il trattato sulla lingua volgare la cui composizione si intreccia, anche dal punto di vista della datazione, con la stesura del Convivio. Negando che possa esistere una lingua degli angeli, sulla base della tesi secondo cui «soli homini datum fuisse loqui», Dante argomenta come segue: Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua vel alter alteri totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum Speculum in quo cuncti representantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur, nullo signo lo- cutionis indiguisse videntur (De vulgari eloquentia I ii 3). La necessità di comunicare attraverso segni costituiti dall’unità di un si- gnificante e un significato appartiene alla condizione di quelle creature razionali che se da un lato sono in grado di concepire dei cogitata, dall’al- tro hanno bisogno di un veicolo sensibile affinché i loro pensieri possano essere trasmessi ad altri individui della stessa specie. Per motivi diametral- mente opposti, angeli e bruti non dispongono di alcun tipo di linguaggio:
  • 11. i tre volti della teologia in dante alighieri 11 le intelligenze incorporee comunicano direttamente tra loro attraverso un atto di pura intuizione intellettuale. Gli animali, in quanto privi di ragione, non hanno alcun cogitatum da esprimere: i loro versi non sono significan- ti associati a un significato intelligibile, bensì grumi di materiale fonetico inarticolato. Il linguaggio è lo strumento di comunicazione che appartie- ne all’uomo in quanto essere collocato sulla linea di confine tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile. Tra i cittadini della Gerusalemme celeste sussiste una sorta di sincronia pura, la medesima intimità che permette alle anime dei beati che Dante incontrerà nel Paradiso di leggere in anti- cipo i suoi dubbi prima ancora che vengano formulati expressis verbis8 . Al «continuo sguardare» che è proprio di angeli e beati si contrappone il «ri- guardare discontinuato» che contraddistingue la condizione dei viatores. La filosofia che gli esseri umani praticano come amoroso uso di sapien- za se da un lato risponde al desiderio di sapere che caratterizza la natura dell’animale razionale, dall’altro non può essere in alcun modo considera- ta un equivalente della visione in patria. Angeli e beati hanno il privilegio di vedere direttamente la verità in Dio, nella visione faccia a faccia che è oggetto della promessa escatologica. Nel frattempo in cui deambuliamo come viandanti, possiamo soltanto intravedere per speculum in aenigmate i segni della presenza divina nella natura e nella storia, purché si assuma come viatico alla salvezza quell’unico Magister che è Cristo. Il divario che sussiste tra la conoscenza noetica dei beati e il sapere dei viatores viene ad assumere un valore strutturale in tutta la Commedia, e in particolar modo nella terza cantica. Esemplare, in questo senso, è la lezione che Dante impartisce al lettore in due momenti del suo pellegri- naggio attraverso le sfere celesti. All’inizio del grande affresco storico con cui Giustiniano, assoluto protagonista del canto VI del Paradiso, illustra la funzione provvidenziale dell’impero romano, il beato rende omaggio a papa Agapito. Giustiniano ricorda che prima di intraprendere la sua opera 8 Sui rapporti di filiazione diretta che sussistono tra l’angelologia dantesca e gli scritti del Corpus Dionysianum si vedano soprattutto gli studi recenti di D. SBACCHI, La presenza di Dionigi Areopagita nel Paradiso di Dante, Firenze, Olschki 2006; e S. BARDELLA, In the Light of the Angels. Angelology and Cosmology in Dante’s «Divina Commedia», Firenze, Olschki 2010. Ciò che Dante afferma riguardo alla conoscenza angelica si conforma alle tesi esposte da San Tommaso nella quaestio «utrum angelus cognoscat discurrendo» (Sth I, q. 58, art. 4). Si vedano ad esempio i seguenti versi: «Queste sustanze, poi che fur gioconde / de la faccia di Dio, non volser viso / da essa, da cui nulla si nasconde» (Paradiso XXIX, vv. 76-79).
  • 12. alessandro raffi 12 riformatrice «[...] ’l benedetto Agapito, che fue / sommo pastore» (Paradiso VI, vv. 16-17) riuscì a convertire l’adepto del monofisismo alla «fede since- ra». La conversione alla vera fede cattolica era condizione imprescindibi- le affinché l’operato dell’imperatore bizantino si inserisse nell’alveo della Provvidenza. Allo scopo di rendere ancor più chiaro a Dante il significato delle sue parole, Giustiniano aggiunge: «Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era / vegg’io or chiaro sì, come tu vedi / ogni contradizione e falsa e vera» (Paradiso VI, vv. 19-21). La visione di cui fruisce il beato ha una potenza noetica tale che Dante, come qualsiasi altro viator, può riuscire a intender- la attraverso un paragone: il grado di evidenza con cui la verità si manife- sta in patria è simile al grado di certezza con cui un assioma della logica appare immediatamente vero all’intelletto umano sulla base del principio di non contraddizione. Un esempio analogo ricorre nel colloquio tra Dan- te e Cacciaguida all’altezza del canto XVII del Paradiso. Nel rivolgersi al trisavolo per avere una risposta certa sul futuro che lo attende al termine del viaggio ultraterreno, è lo stesso Dante a paragonare l’evidenza noetica con cui i beati vedono le cose in Dio all’evidenza con cui le «terrene menti» intuiscono la verità degli assiomi della geometria: «O cara piota mia che sì t’insusi / che come veggion le terrene menti / non capere in triangol due ottusi / così vedi le cose contingenti [...]» (Paradiso XVII, vv. 13-16). Il pane degli angeli condiviso dai beati è la visione che Dio concede nel render- li partecipi della propria Sapientia, nel fulgore del Lumen gloriae e nella piena parusia del Logos. Angeli e beati sono saldamente insediati nell’Em- pireo, non discorrono da intelligibile a intelligibile seguendo i meandri argomentativi delle scienze terrene, ma partecipano della visione faccia a faccia che trascende i termini delle umane «sfere» del sapere. Scientia beatorum, nella accezione dantesca, equivale a teologia partecipata dalla creatura, in un atto di intuizione intellettuale che coincide con la somma beatitudine. Altro è il sapere teologico di cui fruiscono i beati contem- plando gli esemplari eterni di tutte le cose nel Verbo, altro il sapere dimo- strativo che ciascuno di essi porge a Dante abbassandosi «inver lo segno del nostro intelletto» (Paradiso XV, v. 45): ossia, articolando la simplicitas della visione in patria in una sequenza di argomentazioni sillogistiche. Il privilegio inusitato di visitare il mondo dei beati in vita non cancella l’e- norme «disagguaglianza» che sussiste tra Dante viator e la gloria dei beati. La distinzione tra teologia increata intesa come scientia Dei, e quella che potremmo definire teologia partecipata, la scientia beatorum, ci permette di ridurre la teologia del frattempo ad un’unica dimensione: l’ascolto fe- dele della parola di Cristo. Le risorse della dialettica argomentativa hanno
  • 13. i tre volti della teologia in dante alighieri 13 tutt’al più un valore didattico e propedeutico, possono valere come stru- menti retorici per combattere gli eretici e impugnarne le posizioni, ma non ci autorizzano in alcun modo a definire la teologia come una scienza che l’uomo possa praticare in questa vita, fosse anche sulla base di principi accolti immediate a Deo per revelationem. La teologia come “itinerarium mentis in Deum” Nel quarto libro del Convivio, Dante ci offre un esempio di lettura tropo- logica delle Sacre Scritture attraverso un commento all’episodio narrato nel Vangelo di Marco 16, 1 e seguenti. L’evangelista racconta che alle tre Marie, recatesi presso il sepolcro in cerca del Salvatore, apparve in Sua vece un angelo con l’aspetto di un giovane vestito di bianco, il quale rivolse loro queste parole: «Voi domandate lo Salvatore, e io vi dico che non è qui; [...] ite, e dite a li discepoli suoi e a Piero che elli li precederà in Galilea; e quivi lo vedrete, sì come vi disse» (Convivio IV xxii 14). Pare che l’inter- pretazione dantesca del passo di Marco non trovi alcun precedente: le tre Marie vengono identificate con altrettante scuole filosofiche dell’antichi- tà pagana – epicurei, stoici, e aristotelici – accomunate dall’aver conside- rato come fonte di salvezza la vita attiva e i beni mondani rappresentati dal sepolcro, simbolo delle realtà corruttibili. Ma poiché la salvezza non risiede nelle realtà di questo mondo transeunte, le tre scuole filosofiche si imbattono in un angelo che reca loro l’annuncio della vera salvezza in Cristo. Nell’interpretazione di Dante l’angelo non rimanda a una istanza trascendente, ma simboleggia il raziocinio della mente umana, o meglio la nobiltà di ogni singolo essere umano identificata con l’intelletto possibile di cui parla Aristotele nel De anima. Dante ha elaborato questo problema, legato alla complessa tematica dell’origine dell’anima, in tutto il blocco dei primi venti capitoli del IV libro. In antitesi alla concezione feudale che la tradizione attribuiva all’imperatore Federico II, il quale avrebbe somma- riamente definito la nobiltà come «antica ricchezza e belli costumi», Dante costruisce una definizione filosoficamente articolata che si ispira al model- lo aristotelico delle quattro cause. Al termine di una lunga dissertazione impostata secondo i criteri della quaestio scolastica, egli chiarisce che la nobiltà appartiene al singolo individuo, e non alla stirpe o alla casata. Al pregiudizio feudale che considera l’aristocrazia come una rendita eredi- taria, Dante sostituisce la concezione individualistica secondo cui la vera nobiltà è «seme di felicitade messo da Dio nell’anima ben posta» (Convi-
  • 14. alessandro raffi 14 vio IV xx 9), ribadendo quanto segue: «[...] e dico intelletto per la nobile parte de l’anima nostra, che con uno vocabulo “mente” si può chiamare» (Convivio IV xv 11). L’autentica nobiltà appartiene alla dimensione del- lo spirito e si identifica con il patrimonio che Dio infonde in ogni essere creato a Sua immagine. Questo patrimonio è il seme di virtù che ciascuno di noi è chiamato a coltivare, e la mente umana, che incarna tale tesoro, coincide con la voce della ragione che parla in noi assumendo le sembian- ze dell’angelo evocato in allegoria dal passo di Marco. È questo angelo in interiore homine a indirizzare le tre scuole filosofiche antiche alla vera sal- vezza che Cristo annuncerà al mondo intero. La beatitudine che andate cercando in questo mondo transeunte, proclama l’angelo, risiede altrove. Essa scaturisce dalla vita speculativa, intesa come l’anticipazione della pace ultraterrena che conseguiremo pienamente allorché «erimus sicut angeli» (Vangelo di Matteo, 22, 30). Dante sembra suggerire che la filosofia, quali- ficata come «amoroso uso di sapienza», secondo quanto teorizzato nel III libro del Convivio, pur non costituendo un corpus di dottrine caratteriz- zato da una dipendenza ancillare nei confronti della teologia è comunque una attività dotata di un orientamento escatologico. Tra l’Egitto del nostro peregrinare nel frattempo, e la gloria futura della Gerusalemme celeste, si insinua questa regione intermedia che è la Galilea della vita speculativa. La gioia che promana da essa, già in questa vita, anticipa la beatitudine che è oggetto della promessa. È opportuno seguire da vicino Dante nella sua minuziosa esegesi: Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene, come detto è, che ne la nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine ne la vita attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo a li discepoli [...] che in Galilea li precederà: cioè che la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè ne la speculazione. Galilea è tanto a dire quanto bianchezza. Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro; e così la contemplazione è più piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia. E dice: “Elli precederà”; e non dice: “Elli sarà con voi”: a dare a intendere che ne la nostra contemplazione Dio sempre precede, né ma lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma (Convivio IV xxii 16-18). L’angelo che appare alle tre donne accanto al sepolcro vuoto è il nunzio della salvezza in Cristo, e le sue parole vanno intese alla lettera: in questa vita Egli «precederà», e non sarà «con voi» nella visione faccia a faccia. La distanza che separa l’amoroso uso di sapienza attuabile in questa vita dalla
  • 15. i tre volti della teologia in dante alighieri 15 pace dell’unica vera «teologia», identificata con la visione in patria, viene ribadita anche in questo contesto. Il simbolismo cromatico continua ad avere una funzione strutturale nell’ambito delle metafore dantesche: se nel secondo libro del Convivio il candore della colomba era icona della «scien- za divina», nel quarto libro la bianchezza della Galilea rimanda alla beati- tudine raggiungibile in questa vita9 . L’angelo vestito di bianco che appare alle tre donne è a sua volta il nunzio della Rivelazione, ma è anche la voce che «ne la nostra ragione parla». Egli ci insegna che se la beatitudine som- ma consiste nella visione del Volto di Dio di cui fruiremo nella vita futura, la speculazione attuabile nel frattempo è anch’essa «piena di luce spiritua- le». Partendo da tali premesse, Dante perviene a ridefinire il tradizionale dualismo tra vita attiva e vita contemplativa nei termini di una distinzione fra tre livelli di beatitudine: E così appare che nostra beatitudine [...] prima trovare potemo quasi imper- fetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espe- dite e direttissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere (Convivio IV xxii 18). Non c’è alcuna contraddizione nel ripartire la beatitudine in tre gradi di perfezione, qualora l’intento sia quello di separare la letizia conseguibile nella vita futura per mezzo della Grazia dai possibili livelli di attuazione delle potenzialità proprie della ragione naturale. Alla fine, la riflessione dantesca si ricollega al medesimo criterio epistemologico adottato nel se- condo libro del Convivio. Alle nove sfere celesti corrispondenti alle scien- ze umane praticabili in statu viae, si contrappone la teologia intesa come scientia Dei et beatorum, un sapere che risiede nell’Empireo sia in senso allegorico che in senso letterale. Al desiderio che alimenta il movimento delle nove scienze attorno al loro subiectum fa riscontro la beatitudine di coloro che contemplano il Verbo nel fulgore della grazia illuminante, nella pienezza di una visione che non è in alcun modo attardata dalle procedure proprie di un sapere dianoetico. Di più: la sfasatura tra la visione di cui fruiscono i beati in patria e i limiti della condizione terrena costituisce l’as- 9 La fonte a cui Dante attinge nel ricostruire l’etimologia di «Galilea» è Isidoro di Siviglia, come puntualmente rilevato da Cesare Vasoli nella nota a p. 792 dell’edizione critica del Convivio citata in precedenza: «Galilaea regio Palestinae vocata quod gignat candidiores homines quam Palestina» (ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae XIV iii 23).
  • 16. alessandro raffi 16 se epistemologico attorno al quale ruota l’intera struttura narrativa della Commedia. Dante pellegrino è un uomo del frattempo a cui la Grazia ha concesso lo straordinario privilegio di visitare i tre regni dell’oltretomba prima che la sua vita terrena sia giunta al termine. Tuttavia, questo privi- legio non abolisce in alcun modo, anzi esalta la distanza che separa la sua condizione di mortale dalla perenne letizia dei beati. Al desiderio del vian- dante in cammino verso la visio Dei si contrappone la pace di coloro che sono cittadini a pieno titolo della Gerusalemme celeste. Il paradosso del pellegrino che irrompe nel regno dei beati introducendo il tempo nell’eter- nità è forse l’aspetto più inquietante dell’intera Commedia, un aspetto su cui gli studiosi hanno da tempo offerto contributi illuminanti10 . Proviamo ad addentrarci in questo paradosso avvalendoci di un esempio tratto dal canto XIII del Paradiso, dove ha luogo l’incontro fra Dante e San Tomma- so. Ci troviamo in una fase decisiva nell’ascesa verso l’Empireo. Sullo sfon- do del clima corale che caratterizza il cielo del sole, dove si raccolgono le anime dei sapienti, San Tommaso intona un grandioso cantico sulla cre- azione. L’incalzante sequenza di terzine in cui si scandisce la lezione di teologia in patria traduce in termini discorsivi, ossia nel linguaggio che Dante può intendere, la verità contemplata nel Verbo attraverso un atto di intuizione intellettuale: Ciò che non more e ciò che può morire non è se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro Sire: ché quella viva luce che sí mea dal suo lucente, che non si disuna da lui né dall’amor ch’a lor s’intrea, per sua bontate il suo raggiare aduna, quasi specchiato, in nove sussistenze, etternalmente rimanendosi una. 10 Per un’analisi di questi aspetti si vedano, in particolare, gli studi seguenti: B. NARDI, Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza 1949; H.U. VON BALTHASAR, Dante, in Glo- ria, vol. 3, Stili laicali, Milano, Jaca Book 1976; S. BEMROSE, Dante’s angelic intelligencies. Their importance in the Cosmos and in Pre-Christian religion, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1983; F. LIVI, Dante e la teologia. L’immagine poetica nella “Divina Commedia” come interpretazione del dogma, Roma, Leonardo da Vinci, 2008; Aa.Vv. Etica e teologia nella “Commedia” di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2009; T. BAROLINI, Il secolo di Dante. Viaggio alle origini della cultura letteraria italiana, Milano, Bompiani 2012.
  • 17. i tre volti della teologia in dante alighieri 17 Quindi discende all’ultime potenze giù d’atto in atto, tanto divenendo, che più non fa che brevi contingenze; e queste contingenze essere intendo le cose generate, che produce con seme e sanza seme il ciel movendo. (Paradiso XIII, vv. 52-66) La verità che Tommaso vede faccia a faccia viene articolata in un discor- so che obbedisce ai canoni della scientia argumentativa. L’Angelico inizia ripartendo la totalità dell’essere in due regioni: «ciò che non more e ciò che può morire». Il processo creativo viene raffigurato all’interno della prospettiva trinitaria, in maniera tale da rendere la metafisica quasi una appendice della teologia. L’asse portante del discorso è assicurato dalla di- stinzione tra «genitum» e «factum» ricavata dal simbolo niceno: se la vita intradivina delle tre persone scorre in un perpetuo circuito pericoretico che non cade nel tempo, essendo coeterno all’unità del Padre, la vita delle cose create, che ricevono l’essere da Dio, si protende nel tempo secondo due possibilità complementari, corrispondenti alla suddivisione aristote- lica del cosmo nei domini del sopralunare e del sublunare. Da un lato, le sfere celesti governate dalle intelligenze angeliche e dotate di una materia perfettamente saldata alla forma: si tratta delle realtà «le quali ebbero da Dio cominciamento di creazione» (Convivio II xiv 11). Dall’altro, i quattro elementi di cui è costituita la materia del mondo inferiore, uno spazio in continua effervescenza dove le forme si avvicendano le une alle altre deter- minando la generazione e la corruzione delle sostanze individuali. Fermo restando che ognuna delle due metà, a diverso titolo, costituisce un riflesso dell’Idea, la cui dimora iperurania è tutt’uno con la Sapientia Dei, viene ri- badito il principio secondo cui ciò che deriva da Dio «sanza mezzo» ignora la morte e la corruzione: sia che si tratti delle intelligenze angeliche sia che si tratti dell’anima di ogni singolo essere umano, compreso il «seme di felicitade» in cui consiste la sua nobiltà. Non c’è angolo dell’essere che non sia raggiunto da Dio in quanto causa remota e universale di tutte le cose, ma sarebbe assurdo voler inferire da tale premessa che ogni ente del mondo inferiore, ogni singola «contingenza» che si squaderna nello spa- zio della materia sublunare sia il risultato di una creazione ex nihilo. Ne va dell’autosufficienza della natura intesa come ordine cosmico munito di una razionalità immanente e dotato di autonoma legalità. Ogni singolo processo naturale, altrimenti, sarebbe un miracolo. Tutto ciò che esiste,
  • 18. alessandro raffi 18 quindi, è «splendore dell’Idea», riflesso dell’archetipo eterno presente nell’intelletto divino, ma le realtà imperiture e gli enti corruttibili lo sono a diverso titolo. L’Idea partorita dall’amore del Sire è causa esemplare di tut- te le cose. Idea al singolare, appunto, non una folla politeistica come quella che il Demiurgo del Timeo platonico prende a modello per dare forma alla materia primordiale. Al mito dell’Artifex che plasma la materia sulla base di un paradigma contemplato dall’esterno, subentra l’icona della vita intradivina: il Padre non è mero architetto, ma Sire partoriente e Amore diffusivo che vede nel Figlio l’archetipo di tutte le cose. La moltiplicazione della Luce esplode al di fuori del Deus-Trinitas nell’istante della creazione, e viene incessantemente riverberata dal gioco di specchi delle nove «sussi- stenze» angeliche che danzano eternamente attorno al Punto da cui hanno origine tutte le cose. Nell’assumere le caratteristiche di un vero e proprio «regista del paradiso dei teologi», richiamando le parole di Inos Biffi, Tom- maso si rivolge a Dante nelle vesti di un magister che sopperisce ai limiti di una mente terrena adottando il linguaggio di quest’ultima11 . Il discor- so di teologia che Tommaso svolge nel cielo del sole traduce in termini dianoetici una verità che per lui, in quanto beato, è oggetto di intuizione intellettuale. Non bisogna mai dimenticare che la gerarchia dei cieli entro i quali i beati appaiono a Dante, man mano che il suo itinerarium in Deum si avvicina alla meta, costituisce un espediente didattico e narrativo la cui strategia viene spiegata al lettore nel IV canto del Paradiso. I beati risiedo- no nell’Empireo, regno spirituale che è al di fuori dello spazio e del tempo; Dante risale la scala di Giacobbe avvalendosi dell’indispensabile soccorso di Beatrice. Affinché sia possibile un dialogo tra Dante e i beati è necessario che l’eternità si cali nel tempo, ovvero che i beati insediati nell’Empireo si manifestino a Dante in una sequenza corrispondente alla serie dei nove cieli12 . In altri termini, è necessario che la teologia partecipata di cui essi fruiscono attraverso l’intuizione delle cose nel Verbo, si traduca in discor- so, in logos partecipabile da un intelletto mortale. È ovvio che Tommaso, nel canto XIII del Paradiso non parla da Dottore della Chiesa memore del sapere racchiuso nella Summa Theologiae, ma come autentico «teologo» 11 I. BIFFI, Figure del pensiero medievale. La nuova razionalità, vol. 4, Milano, Jaca Book 2009, 689. 12 Per un approfondimento di questa particolare tematica, mi permetto di rinviare al mio saggio Dante e il Timeo: nota sugli aspetti metaletterari del IV canto del Paradiso, in «Campi Immaginabili», 34/35, 2006.
  • 19. i tre volti della teologia in dante alighieri 19 che adesso vede in Dio ciò che un tempo «in sua fede era», come già di- chiarava Giustiniano in Paradiso VI, v. 19. Dall’alto del suo scranno celeste l’Angelico impartisce a Dante una lezione di teologia ben diversa da quella che avrebbe potuto tenere agli studenti dell’università di Parigi! Autentico teologo è colui che partecipando alla «festa di Paradiso» vede faccia a faccia ciò che per noi pellegrini rimane oggetto della promessa escatologica. Del- la visione concessa ai beati Dante avrà un assaggio soltanto al culmine del suo itinerario in cielo, allorché nel XXXIII canto del Paradiso, per interces- sione della Vergine Maria a cui San Bernardo si rivolgerà con la preghiera più intensa dell’intero poema, gli sarà concesso il privilegio di scorgere per un fugace istante il Volto di Dio. Le sfere celesti che Dante attraversa di grado in grado, dal cielo della Luna fino al Primo Mobile, non tradiscono l’idea di scienza come studium e movimento che Dante aveva elaborato attraverso l’enciclopedia del secondo libro del Convivio. Il moto circolare delle nove sfere si rapporta alla quiete dell’Empireo come lo studium dei viatores alla sazietà di chi è beato in patria. E il decimo cielo, oltre ad essere metafora della scienza abissale posseduta da Colui che solo vede sé com- piutamente, diventa letteralmente la Patria di coloro che sono chiamati a partecipare di tale visione, entro i limiti e nella misura concessa a un intel- letto creato. Vi è pace sia nella «teologia» increata e impartecipata del Pa- dre, sia nella teologia partecipata dalle creature irradiate e illuminate dalla Grazia. Ecco allora che l’Empireo, nella radicale trascendenza che lo separa da ogni altra «sfera» del sapere, si configura come il luogo di una scienza che ha oltrepassato l’intero ambito del sermo per approdare alla trasparen- za della pura «theoria». L’Empireo è lo spazio «senza ubi né quando» in cui rifulge la Gerusalemme celeste, intesa nel senso etimologico: «visione di pace». L’espressione theologia viatorum, nella prospettiva di Dante, ha senso soltanto come ascolto fedele della parola evangelica e apertura al kerygma del Verbo incarnato. Mai, in questa vita, potremo «sillogizzare» facendo della natura di Dio il termine ultimo di una certezza mondana, o il punto d’avvio di un discorso scientificamente certo. L’apertura al mistero e l’orientamento escatologico impediscono a Dante di pensare alla teolo- gia come a una disciplina scientifica, con una mossa radicale che alla fine mette tra parentesi sia il tradizionale concetto di subalternazione, sia l’idea stessa di scientia argumentativa. Quanto delle posizioni dantesche possa essere considerato un’anticipazione della critica che Duns Scoto rivolgerà alla teologia di Tommaso è un tema che eccede l’ambito del presente la- voro. Si tratta di un territorio ancora inesplorato che merita senza dubbio ulteriori approfondimenti.