"Valutazione delle prestazioni lavorative e maternità" - Paper Prof. Tommaso Fabbri - Fondazione Marco Biagi
1. La normalità della maternità nella valutazione delle prestazioni
Tommaso M. Fabbri
Fondazione Marco Biagi - Università di Modena e Reggio Emilia
2. 1. Introduzione
La conciliazione vita-lavoro è un ambito problematico complesso, in cui si distinguono analiticamente
almeno due piani: il piano dei valori e quello degli strumenti. I valori in gioco sono la parità di genere di
fronte alle opportunità professionali, la tutela della famiglia dalle eccessive richieste o ingerenze sulle
donne della sfera professionale, la parità di importanza delle espressioni lavorative e “non lavorative” della
persona (de-femminizzazione e de-familizzazione della questione conciliazione). Gli strumenti sono i
dispositivi regolativi, siano essi di matrice giuridica o di matrice organizzativa, con cui quei valori sono
perseguiti.
La razionalità di una qualsivoglia azione di conciliazione, quale la stesura di un dispositivo giuridico o la
progettazione di un dispositivo organizzativo, in quanto azione regolativa finalizzata al perseguimento di un
valore-obiettivo, coincide con la strumentalità sostanziale dell’azione stessa rispetto al valore-obiettivo, che
deve pertanto essere definito chiaramente e univocamente. Un dispositivo giuridico o organizzativo
concepito e progettato per “proteggere” la famiglia potrebbe ad esempio rivelarsi poco razionale e dunque
debolmente strumentale rispetto al valore-obiettivo della parità di genere, o viceversa.
Una ricognizione sommaria allo “stato dell’arte” della conciliazione vita-lavoro in Europa e in Italia, oltre le
affermazioni di principio e/o a carattere generale, restituisce un quadro di eterogeneità sia negli
orientamenti valoriali sia, conseguentemente, nelle strumentazioni operative, così che la sequenza ideale
che va dagli indirizzi comunitari, alle leggi nazionali, alle leggi regionali e, infine, alle applicazioni aziendali,
più o meno legittimate o intermediate dalle parti sociali, difetta a volte di coerenza interna, sovente in
favore di un sincretismo teorico e metodologico che può pregiudicare la razionalità sostanziale degli sforzi
conciliativi.
A ciò contribuisce la frammentazione della “questione conciliazione” sotto diverse etichette – CSR, Work-
Life Balance, Welfare Aziendale, SHRM, Benessere Organizzativo, Quality of Working Life, disciplina anti-
discriminatoria … - spesso riconducibili a precisi e distinti ambiti disciplinari, ciascuno con la propria
cassetta degli attrezzi e ciascuno con le proprie ambizioni “egemoniche”.
Per aumentare l’efficacia degli investimenti pubblici, ma anche privati, in materia di conciliazione, quelli in
essere e quelli che potranno venire, sono quindi auspicabili due passaggi: una riflessione essenzialmente
politica che possa incrementare la precisione e la coerenza regolativa tra i livelli comunitario, nazionale e
regionale, e una riflessione essenzialmente tecnica, che possa incrementare la razionalità giocoforza
interdisciplinare dei dispositivi di conciliazione disponibili e progettabili.
Ciò premesso, in quanto elemento di consapevolezza risultante dalle analisi e dagli approfondimenti teorici
ed empirici condotti nel corso del progetto N.Or.Ma.Le, nel prosieguo si affronta un problema
deliberatamente circoscritto in coerenza agli obiettivi del Progetto che è quello del rapporto tra valutazione
della prestazione lavorativa e maternità. La domanda cui cercherò di rispondere è come un sistema di
valutazione delle prestazioni lavorative possa (se già presente in azienda) o potrebbe (se non presente)
incorporare la maternità delle lavoratrici come “normale” fase della vita professionale.
3. 2. La valutazione delle prestazioni
La valutazione delle prestazioni individuali è il processo decisionale angolare della gestione delle risorse
umane in quanto informa le scelte di dinamica retributiva (fissa e variabile), di formazione e sviluppo
professionale, di mobilità orizzontale e verticale (carriera).
Idealmente, e spesso anche praticamente, la valutazione della prestazione individuale fa parte di un più
ampio sistema di performance management che, data la strategia aziendale, formalizza gli obiettivi di
performance di periodo (generalmente l’anno contabile o esercizio) delle diverse unità organizzative
aziendali, dai livelli più alti a quelli più bassi, e da questi deriva piani/obiettivi di performance/prestazione di
periodo delle singole persone che afferiscono alle unità organizzative. Idealmente, e spesso anche
praticamente, il sistema di performance management si innesta su un sistema formalizzato di posizioni (job
description) gerarchizzate (job grading) cui sono associate una struttura retributiva, ossia una sequenza di
scaglioni retributivi corrispondenti ai diversi grade, ed una dinamica retributiva e di carriera, ossia delle
regole if-then formalizzate che determinano gli incrementi retributivi e i passaggi di grade/scaglione.
Il concetto di prestazione si può declinare in due modi: come risultati e come comportamenti.
I risultati sono l’esito quantitativo di una certa attività e sono indicati e possibili con riferimento a quelle
posizioni o ruoli rispetto alle quali è possibile stabilire una relazione relativamente certa tra sforzo profuso
e “quantità prodotte”; esemplare è il dirigente commerciale valutato sulla base dell’incremento del
fatturato o del miglioramento della marginalità dei prodotti venduti. Gli strumenti di valutazione della
prestazione sono in questo caso delle schede personali che fissano – generalmente come esito di una
negoziazione tra capo e collaboratore – i risultati quantitativi attesi nel periodo relativamente ad uno o più
key performance indicators, e sulle quali vengono riportati, con periodicità infra-annuale e infine annuale, i
risultati effettivamente conseguiti. Alla misura del raggiungimento (in difetto o in eccesso) dei risultati
attesi sono associati proporzionalmente dei premi (tipica è la componente variabile della retribuzione come
percentuale della RAL).
I comportamenti1
sono la manifestazione in itinere del proprio modo di lavorare e sono indicati e necessari
con riferimento a quelle posizioni alle quali è difficile o impossibile associare a priori risultati quantitativi
ovvero la cui attività non genera risultati quantitativi facilmente rilevabili e misurabili e ad essa riconducibili
in maniera stringente. Gli strumenti di valutazione della prestazione sono in questo caso delle schede
(rating scales) elaborate dalla direzione del personale per aggregati di dipendenti (ruoli, qualifiche, famiglie
professionali) che riportano le dimensioni di prestazione rilevanti (ad esempio competenza tecnica,
capacità relazionale, capacità di iniziativa autonoma, attitudine a lavorare in gruppo…) sovente espresse in
forma di comportamento appunto (behaviourally anchored rating scales; ad esempio, nel caso della
dimensione “capacità di iniziativa”, l’item della scheda di valutazione è il collaboratore “risolve problemi
inaspettati senza ricorrere al superiore diretto”) e rispetto alle quali il valutatore esprime un giudizio lungo
una scala likert (ad esempio, mai, qualche volta, spesso, sempre).
1
Dalla seconda metà degli anni Novanta il termine “competenze” è entrato prepotentemente nella riflessione e nella
prassi della gestione delle risorse umane, senza tuttavia modificarne i principi e le logiche di fondo (si veda in
proposito F.Maraschini, Gestire le competenze: perché e come, Giappichelli, 2004; T.M.Fabbri, Y.Curzi, Gestione delle
risorse umane e valorizzazione delle competenze, in R.Albano, M.Dellavalle, Organizzare il servizio sociale, Franco
Angeli, 2013). Da allora, le dimensioni della prestazione individuale sono generalmente espresse come competenze
necessarie per compiere un buon lavoro in quel job e quindi tradotte in modalità comportamentale negli item della
scheda di valutazione.
4. Per i non addetti ai lavori, complice certa manualistica gestionale tanto diffusa quanto semplicistica, la
valutazione della prestazione è un processo decisionale oggettivo che commisura incentivi, monetari e non,
al merito del singolo lavoratore/trice. In realtà, “la maggior parte delle ricerche sulla valutazione della
prestazione si prefiggono di capire perché le valutazioni sono così fallaci” (K.R.Murphy, J.N.Cleveland,
Understanding performance appraisal, Sage, 1995, p.380) ovvero perché i giudizi forniti dai valutatori sono
così distorti o imprecisi o infondati da misconoscere, nel bene e nel male, l’effettivo contributo lavorativo
fornito, con la conseguenza di generare pregiudizi e iniquità nell’assegnazione degli incentivi.
Dagli anni Sessanta ad oggi, la ricerca ha indicato tre possibili cause della fallacia valutativa.
La prima è che essa sia riconducibile alla qualità dello strumento di misurazione e quindi al formato della
scala di giudizio. Questa prima ipotesi è stata seriamente screditata nel 1980 quando Landy e Farr
(Performance Rating, Psychological Bulletin, n° 87/1980), a seguito di un’analisi estensiva della ricerca
disponibile, concludevano che il formato non ha effetti rilevanti sulla qualità della valutazione e che, quindi,
non c’è un formato – leggi: uno strumento di valutazione – significativamente migliore degli altri.
Da allora l’attenzione si è spostata su una seconda e alternativa causa della fallacia valutativa, e cioè sui
processi cognitivi messi in atto dai valutatori in sede di valutazione. Sulla scorta degli sviluppi della
psicologia cognitiva, l’idea è che i valutatori sono soggetti limitatamente razionali, che non possiedono
tutte le informazioni rilevanti per emettere un giudizio (si pensi al problema dell’osservabilità dell’operato
dei propri collaboratori da parte di un dirigente che ne abbia molti e spazialmente dislocati) e che non
dispongono del tempo e delle capacità computazionali necessarie a processare le informazioni disponibili
nella maniera necessaria ad emettere un giudizio accurato; ciò motiva il ricorso a procedure decisionali
semplificate, definite euristiche cognitive, che operano inferenzialmente sulla base di alcuni elementi
informativi per così dire indiziari che vengono completati attraverso la memoria personale (in particolare
attraverso le strutture mnemoniche quali schema, scripts, exemplars, stereotypes…). In T.M.Fabbri (2001;
La valutazione della prestazione: limiti cognitivi e giochi di potere nella valutazione della prestazione,
Sviluppo&Organizzazione n.183), si mostra come i principali errori di valutazione (rating errors) individuati
in letteratura siano effettivamente riconducibili all’operare delle principali euristiche cognitive
(rappresentatività, disponibilità, ancoraggio e aggiustamento) e si illustrano i principali espedienti, radicati
nella behavioral decision theory, con cui è possibile limitare il loro potenziale distorsivo in sede di
valutazione delle prestazioni.
Una terza ipotesi interpretativa della fallacia delle valutazioni, sostenuta empiricamente per la prima volta
nel contributo di Longenecker, Sims & Gioia (1987; Behind the mask: the politics of employee appraisal, The
Academy of Management Executive, Vol. 1) è che il valutatore fornisca valutazioni inaccurate dei propri
subordinati deliberatamente, e non invece inintenzionalmente a causa dei propri limiti cognitivi. Una
discussione realistica sulla valutazione delle prestazioni non può, secondo gli autori, trascurare il fatto che
le imprese sono anche entità politiche dove, in merito ad ogni rilevante decisione organizzativa, gli attori
coinvolti agiscono per conservare o per migliorare la propria posizione ed i propri interessi; la valutazione
delle prestazioni rientra fra queste decisioni e pertanto è influenzata da comportamenti politici, cioè
deliberatamente finalizzati a perseguire propri interessi nei confronti degli altri. Sulla base di un’indagine
empirica condotta su sessanta dirigenti di sette imprese di grandi dimensioni gli autori concludono che due
degli errori tipici di valutazione messi in luce dalla ricerca cognitivista, indulgenza e severità, non sono in
realtà errori, bensì azioni intenzionali che aiutano a gestire il personale più efficacemente. Gli errori di
valutazione possono essere quindi re-interpretati, legittimamente, come commission invece che come
5. omission (Cleveland & Murphy, Analyzing performance appraisal as goal-directed behavior, Research in
Personnel and Human Resources Management, JAI Press, Vol. 10/1992, p.122): i valutatori sono sì decisori
limitatamente razionali ma anche soggetti portatori di interessi specifici, solo in parte coincidenti con quelli
dei valutati e della Direzione del Personale. Nella realtà, si sostiene, il processo di valutazione coinvolge tre
attori organizzativi – il valutatore, il valutato e la Direzione del Personale – per cui la valutazione come esito
decisionale emana dalla specifica integrazione strategica che essi realizzano nel processo. I managers-
valutatori intervistati, ad esempio, dichiarano che diversi obiettivi possono suggerire una deliberata
distorsione verso il basso delle valutazioni: dare una lezione ad un subordinato deviante, richiamare un
dipendente su livelli di prestazione a lui possibili, accelerare un licenziamento o le dimissioni. Dal canto suo,
invece, la Direzione del Personale può utilizzare la valutazione della prestazione come uno strumento per
valutare il valutatore o per negoziare con le rappresentanze sindacali e per agire sulle relazioni interne. Il
valutato, infine, può agire nel processo di valutazione mettendo in atto comportamenti in grado di
influenzare il giudizio del valutatore o può utilizzare il momento valutativo come un’opportunità
relazionale. Ecco che, con una chiave di lettura strategica, la valutazione della prestazione è un processo
decisionale collettivo in cui più soggetti, con differenti basi di potere e mossi da interessi differenti,
agiscono in maniera strategicamente orientata e reciprocamente influenzabile.
In sostanza, la valutazione delle prestazioni “accurata" incontra due importanti ostacoli nella pratica: la
fallacia inconsapevole del valutatore, in quanto attore cognitivamente limitato; la fallacia deliberata del
valutatore, in quanto attore organizzativo strategicamente orientato. Con riferimento alla prima
limitazione, esistono interventi concreti capaci di mitigare le distorsioni di giudizio generate dal ricorso a
modalità decisionali euristiche da parte del valutatore. Con riferimento alla seconda limitazione si tratta di
riconoscere che il nucleo problematico della valutazione della prestazione non è lo strumento di valutazione
bensì il processo di sviluppo ed implementazione dello stesso. A questo proposito è bene tenere presente
che diverse ipotesi di progettazione e diffusione dello strumento comportano gradi diversi di
coinvolgimento dell’organizzazione e quindi distribuzioni di responsabilità differenziate. La decisione, ad
esempio, di sviluppare lo strumento secondo modalità partecipate, e la decisione di diffonderlo fino ai livelli
bassi della gerarchia, potrebbero stemperare la conflittualità intorno allo strumento: la riflessione
sull’equità organizzativa evidenzia infatti che il livello di equità percepita da un soggetto in merito ad una
decisione che lo riguarda è direttamente proporzionale al livello di partecipazione e di controllo che il
soggetto ha sul processo che porta a quella decisione (equità procedurale); pertanto, in ogni azione e
decisione che un’azienda assume relativamente alla valutazione delle prestazioni è presente un messaggio
in merito al tipo di relazione che essa intende stabilire o mantenere con i soggetti coinvolti, valutatori e
valutati. In termini generali e conclusivi, se si definisce “buono” quel sistema di valutazione che produce le
informazioni e supporta efficacemente le decisioni per le quali è stato sviluppato, la progettazione e
l'implementazione di un buon sistema di valutazione delle prestazioni impone l'individuazione di uno
strumento idoneo, la correzione delle distorsioni che i valutatori introducono, in quanto decisori
limitatamente razionali, e la gestione delle dinamiche strategiche e di potere che caratterizzano
l'organizzazione, e quindi la negoziazione delle diverse istanze di cui i valutatori e i valutati, o le loro
rappresentanze sindacali, sono portatori.
6. 3. Valutazione delle prestazioni e maternità
Una sintetica introduzione alla valutazione della prestazione, come quella condotta nel paragrafo
precedente, dovrebbe a mio avviso bastare per sgombrare il campo dalle derive semplicistiche, talvolta
promosse dalla consulenza e sovente assecondate dal policy maker, che fanno coincidere la soluzione del
problema con l’individuazione di uno strumento, anche solo in forma di mero prototipo con un nome
accattivante. Un atteggiamento questo orgogliosamente “pratico” e fatalmente dimentico che la
distinzione tra teoria e pratica è analitica, non empirica (Kant, 1793, Sul detto comune “Questo può essere
giusto in teoria ma non vale per la pratica”, in Scritti Politici, Utet, Torino, 2010) così che l’efficacia di uno
strumento è tutt’uno con la qualità della teoria che incorpora, e viceversa.
Ai presenti fini: non esiste un modello o strumento di valutazione della prestazione per la parità di genere,
e più in particolare per la tutela della maternità, se con ciò si intende un modello o strumento di per sé
capace di prevenire o evitare che la lavoratrice in maternità venga in qualche modo o misura discriminata
rispetto alla sua qualità e alle sue ambizioni professionali. Nessuno strumento infatti, di per sé, è capace di
prevenire le distorsioni del giudizio cui è soggetto il valutatore – tra le quali vanno certo annoverati i
pregiudizi di genere – né di prevenire un utilizzo deliberatamente distorto da parte dello stesso valutatore.
È sempre possibile, invece, (ri)progettare, implementare e utilizzare uno strumento di valutazione della
prestazione in modo che non discrimini le donne in maternità e quindi non pregiudichi le legittime
ambizioni femminili di conciliare la formazione e lo sviluppo di una famiglia con lo sviluppo e l’affermazione
professionale.
In tal senso, sono da distinguere le situazioni aziendali già dotate di un sistema di valutazione delle
prestazioni da quelle che invece ne sono sprovviste.
Per le aziende che ne sono sprovviste, si tratta preventivamente di comprendere le esigenze che il sistema
di valutazione potrebbe soddisfare. In letteratura si è soliti distinguere tra esigenze di controllo dei
comportamenti/risultati da esigenze di sviluppo delle professionalità e quindi tra sistemi di valutazione
associati a ricompense monetarie e sistemi di valutazione associati a percorsi formativi e di sviluppo. A
questo proposito va segnalato come una parte considerevole degli esperti ritenga le due esigenze
difficilmente conciliabili e veda quindi criticamente quei sistemi che ambiscano a soddisfarle
congiuntamente. Inoltre, è bene sapere che la relazione tra sistemi di valutazione delle prestazioni e
performance dell’impresa è controversa, sia sul piano teorico che su quello empirico.
Sul piano teorico, interi filoni di riflessione manageriale (a partire da Mc Gregor, 1960, The Human Side of
the Enterprise) affermano l’inopportunità del performance appraisal in quanto esso impatterebbe
negativamente sulla motivazione al lavoro e quindi sulla disposizione delle persone a esprimere nel lavoro
le proprie qualità migliori. Sul piano empirico, evidenze recenti (Schneider et al., Which Comes First:
Employee Attitudes or Organizational Financial and Market Performance?, Journal of Applied
Psychology, n.5/2003) attesterebbero che le imprese che più investono in sistemi di gestione delle risorse
umane sofisticati, tra i quali si annovera il performance management e quindi la valutazione delle
prestazioni, sono quelle che hanno migliori performance economico-finanziarie, e non viceversa (come
invece assume il filone oggi prevalente dello Strategic Human Resource Management).
Alcune imprese che hanno partecipato al progetto Normale non hanno un sistema di valutazione delle
prestazioni né si sono dichiarate interessate a introdurlo, e ciò sulla base di valutazioni “organizzative” assai
ragionevoli: ad esempio, due soli livelli gerarchici, e quindi assenza di veri e propri percorsi di carriera,
minimi differenziali retributivi tra i due livelli e indisponibilità di risorse economiche significative da allocare
7. a forme di incentivazione. In queste condizioni l’investimento nella progettazione e implementazione di un
sistema di valutazione delle prestazioni sembrerebbe eccedere i benefici che ne potrebbero scaturire. In
queste condizioni, lavorare sulla “normalità della maternità” significa allora lavorare sulle innumerevoli
scelte organizzative, diverse da quelle relative alla retribuzione e alla carriera, che pure impattano sul
rapporto tra la maternità e l’attività lavorativa.
Alcune imprese che hanno partecipato al progetto Normale non hanno un sistema di valutazione delle
prestazioni ma si sono dichiarate interessate a introdurlo. In questo caso si tratta di progettare strumento e
processo di valutazione prefigurandone il potenziale discriminante rispetto alla maternità.
L’analisi del potenziale discriminante, sia essa preventiva o riferita a un sistema di valutazione già in uso,
può utilmente avvalersi dei seguenti criteri:
a) tempo e comportamenti
Se la prestazione è intesa come comportamenti/competenze, lo strumento è in sé potenzialmente
neutrale rispetto al tempo di lavoro: un valutatore potrà valutare positivamente la dimensione di
prestazione “capacità di iniziativa autonoma” a prescindere dal fatto che il valutato abbia lavorato
l’intero esercizio o una sua porzione (ad esempio perché in maternità). Se è vero che nell’arco di 12
mesi si hanno maggiori opportunità di esibire “capacità di iniziativa autonoma” è altrettanto vero
che nell’arco di, ad esempio, solo 4 mesi bastano poche “iniziative autonome” per indurre nel
valutatore un giudizio positivo. Ciò su cui bisogna intervenire è quindi il processo di valutazione,
principalmente fornendo istruzioni ai valutatori affinché esprimano effettivamente un giudizio
neutrale rispetto al tempo di lavoro (esempio: il periodo di osservazione utile ai fini della
valutazione della prestazione riferita all’esercizio coincide col tempo di lavoro effettivo del valutato
nel corso dell’esercizio). In tal senso potrebbe essere utile coordinare il momento della valutazione
con il periodo di presenza effettiva, così da mitigare gli effetti distorsivi inconsapevoli sopra
accennati.
b) tempo e risultati
Se la prestazione è intesa come risultati quantitativi, lo strumento è in sé potenzialmente
discriminante rispetto al tempo di lavoro e ciò per due ragioni: da un lato i risultati attesi di periodo
sono generalmente tarati sulla presenza piena a processi di lavoro cronologicamente continui;
dall’altro, tra la profusione di uno sforzo lavorativo e la concretizzazione formale di risultati ad esso
associabili intercorre generalmente un lasso temporale anche di alcuni mesi, così che assentarsi per
maternità comporterebbe il mancato riconoscimento di tutti gli sforzi che all’atto del congedo non
si sono ancora concretizzati in risultati. In questi casi si tratta allora di procedere in due direzioni
possibili: scollegare la variabilità retributiva (fissa e variabile) dal tempo di lavoro, parametrizzando i
risultati conseguiti (ovvero riportando a base annua quanto conseguito nei mesi di effettiva
attività)2
, oppure definire obiettivi e indicatori di risultato ad hoc, cioè tarati sui tempi e sulle
condizioni di lavoro concrete della lavoratrice in maternità (ciò richiede ovviamente una vera e
propria “gestione” della maternità, come appunto sperimentato nel progetto N.Or.Ma.Le). Obiettivi
e indicatori di risultato possono essere definiti ad hoc sia in quantità/entità (operando una
2
È in questo modo che un’azienda partecipante al progetto, dotata di un sistema di valutazione della prestazione, ha
potuto erogare la componente variabile della retribuzione a una sua dirigente in maternità.
8. parametrizzazione previa) sia in qualità: la condizione di maternità offre non di rado l’opportunità,
prevista dalla disciplina lavoristica delle mansioni, di riconfigurare temporaneamente i contenuti
del lavoro di una persona in maniera gradita sia all’impresa sia alla persona stessa, in ragione delle
particolari condizioni fisiche e psicologiche. L’adattamento della mansione alla condizione di
maternità comporta un lavoro aggiuntivo di “gestione” della maternità ma promette certamente
benefici peculiari, in quanto inclusivi del benessere della lavoratrice, che possono essere considerati
in una contabilità di maternità come quella sperimentalmente elaborata nel progetto N.Or.Ma.Le.
4. Considerazioni conclusive
La valutazione delle prestazioni lavorative è un dispositivo organizzativo finalizzato a regolare il rapporto
incentivi/contributi. L’assenza di un sistema di valutazione delle prestazioni formalizzato non impedisce un
trattamento “conciliativo” della maternità. La presenza di un tale sistema genera, potenzialmente, sia
effetti discriminatori sia effetti antidiscriminatori. Dei primi si è detto poc’anzi; quanto ai secondi, si ritiene
che l’esplicitazione e la pubblicizzazione a livello aziendale dell’oggetto e del funzionamento del rapporto
incentivi/contributi possa contribuire a togliere il trattamento della maternità dall’alveo dell’informalità,
facilmente caratterizzato da retaggi culturali e pratiche tradizionali pregiudizievoli. Si tratta, va ribadito, di
effetti solo potenziali, il cui prodursi o meno dipende dalla consapevolezza organizzativa dei soggetti
coinvolti ovvero dalla loro capacità di presidiare la coerenza tra le soluzioni tecniche e gli obiettivi
perseguiti.
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