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Fabio G. Mori

L’arbitro improvvisato




         nuovaoregina.net


             2
3
A Beatrice




4
5
L’ARBITRO IMPROVVISATO
                      Un racconto e frames d’immaginazione




Situazioni e personaggi di questo racconto sono inventati, e non deve
intendersi alcun riferimento a nomi, fatti e persone reali.
Il racconto tuttavia è basato sui ricordi e gli avvenimenti legati alla vera
squadra 1996 e chi potrà riconoscere se stesso, altre persone, fatti o luoghi
relativi a quanto conosciuto, potrà considerare che quanto scritto
dall’autore, è una rappresentazione romanzata della realtà.
Il racconto è distribuito gratuitamente per la prima edizione, su supporto
informatico quale CD ROM, per numero duecento copie numerate a mano,
e pubblicato on line su www.nuovaoregina.net grazie alla società sportiva
A.S.D. Nuova Oregina Genova che ne detiene tutti i diritti, fatti salvi
copyright di terze fonti citate nell'indice dei frames utilizzati in apertura di
capitolo, e sarà disponibile in formato PDF, per quanti avranno voglia e
piacere di leggerlo, pur sapendo che non ha alcuna pretesa letteraria, ma
semplicemente di diario, testimonianza e ricordo di una stagione insieme alle
Squadre del 1996 e del 1997/98.

             Finito di scrivere e pubblicato settembre 2006



                                       6
7 Indice

10 Introduzione

16 Presentazione di Attilio Roncallo
    frame da O Capitano! Mio Capitano! (Walt Whitman)

24 Psichedelia di un Amore

28 Camminando sul margine

30 Capitolo I
   frame da The Wall (Pink Floyd)
              La pioggia

38 Capitolo II
   frame da The best of times (Styx)
              I giorni migliori

46 Capitolo III
   frame da Forse non lo sai... (Roberto Vecchioni)
   frame da Father and Son (Cat Stevens)
    - originale
    - traduzione
              Tra noi

60 Capitolo IV
   frame da Sand Creek ( Fabrizio De André)
              I vecchi guerrieri

74 Capitolo V
   frame da Ala Bianca (Nomadi)
              …Ed i nuovi guerrieri




                      7
90 Capitolo VI
      frame da Goethe
              Andiamo in campo

100 Capitolo VII
      frame da Heroes (David Bowie)
              L’arbitro improvvisato

120 Capitolo VIII
      frame da Comes a time (C.S.N. &Y.)
              Fischio finale

126 Capitolo IX
      frame da La canzone del Maggio (Fabrizio De André)
      frame da Blowing in the wind (Bob Dylan)
              Il planetario della bambola russa

134 Capitolo X
      frame da Selling England by the pound (Genesis)
              I denti del Lupo

142 Capitolo XI
      frame da un detto ebraico
              I dimenticati

148 Capitolo XII
      frame da Il mago dei sogni (Catherine Webb)
              Il Mago dei Sogni

152 Risposte



154                                        A luci spente



                        8
9
INTRODUZIONE




Siamo alla seconda puntata.
L’anno scorso scrissi un breve racconto dedicato alla Squadra ’96 ed
in particolare ad una bella vittoria giunta alla fine di una stagione
travagliata per risultati che non avevano premiato l’impegno dei
ragazzi.
Questo secondo racconto ne diventa sostanzialmente il seguito
obbligato, un anno di distanza dal primo racconto, con in più
un’esperienza accresciuta, con protagonisti vecchi e nuovi, e da parte
mia con qualche rammarico per non aver potuto seguire sempre la
squadra come avrei voluto.
Qualcuno potrà rimproverarmi per questo e non posso fare altro per
ora che dispiacermene sinceramente e con questo impegnarmi, se la
società vorrà rinnovare la fiducia nella mia mansione, a far sì che
con la prossima stagione ritorni ed anzi sia accresciuto il rapporto di
stima e collaborazione con le famiglie dei ragazzi, che così tanto
bene hanno fatto in questi anni di intenti comuni e di passione per
quanto di sano rimane nel gioco che una volta volevamo definire
come il più bello del mondo.
I ragazzi quest’anno mi sono mancati molto, e le poche volte che ho
potuto essere al loro fianco durante le partite, sono state per me
fonte di molte riflessioni, dove i problemi, con un coinvolgimento a
livello personale forse non da tutti sono stati notati, ma credo giusto
ritenere facciano parte della naturale evoluzione di una squadra, con



                                  10
la relativa importanza che possono rivestire per ognuno di noi
qualora interessato direttamente o qualora investito da un ruolo di
testimone inconsapevole.
Il ruolo doppio, se non triplo che ci troviamo spesso a sostenere in
alcuni momenti della vita sociale non agevola sicuramente le facili
scelte e la semplice convivenza.
Scrivere questo racconto mi è costato in termini di fatica e tempo
più impegno del precedente.
Questo nonostante il risultato siano il centinaio di pagine che potrete
leggere, unitamente ad un paio d’esercizi in versi che aprono e
chiudono la storia.
Si tratta quindi di un racconto breve, ma ognuna di queste pagine ha
comportato maggiori riflessioni, ripensamenti e tagli successivi alla
prima stesura.
La scrittura del racconto è iniziata intorno alla fine di novembre ed è
terminata in concreto, nove mesi dopo, per quello che a volte viene
fatto assomigliare ad un parto, e pur essendo questa una definizione
veramente eccessiva, è quanto più vicino è immaginabile per la
difficoltà a tirar fuori da dentro qualcosa che non è solo un opera di
fantasia, ma racchiude anche un po’ di chi scrive e di coloro che lo
circondano.
Certo immagino più agevole scrivere un trattato di fisica quantistica
piuttosto che raccontare la storia di sedici bambini che giocano a
calcio, ognuno dei quali per me rappresenta una persona vera ed
esistente e non un personaggio tracciato da una matita colorata.
Tra le righe del racconto vero e proprio ci saranno frequentemente
accenni e considerazioni che se prendono spunto dalla cronaca pur
semi immaginaria, esulano però in parte dalla narrazione, per
affrontare alcuni temi che ho sempre considerato importanti. Alcuni
concetti, suggeriranno forse quanto espresso già né “La squadra del
1996”, il precedente racconto, altri sono frutto delle esperienze
incontrate nel corso di questi anni, all’interno della società, del
mondo del calcio giovanile, anni comunque molto belli se pure non
semplici in particolare nella gestione delle risorse umane.



                                  11
Il lettore, che già ringrazio per voler sopportare questa mia piccola
passione, che propongo, senza alcuna presunzione di avere la verità
in tasca e tanto meno di voler essere qualcosa di più di un semplice
esercizio di scrittura, vorrà pazientemente soffermarsi anche su
quelle divagazioni, e potrà magari condividerle o rifiutarle, o ancora
meglio e più semplicemente discuterle insieme.
A novembre la squadra ’96 giocò due amichevoli in una sera contro
la Polisportiva Mandraccio, amici ed avversari di sempre, e sempre
superiori a noi per risultati.
Quella sera per la prima volta m’improvvisai arbitro delle due
partite, e mister in assenza degli allenatori titolari.
Era l’inizio vero della stagione, poiché la settimana successiva
sarebbe iniziato il campionato.
Ai ragazzi sentii di dover dire soltanto di giocare come sapevo
avrebbero saputo fare, e così, in mezzo al campo con loro, pure con
un fischietto in mano, ebbi in regalo due delle più belle partite in
assoluto per carattere, grinta, gioco e solidarietà tra compagni.
Perdemmo uno a zero entrambe le partite, ma di nuovo, come dopo
quella partita raccontata un anno fa, ebbi la certezza uscendo dal
campo che questi ragazzi avrebbero saputo darci molto, se molto
avessimo saputo dare loro in termini di insegnamento e fiducia.
Alla fine della stagione ci troveremo tra le mani i risultati sempre e
in ogni caso buoni del lavoro di tutti.
Indipendentemente da quanto ottenuto la domenica sui campi di
gioco, sarà importante, infatti, rendere prezioso tesoro d’esperienza
positiva quanto avremo tutti saputo imparare, gli uni dagli altri: i
bambini dagli allenatori e gli allenatori e la dirigenza dai bambini,
così come i genitori e le famiglie dai loro figli e compagni.
Anche loro comunque, con il loro impegno ed i loro sacrifici, ci
insegnano giorno per giorno qualcosa di più sull’essere ragazzi, se
ce lo fossimo dimenticati, e su come lavorare ancora meglio per
commettere meno errori e non ripetere più quelli già commessi.
Spesso la semplicità ed insieme la profondità del ragionamento di un
ragazzo di appena dieci, undici anni, scontra e sconfigge



                                  12
concretamente il contorto e prolisso pensare, proprio del nostro
mondo d’adulti.
Questo ci fa rendere conto di quanto possiamo essere distanti dai
nostri figli, pur amandoli e pur essendo disposti a nostra volta ad
innumerevoli sacrifici per quello che ci ostiniamo a considerare il
loro bene esclusivo, e che a volte, in particolare nella scelta e nella
prosecuzione di un’attività ludico-sportiva, richiama soltanto le
nostre pur legittime, ma ormai distanti aspirazioni giovanili.
In ogni caso non conta molto ciò che faranno o ciò che saranno i
bambini di oggi, nel mondo del calcio.
Spero per loro rimanga almeno un ricordo piacevole, ed una piccola
grande passione da rimettere in campo ogni tanto insieme agli amici,
quelli di oggi, o quelli di un domani.
Spero che a loro rimanga anche qualcosa dell’affetto che tutti noi
abbiamo provato a trasmettere negli anni in cui abbiamo avuto la
gioia di seguirli in quest’avventura e che non tutto vada perduto con
il tempo.
I nostri errori serviranno forse ad evitare i loro, pur con la
consapevolezza che dovranno e vorranno sbattere il capo contro
molte difficoltà, crescendo giorno dopo giorno in una società che
sembra solo apparentemente fatta in funzione dei giovani, ma è
regno della superficialità e della preclusione, prima di trovarsi
magari, da questa parte della penna, o di un fischietto da arbitro
improvvisato.




                                  13
Questo racconto è dedicato a Mario Chiaramente, Tullio Gemelli,
Attilio Roncallo, Alessio Ottaviani, Leo Torrente, ed a loro, i miei
cuccioli di questa stagione: le Squadra 1996 e 1997/98 Nicolò
Aiello, Fabio Ambrosino, Simone Benzi, Andrea Bosco, Davide
Cervini, Mattia Costa, Gloria Davico, Leonardo Farina, Andrea
Guasco, Marco Impollonia, Paolo Lucisano, Simone Morello,
Manuel Mori, Daniel Ochoa, Christian e Federico Parissi, Saverio
Palma, Alessandro Piovesan, Matteo Pittiglio, Davide Pompa,
Francesco Sanguineti, Giorgio Savalli Lopez, Andrea Scarpati,
Riccardo Superbi, Luca Tarabotto, Marco Tonnicchi Bonfilio, ai
Mister Fabrizio Sgro, Alessio Quadro, Jose Parissi e Guido Baldini.
Un ringraziamento particolare a Edu Ambrosino, Nuccio Aiello e
Jose Parissi che sono stati coinvolti da me in questa avventura,
durata una sera, incredibilmente indelebile nella mia memoria ma
credo anche nella loro.
Spero non dispiaccia loro di essere citati nel racconto con i loro
nomi reali: vorrei fosse un tributo tangibile all’amicizia che ho per
loro e per quanto hanno dato pure con le loro energie, a questa
squadra meravigliosa.
A mia moglie, per il suo incoraggiamento:
J <<…ma non hai proprio niente di più utile da fare?...>> J




                                 14
15
Presentazione
di Attilio Roncallo




        16
"O Capitano! Mio Capitano!
           Il nostro viaggio tremendo è terminato
                 la nave ha superato ogni ostacolo
                       l'ambito premio è conquistato
                   vicino è il porto, odo le campane
                                   tutto il popolo esulta
                          occhi seguono l'invitto scafo
                           la nave arcigna e intrepida
                           ma o cuore! Cuore! Cuore!
                               O gocce rosse di sangue
               là sul ponte dove giace il Capitano
                                  caduto, gelido, morto
              O Capitano! Mio Capitano! Risorgi
                                odi le campane risorgo
                            per te è issata la bandiera
                             per te squillano le trombe
           per te fiori e ghirlande ornate di nastri
                                 per te le coste affollate
                    te invoca la massa ondeggiante
                             a te volgono i volti ansiosi
                    ecco Capitano! O amato padre!
                   Questo braccio sotto il tuo capo!
                      E' solo un sogno che sul ponte
                              sei caduto, gelido, morto
                      Non risponde il mio Capitano
             le sue labbra sono pallide e immobili
                   non sente il padre il mio braccio
                      non ha più energia né volontà
                  la nave è all'ancora sana e salva
                        il suo viaggio concluso, finito
la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo
                                     la meta è raggiuta
                  esultate coste, suonate campane!
                            entre io con funebre passo
     percorro il ponte dove giace il mio Capitano
                                 caduto, gelido, morto.
    Walt Whitman (O Capitano! Mio Capitano!)




            17
La squadra 1996 stagione 2005/2006:In piedi da sin. Paolo Lucisano, Leonardo Farina,
Saverio Palma, Christian Parissi, Fabrizio Sgro, Federico Parissi, Andrea Bosco,
Nicolò, Aiello, Simone Morello, Manuel Mori - Acc. da sin: Davide Cervini, Gloria
Davico, Andrea Guasco, Luca Tarabotto, Davide Pompa



A volte la vita ci presenta delle sorprese.
Che Fabio fosse persona piena di ottime qualità e di dedizione alla
Nuova Oregina, già lo sapevo.
Sapevo anche che è bravo a scrivere, per le innumerevoli mail che ci
siamo scambiati, ma non sapevo che fosse così bravo a scrivere un
racconto intero.
Il lavoro di cui mi sto onorando di scrivere la presentazione, non è
solo il dettagliato racconto di un'esperienza lunga due anni e di un
episodio particolare, di una partita, ma è l'emozione di padre e di
dirigente di una società di calcio.
Ma qui Fabio riesce a raccontarlo con una comunicativa che va ben
oltre quello che ci si aspetterebbe da chi non è abituato a scrivere per
mestiere.




                                        18
Alcune situazioni emotive sono descritte con una tale profondità e
incisività che avrei atteso soltanto da un autore di professione.

Allo stesso modo mi sono sorpreso anni fa, quando avvicinatomi
alla Nuova Oregina, ho trovato un ambiente davvero diverso dal
mondo del calcio che potevo immaginare.
Mi sono lasciato coinvolgere nella gestione di questo gruppo,
proprio perché già dai primi momenti ho capito che la società
poneva al primo posto il bambino: le sue esigenze, lo sviluppo
sociale, le capacità aggregative e la capacità di offrire ai ragazzi una
strada per crescere sfruttando l'immensa attrattiva dello sport e del
calcio in particolare.
Questa non è una società sportiva finalizzata unicamente a
capitalizzare calciatori e risultati, bensì a lavorare come supporto ed
ausilio per le famiglie allo scopo di contribuire a formare i ragazzi
di domani.
Ho conosciuto persone eccezionali, che hanno dedicato il loro
tempo e le loro risorse a questa società.
Persone meravigliose che nel corso degli anni sono arrivate ed altre
persone meravigliose che se ne sono andate.
Tante situazioni con un unico importantissimo punto fermo, che a
mio avviso rappresenta da solo l'anima della Nuova Oregina: Tullio
Gemelli.
E' presente da sempre, e più lavoro al suo fianco e più apprezzo la
dedizione che ha per questo gruppo.
Ha la capacità di coinvolgere la gente e di far lavorare assieme
persone che altrimenti avrebbero avuto poche occasioni di
incontrarsi ed aggregare le rispettive capacità.
Riveste ed affronta con modestia e competenza assoluta qualsiasi
ruolo occorra, e riesce nel contempo a delegare la fiducia di agire e
coordinare le attività agli altri, legittimandone le funzioni e
rendendo ognuno attore protagonista della vita sociale e decisionale
dell'associazione.




                                  19
Oltre al raggiungimento degli obiettivi principali, la Nuova Oregina
riesce ad offrire ai ragazzi le stesse opportunità che avrebbero in
qualsiasi altra squadra.
Non ci manca nulla e spesso offriamo cose più gratificanti di quanto
sanno offrire altre società sportive.
Iscriviamo le squadre ai tornei più importanti, offriamo il supporto
tecnico di due allenatori qualificati per ogni leva, allenamenti
specifici per i portieri, campi a sette e ad undici giocatori, palestra ed
attrezzature ginniche, ci presentiamo alle partite con un
abbigliamento decoroso ed uniforme, abbiamo una nostra
assicurazione supplementare a coprire ogni possibile rischio
d’infortunio dei ragazzi, abbiamo i palloni personalizzati con lo
stemma ed il nome della società, abbiamo un sito internet cha fa
invidia a quello di società professionistiche, ogni atleta ha la
possibilità di usufruire di una sua e-mail personalizzata.
Ci preoccupiamo di portare i ragazzi ad un ritiro precampionato
degno di una squadra di serie A, ed è già successo di portare
ragazzini di dodici anni a fare una tournee all'altro capo del globo, in
Ecuador ed alle Isole Galapagos, facendo parlare di noi giornali e
televisioni non solo locali ed italiane.
Per questo, è con gran rammarico che talvolta vedo genitori che
lasciano la Nuova Oregina per portare i loro ragazzi a giocare in
società più blasonate.
Sono i genitori, quasi mai i ragazzi a prendere questa decisione, ed
ho quasi l'impressione che noi, in quanto padri, non sappiamo
resistere alla dolcissima tentazione di viziare i nostri ragazzi e
pensiamo che portarli dove c'è la possibilità di vincere una partita in
più, sia offrire loro il meglio, e per fare questo magari ci
sobbarchiamo ore di trasferimento ed abbandoniamo la sicurezza di
una società dove esiste un indiscusso valore morale e la tranquillità
di un ambiente sano e protetto.
Personalmente ho resistito alcune volte alle pressanti richieste di
mio figlio, che avrebbe voluto forse talvolta sentirsi richiesto e
trasferito come un calciatore professionista, o che avrebbe voluto



                                   20
vantarsi a scuola di essere nella rosa di una grande società, ma
lavorando da dentro, vedendo la passione immensa di persone come
quella di cui vi state accingendo a leggere il racconto, vedendo mio
figlio che cresce contento, che riesce a superare qualche piccola
delusione della vita con la stessa facilità con cui affronta una
sconfitta e si prepara a vincere la prossima partita, credo di essere
sulla strada giusta ed aver preso decisioni altrettanto giuste.
State con noi e facciamo strada assieme. Diamo l'opportunità ai
nostri figli di crescere insieme e di rafforzare la coesione del gruppo.
Insegniamo loro un attaccamento a dei valori, l'attaccamento alla
territorialità del quartiere, se è il caso.
Se non molliamo, i risultati non tarderanno ad arrivare.
Premiamo l'impegno, dei ragazzi e degli adulti che li seguono in
modo completamente volontario.
Se vedete delle cose che non vanno o che devono essere aggiustate,
lavoriamo per cambiarle, ed arriveremo dove ognuno di noi, sono
certo, vuole arrivare: vedere i propri figli crescere con un carattere
forte, sano, altruista ed in grado di gestire le cose della vita.

                                                     Attilio Roncallo
                                               A.S.D. Nuova Oregina




                                  21
22
N.d.A. : Questo breve sproloquio è stato scritto la notte successiva a
Genoa-Cosenza del 7 giugno 2003 quando una partita di calcio senza
significato, che anzi sanciva l'ufficialità della retrocessione dei rossoblu
nella serie C1, divenne per quanti la vissero sugli spalti un evento di
emozione indimenticabile ed irripetibile.
So bene che ora lo leggeranno anche persone che non condividono la
passione sportiva per questi colori, ma, mentre agli amici genoani offro
queste righe sapendo di toccare facilmente i loro sentimenti, a tutti gli altri
le regalo invitandoli a leggerle con gli occhi della fantasia,
dell'entusiasmo e del rispetto per lo sport, visto che nel racconto che
seguirà, protagonista sarà il calcio, sport dei bambini.




                                      23
Psichedelia di un Amore

Da parecchio tempo non l'ascoltavo.
Così poco fa, ho pensato di mettermi su "tales from topographic
oceans" degli Yes. Un doppio album che fa data 1973.
La musica mi fa mettere mano alla tastiera, e mentre su un pc scorro
le immagini di ieri, sull'altro butto giù queste righe, che non hanno
altra pretesa che di aggiungere psichedelia a questa giornata.
La prima cosa che ho scritto è stato il titolo.
Insolito per me, che in genere scrivo e poi da quanto ho scritto o da
quanto ho inteso, porto al mondo il nome da dare alla mia creatura.
Psichedelia di un Amore, è quanto sento per questa gente, per quanti
amici sconosciuti, immagini che sfocano appena finita una partita,
volti che ho visto uguali e diversi, ridere, piangere, cantare od
imprecare legati ad una ringhiera, avvinghiati ad una sciarpa,
soffocati da una bandiera, accecati dai mille fumogeni colorati.
Che gente, meglio gente che popolo.
Il popolo si fa guidare.
La gente è la guida, la fonte pulita d’ogni idea e d’ogni certezza.
La gente che dei ricordi fa globuli rossi per il proprio sangue, non
perché viva di ricordi, ma perché non sei vivo senza avere ricordi e
sogni in cui credere.
Che gente, che mentre cantava e urlava, negli occhi aveva tutte le
lacrime del mondo perché colpita, ferita, umiliata.
Asciugavamo quelle lacrime con le mani e ancora gridavamo e
ancora piangevamo ridendo perché capivamo di quanta storia
stavamo costruendo le pagine.
Maledizione, c'ero, e quelle lacrime sorridenti, erano le mie e le tue
e di quello vicino che fumava una sigaretta dietro l'altra, e di quella
ragazza davanti con il grifone tatuato sulla schiena, che io guardavo
e mi si confondeva negli occhi con quelli sulle bandiere.
Quelle lacrime erano nelle risate di mio figlio, troppo piccolo per
capire che andavamo giù, abbastanza grande per urlare quelle




                                  24
canzoni rabbiose fino a perdere la voce e poi piangere pensando che
non sarebbe tornata mai più.
Che gente, che sapeva sussurrare un canto immenso nella lingua dei
padri, mentre il cuore di ognuno si stringeva in un rimpianto, e lo
sguardo si spostava lontano, su di un campo che non aveva più erba,
ma chi lo calpestava aveva la purezza dei campioni e il nome
scolpito sulle colonne dell'eternità, scarpe goffe, pali di legno a
cingere il cielo di un portiere che per primo pronunciò il nome
glorioso del Vecchio Balordo.
Che gente innamorata di un paio di colori vividi come il sangue di
un cavallo imbizzarrito, mai domato dalla speculazione e dalle beffe.
Si mescolano tra loro le emozioni, e mille sono che so solo d’averle
vissute in tutti questi anni, portando dentro quelle di mio padre e dei
padri di tutti noi, folli innamorati della luce di quei colori.
Quanto ci fanno dire e pensare quei colori, perché forse troppo
bambini vogliamo rimanere, perché sappiamo che crescere ci
toglierà il vivido sapere di essere immortali.
E allora navighiamo, gente di scorza dura, col cuore in mano e mano
a mano con chi ci ha lasciato e non è vero che non c'è più, nomi di
tutti e nomi sconosciuti a tutti, fratelli di quel sangue che sa rivelare
l'eternità dell'amicizia.
Che stadio ci vorrebbe per tenerli tutti quegli amici che ci guardano
dal terzo anello, che stadio immenso, dove le luci non servono ad
accendere ancora più il fulgore delle loro anime, buoni e cattivi ma
grifoni nella pelle.
Un capitano avanti a tutti perché quel numero lo porta negli occhi e
sull'anima, un sorriso accanto, sprezzante e sincero biondo guerriero
di battaglie lontane, e dietro ma accanto, nomi che inorgogliscono,
vicende da libro di storia, il nostro libro.
Scorre la musica nelle vene e brilla anch'essa di colori immortali,
volano le parole, che strano, preferirei carta e penna.
Non ditemi sciocco se stasera vi stupirà ciò che leggete, forse lo
scrivo solo per me e solo per voi, datemi tempo di capire perché
amo.



                                   25
Trenta anni fa forse troppo giovane per sapere, credevo nella
psichedelia di ciò che ascoltavo e guardavo negli occhi di un
musicista narciso, le parole di canzoni troppo intime per essere
condivise con altri.
Mi riempiva il giorno di suoni, sapere che dietro l'angolo c'era un
amico con cui parlare di loro.
Ricordo bambino al Pio, vedere giocare quegli uomini, di loro
ricordo soltanto che c'era Spalazzi, e una volta giocammo con loro e
corsi a casa a raccontarlo a mio padre e toccavo il cielo.
Corre il fiato di questa gente, che soffia vita verso questo cielo.
Che gente, questa che cerca e non troverà certezze nelle notizie di un
giornale, e si domanda il perché delle cose.
Che gente che sa camminare i sentieri difficili ritrovando la strada
per la felicità.
Finisce una partita e di loro dimentico le facce, ma poi le ritrovo
qui, disegnate nel rosso e blu dei colori di questo muro, e non so
non credermi amico e fratello di ognuno di loro.
Silenzio.
Ascoltate la maestosità di questo silenzio che vi avvolge.
Abbandonate per un attimo tutte le parole e i rumori della città, e
ascoltate questo silenzio.
E' talmente così rumoroso che vi stordisce, questo silenzio.
E' talmente così pieno di voci che penserete di trovarvi nel mezzo di
uno stadio.
Non c'è nulla.
Non c'è calcio, non c'è polemica, non c'è partita da giocare, non ci
sono punti in palio, non ci sono trofei alla birra o al sushi, non ci
sono ricorsi, non ci sono tar, covisoc, cga, figc, lnp, lnd, g, v, n, p, f,
s, non ci sono medie inglesi e non ci sono arbitri, segnalinee e
giocatori in mezzo a quel campo verde, non ci sono gemellaggi da
fare e gemellaggi da rovinare.
Non c'è nemmeno un pubblico sugli spalti, non ci sono bandiere,
striscioni, fumogeni, tamburi, sciarpe, voci, cori, insulti, risate e
pianti.



                                    26
Non ci sono cuori che battono per un'illusione, non ci sono maglie
sudate, non ci sono quei due colori uniti, a quarti su una casacca
antica, non ci sono quei grifoni dorati cuciti sulla pelle viva, non ci
sono palloni di cuoio pesanti da calciare, non ci sono nomi da
ricordare, Spensley, Abbadie, Corso, Meroni, Beccattini, Pruzzo,
Damiani, Nela, Odorizzi, Manfrin, Onofri, Aguilera, Bortolazzi,
Skuravy, Branco, Ruotolo, Torrente, Gorin, Signorini, e mille e
mille altri.
Non ci sono lacrime da versare per fratelli morti in nome della
stupidità umana.
Non ci sono storie da raccontare per dire io c'ero.
Non ci sono i clamori e le lacrime di una sera di giugno e non ci
sono i clamori e le risate di un'altra sera di giugno.
C'è solo quest’immenso magico irreale silenzio.
E qui, in questa vacanza meravigliosa, nel silenzio di un raggio di
sole caldissimo, siedo qui, e scrivo.
Mi manca la vita.
Che facce che avete stasera.
Dedicato a noi.
                                                                  FGM




                                  27
Camminando sul margine

Stiamo camminando sul margine del mondo.
Stiamo muovendoci pericolosamente ondeggiando
sul bordo estremo di quanto conosciamo.
Certo abbiamo conoscenza della nostra fiducia
abbiamo certezza della nostre certezze
Quanto sappiamo di ciò che ci controlla?
il Re Cremisi ci sta sopra e nemmeno lo vediamo.
Le sue lunghe dita aperte sulle nostre teste,
e nemmeno lo vediamo.
So d’essere vivo perché respiro
ma ho bisogno del Re Cremisi per sapere cosa fare
Quando mi dicono ciò che non voglio sentire
alzo spesso la voce e mi infurio
ma le orecchie del Re e gli occhi dei suoi consiglieri
sono chiusi da lembi di carne putrescente
Sanno solo ordinarmi di tacere e di eseguire
i loro capricci sono le mie banalità
Quanto denaro serve perchè i loro denti splendano nel sole
sui loro teschi minacciosi?
Quante bocche hanno pagato perché parlassero per loro?
Il Re vuole costruire un ponte ed il suo palazzo
davanti alla mia spiaggia preferita e un recinto intorno
perché io non possa più raggiungerla
per bagnarmi nel mio mare migliore
Il Re manda inviti col suo sigillo a tutti i notabili
perché sappiano che ciò che desidera è ciò che lui ordina
Stanno sussurrandogli parole suadenti
perché lui li guardi con il suo occhio più limpido
Stanno sorridendogli intorno come scrofe in calore
perché hanno paura di lui e dei suoi soldati crudeli
Io non voglio ubbidire ai suoi comandamenti
Non è il mio Signore, non è il mio cavaliere, non sono io



                          28
Ci sono molte voci intorno a me e tutte rumoreggiano
Sembra si stia preparando un'altra rivolta
Ma il Re Cremisi controlla e sorveglia i suoi poderi
Stiamo camminando sul margine del mondo
cercando un appiglio per non cadere
Stiamo muovendoci pericolosamente vacillando
sul margine della realtà che ci piace
Ogni cosa ha confini ed i colori mi trattengono il pianto
Stiamo armando il nostro braccio
è più forte ora che siamo così tanti
Ho detto agli altri di non temere
perché la mia spada ha poteri incredibili
Perché la mia voce spezzerà le catene
del Re Cremisi e della sua banda
Stiamo camminando sul margine del mondo
per riscriverne la storia di nostro pugno
Perché la storia ci appartiene
e quando abbiamo fame ci insegna ad alzare la voce
Stiamo muovendoci sul margine ed il Re se ne è accorto
Avanziamo sul margine del mondo verso le armate
Sono in tanti stavolta e ci sorridono da lontano
e portano in giro la maschera con un espressione perbene
Sono in tanti a muoverci contro
Ma il Re preferisce restare nell'ombra
Camminiamo ai margini delle certezze per farle a pezzi
Stiamo arrivando per farle a pezzi
Sta arrivando il tuo turno e ora tocca a te
Non sarai più il Re Cremisi
Dovrai camminare sui margini.



                                                       FGM




                          29
Capitolo I
La pioggia




“Che cosa useremo per riempire i vuoti spazi
           dove di solito stavamo a parlare.
            Come riempirò gli ultimi spazi?
               Come completerò il muro?”

                     Pink Floyd (The Wall)




      30
Sarà stata la serata piovosa, ma noia era la sola parola che mi veniva
in mente, mentre risalivo il traffico faticosamente, tra semafori poco
intelligenti e un campionario completo di stupidi seduti dietro ad un
volante, evidentemente messi lì apposta dal poco stimato assessore
al traffico, per dimostrare l’utilità del trasporto pubblico nei
confronti di quello privato, dovendo d’altronde mandare avanti un
carrozzone da quaranta milioni di euro all’anno di perdite di
bilancio.
Nonostante il breve tragitto da compiere, era oltre mezz’ora che mi
trovavo inchiodato dietro ad un furgone che mi impediva anche di
vedere i progressi della coda davanti a noi, cosa che mi rendeva
ancora più nervoso del solito, mentre cercavo di spostarmi
lentamente più all’esterno, per riuscire a sbirciare avanti, dopo il
maledetto furgone, e vedere qualcosa di quello che stava oltre.
Se quel tipo avesse guardato un attimo nello specchietto, avrebbe
corso il rischio di vedersi fulminato dal mio sguardo e dalle pacate
maledizioni che gli stavo indirizzando.
Far ginnastica con un piede sulla frizione non era il mio sport
preferito, e se non altro quello era il piede sbagliato, e potendo
scegliere, avrei preferito un buon esercizio di “push and… push” sul
pedale opposto, quello dell’acceleratore, ma visto che al momento
non era possibile fare altrimenti, me ne stavo sconsolatamente
abbandonato sullo schienale, una mano distratta sul volante, ed il
resto banalmente impiegato a far procedere centimetro dopo
centimetro l’auto incolonnata nel traffico di una Genova
piovosamente spettrale.
La radio teneva compagnia, e mi mandava gentilmente alcune
vecchie, meravigliose canzoni pop degli anni settanta, e qualche
cover inizio anni ottanta niente male, e questo, oltre ad evocare
qualche emozione, risvegliava i ricordi di serate passate a sentire
musica e chiacchierare tra una birra e l’altra, insieme alla vecchia
banda di Coronata.




                                 31
Naturalmente appena entrato nella galleria di Corvetto, la maledetta
baracca mi salutò allegramente iniziando a gracchiare come un
vecchio corvo sbalordito e mi costrinse a zittirla bruscamente.
Dolcemente, girai parte delle mie maledizioni alla radio, che
sopportò con estrema signorilità, degnandomi appena di una breve
pernacchietta alla quale risposi con un’occhiataccia e con una
manata sul pulsante di spegnimento.
Mi riservai di accenderla nuovamente tra una galleria e l’altra, e un
paio di canzoni ci stavano nei cento metri tra una galleria e l’altra, e
poi ero disposto a perdonare l’aggeggio infernale, se non avesse
rinunciato a tenermi compagnia in mezzo a quel casino insuperabile.
Un pezzo d’asfalto lungo dieci metri quella sera sembrava una
distanza da balzo iper spaziale, e come al solito, quattro gocce di
pioggia mettevano su più confusione che una mezza alluvione: non
c’era un cane senza auto per la strada.
Ero in ritardo, ma non potendo farci nulla non me ne preoccupavo
più di tanto, e dopo poco avrei comunque svoltato verso le alture,
lasciando quella che da sempre era una delle strade più intasate, per
una molto più tranquilla, salendo da Piazza della Nunziata, verso il
Carmine e l’Albergo dei Poveri, che faceva da collegamento tra il
centro e la Circonvallazione a Monte.
Il ritardo lo avrei recuperato rapidamente, e avrei fatto in tempo a
sbrigare le ultime faccende della giornata, prima di passare alla
scuola ed attendere l’uscita di mio figlio.
Fermo dietro quel furgone, osservavo distrattamente il passaggio
della gente sui marciapiedi ancora lucidi per la pioggia leggera
durata tutto il giorno, e le luci delle prime insegne accese iniziavano
a colorare della loro fosforescenza le sottili superfici increspate
delle piccole pozze d’acqua sull’asfalto irregolare.
Un quadro irreale e fantastico, dipinto da decine di mani e tratto dal
disegno abbozzato da qualcuno che se esisteva, nessuno poteva
nemmeno immaginare.
Il dio degli elettrotecnici forse c’è davvero, cercare per credere.




                                  32
Nel 1982, al quinto anno di studi, e poco prima degli esami di
maturità, che avrebbero battezzato l'ennesima generazione di periti
elettrotecnici, assieme ad alcuni complici sghignazzanti,
componemmo e trascrivemmo sulla lavagna, per la gioia dell'ing.
Salvini, addirittura la "preghiera dell'elettricista" che recitava più o
meno così:

Ampere nostro che sei nei cavi
dacci oggi il nostro Volt quotidiano
e non ci indurre in Alta Tensione
ma liberaci dalle Correnti Parassite.
Ohm

Non ho parole, e mi vergogno così tanto da farvela leggere, così
potrete prendermi in giro per la giusta pena del contrappasso.

Stavo pensando che anche quei colori avevano una loro strana
bellezza, confusi ed effimeri, senza di loro il grigio avrebbe
comunque prevalso su tutto, smorzando ancora di più i toni di un
pomeriggio autunnale come tanti altri.
A volte il passaggio di qualche persona rompeva il gioco delle luci
nell’acqua, e le ombre lunghe ma attenuate dalle molte fonti di luce,
si staccavano dal suolo per infrangersi sulle fiancate delle auto e sui
cofani surriscaldati.
Le luci erano blu, verdi e rosse, e tutte insieme formavano migliaia
di altri colori, sfumature di scintille nell’aria un po’ grigia di rientro
dal lavoro.
Scenari da filmaccio di fantascienza, se non fosse che il desiderio di
un elicottero qualsiasi, di una macchina volante, di un astronave che
mi permettesse di levarmi sopra quella massa di ferro, vernice,
plastica ed imbecilli, mi riportava facilmente al presente del mio
incedere metro dopo metro con la velocità di un fante scelto
dell’esercito delle lumache.




                                   33
Al puzzo dei gas di scarico nessuno faceva più caso, tanto
n’eravamo impregnati dalla mattina alla sera, e ogni volta che il
passaggio di un autobus pungeva le mie narici con la sua zaffata
nera, mi trovavo a ricordare quando tornavamo in città al rientro
dalle vacanze.
 Ci trovavamo di colpo nell’odore che cancellava in un attimo i
profumi della campagna ed il salmastro degli spruzzi di mare che per
tanti giorni ci aveva sfiorato.

Amavo la mia città, anche se forse la parola amore era un po’ troppo
per definire quel senso d’appartenenza e d’identificazione in quella
gente, in quelle colline basse, ed in quel lanciarsi in un attimo nel
mare scuro di quel golfo antico, che sembrava dover essere stato la
patria d’ogni marinaio ed il punto di partenza d’ogni esplorazione e
commercio.
Anche il vecchio Cristoforo, benché per la traversata più famosa
della storia avesse preso il largo da tutt’altro porto, ad
immaginarselo, sembrava di vederlo scendere da quelle calate verso
la sua caravella, e volgere un ultimo sguardo alla città ed alla
Lanterna, prima di affrontare il mare aperto verso le colonne, ritto e
fiero sul castello di prora del suo legno.
Dubito ancora che con quei tre gusci di noce sia arrivato dove disse
di essere arrivato, ma forse dire che fu questione di fortuna, può
ancora dipendere dai punti di vista.

Non che i risultati di quella traversata fossero infatti stati così
positivi per tutti, a partire da chi abitava già dall’altra parte
dell’Atlantico, e si era trovato da un giorno all’altro a dividere la
propria terra con quegli strani uomini dalla zucca di ferro venuti da
chissà dove, così pronti a rubare loro ogni cosa possedessero, oro,
terra, perfino le donne, uccidere ed imporre con la violenza
dell'arroganza prima, solo con la violenza più tardi, un nuovo credo
in qualcosa di così diverso ed incomprensibile dai loro dei di
sempre, mostrando delle verità che non riuscivano a comprendere,



                                 34
così lontane dai loro bisogni di sopravvivere ogni giorno ad una
natura selvaggia.
E poi Cristoforo stesso, non è che fosse stato il primo ad arrivare
fino a là, ma forse il primo a tornare per dire di essere finito da
qualche parte navigando sempre dritto davanti al naso.
Bene o male anche lui fece in fondo la fine che meritava, solo,
povero, dimenticato dal mondo dei potenti, e gettato in catene in una
scomoda due metri per due.

Questi, molti altri pensieri strampalati mi giravano per la testa in
quel pomeriggio piovoso, nel chiuso dell’abitacolo della mia auto, a
rilento nel traffico e diretto verso gli impegni più leggeri ma non
meno importanti della serata.
Una serata da trascorrere insieme a mio figlio ed insieme alla
squadra di calcio, impegnati in un paio di partitelle amichevoli, una
sgambata del venerdì contro gli amici-avversari di sempre, tanto per
prepararsi alla seconda di campionato.
Ovviamente parlo del campionato Pulcini non di serie A.
Campionato che era iniziato com’era finito il precedente, una
sconfitta dietro l’altra, ed un’incomprensibile poca voglia di
mostrare quella grinta che in allenamento non mancava.
C’era anche l’aggravante dei progressi tecnici invisibili alla luce dei
due anni e mezzo passati sul campo a lavorare, e con la sola debole
attenuante d’alcuni nuovi arrivi, ragazzi potenzialmente in gamba,
ma ancora poco abituati ad un vero campo da gioco, e quindi poco
disciplinati a mantenere le posizioni dettate dal mister, ed ancor
meno pronti all’intesa con i compagni più vecchi della squadra.

Vostro Onore, pesiamo bene aggravanti e soprattutto attenuanti, se
vogliamo giudicare questi ragazzi, e se possibile diamo loro un’altra
possibilità.
Grazie Vostro Onore i miei ragazzi ed il mio editore le sono
eternamente riconoscenti.




                                  35
Vecchi comunque si fa per dire, quando stiamo ragionando di
ragazzini sui dieci anni di età, mese più, mese meno, ma se parlo
della mia squadra, non posso fare a meno di vederli come una vera
squadra di calcio, quasi che non sia importante la differenza di età
dai calciatori adulti, ed il colore delle maglie, sempre troppo grandi
per loro, non sia quello di una piccola società di quartiere, invece di
quello delle illustri casacche sempre al centro delle cronache
sportive televisive.
Che importa e a chi importa, quando in quella squadra c’è tuo figlio,
e quando i suoi compagni ormai fanno parte anche della tua vita, ed
a loro dedichi con entusiasmo una bella fetta del poco tempo libero,
ripagato sostanziosamente dai sorrisi di una ventina di bambini
rigorosamente assorti nella felicità di sentirsi protagonisti di fronte
alle piccole platee di genitori e nonni fuori delle recinzioni di un
campetto scalcinato.
Mi è capitato ultimamente di guardarmi in faccia con il mister della
squadra 1997/98 durante una partita, e sconsolatamente confidarci
quanto fosse impossibile capire perché stavamo appassionandoci e
soffrendo più per quei bambini che davano vita a tutto fuorché ad
una partita di calcio, piuttosto che alle sorti del nostro Grifone che
in quello stesso momento stava giocandosi una promozione e di cui
non sapevamo assolutamente nulla.
Eppure mi rendo conto che ti prende, vedere sul campo quelle
miniature cariche di orgoglio e di voglia di strafare, di emulare le
azioni viste in tv la sera prima.
I bambini c’insegnano come vivere ancora giovani dentro il cuore, e
lo fanno con le loro mille sbucciature, con le lacrime per il pallone
preso sul muso, con quei gol incredibili ed improbabili, ai quali
esulti come un pazzo.
D’accordo, comunque si era soltanto ai primi di novembre, e tempo
per crescere e recuperare ce ne sarebbe stato a bizzeffe, magari non
avremmo vinto il campionato, ma certo non si poteva dichiarare
persa la stagione prima di iniziarla, e poi comunque andasse quella
sarebbe stata un’esperienza importante per l’anno successivo.



                                  36
Forse erano gli stessi tiepidi discorsi fatti a giugno, quando
chiacchierando alla fine delle ultime partite estive, fantasticavamo
sulle possibilità di crescita dei ragazzi dal punto di vista tecnico, e
sull’assoluta impossibilità di ripercorrere il calvario che avevamo
appena finito di scalare.
Magari stava nell’ordine naturale delle cose, visto che se esistevano
squadre che vincevano, dovevano altrettanto esistere squadre che
perdevano.
Peccato trovarsi spesso dalla parte sbagliata di questo bellissimo
concetto.
La scorsa stagione abbiamo raccolto molto meno di quanto
avremmo meritato, per aver giocato le partite migliori contro le
squadre più quotate e per aver sciupato parecchio, troppo.
E se questo in qualche modo ci puniva giustamente, perché una
squadra vincente nel calcio, a qualunque livello non può e non deve
permettersi di sciupare occasioni più del lecito, se vuole almeno
trovarsi alla fine del campionato in un dignitoso centro classifica.

Se quel dannato furgone si fosse deciso a fermarsi, o almeno fosse
sprofondato in un crepaccio, avrei potuto vedere che cosa mi
aspettava ancora sulla strada, prima di riuscire a mettere la freccia
per svoltare sulla strada della salvezza.
E se il pallone avesse trasformato per una volta i suoi esagoni neri in
tanti numeri esatti, e sulla ruota della fortuna fossero usciti quei
numeri, si poteva sperare in qualcosa che infilasse tutto dentro un
bussolotto, scuotesse bene, e lasciasse cadere i dadi facendoci finire
per una volta nella metà sorridente di un teorema assai poco
matematico.




                                  37
Capitolo II
        I giorni migliori




        "Noi prendiamo il meglio, dimentichiamo il resto
  e a volte scopriremo che questo è il meglio di sempre...
    I momenti migliori sono quando io sono solo con te...
pioggia e sorrisi, faremo di questo un mondo per due..."

                                  Styx (The best of times)




                  38
Per il terzo anno seguivo la squadra con la carica di dirigente
responsabile, e anche se magari poteva sembrare un po’ suntuoso
come appellativo, per uno che in fondo doveva occuparsi di
compilare distinte di gara e portare sul campo borsate di maglie e
cesti di borracce per l’acqua, vi assicuro che a volerlo fare per bene
dovevi perderci la testa e dedicarci qualcosa di più che un po’ di
tempo libero.
Dovevi dedicarci passione, tanta passione, ed ancora passione, tenuta
insieme da un mucchio di tempo spesso sottratto al resto della
famiglia e disponibilità continua nei confronti di società, genitori e
soprattutto ragazzi.
Io c’ero finito tirato per i capelli da un paio d’amici, i quali, non
appena il loro indicatore di livello di sopportabilità per quello stile
di vita era arrivato ad inchiodarsi oltre la zona rossa, mi avevano
imbesugato con moine varie ed ambigue richieste del tipo “…così ci
dai una mano…”, per poi svanire senza nemmeno la nuvoletta di
fumo non appena ebbi oltrepassata la soglia della sede.
Una volta sbattuta la testa al buio contro quello spigolo, avevo però
volentieri scelto di metterci dentro tutta la passione che avevo, e
questa, con il passare del tempo non aveva faticato a diventare
talmente intensa da spaventarmi anche e farmi temere che la zuccata
contro lo stipite dell’ingresso di quella segreteria, l’avessi presa
davvero e ne fossi ancora intontito.

Mi spiegate come si fa a non innamorarsi di una squadra di ragazzini
che hai visto iniziare a prendere a calci un pallone, quando avevano
sei anni, e ci hai passato insieme ore di gioia e delusioni?
Mi sapete dire come si fa a non mettersi al collo la sciarpa di quella
squadra, quando di ognuno di quei bambini hai imparato a conoscere
perfino come si fa il nodo alle scarpe?
Avete mai deciso in una sera d’estate di vincere una partita e
guardato negli occhi il vostro capitano alto un metro e trenta
centimetri nel consegnargli la fascia?




                                  39
Non ci credete vero, che in quegli occhi ci si possono
tranquillamente leggere gli occhi dell’uomo che sarà?
Eppure io ve lo firmo anche e vi dico che potete provare se avete
abbastanza fegato, perché poi non vi sarà per niente facile tirarvene
via.

Pioveva ancora: una sottilissima parete di meravigliosi diamanti di
rugiada che scendevano dal cielo sul parabrezza, subito cancellati dal
crudele schiaffo della spazzola.
Eppure riuscivo ad intravedere dentro ad ogni goccia il volto di uno
dei miei ragazzi, e mi sembrava in quel momento di vederli allineati
per il saluto al pubblico, ma eravamo in un grande stadio, e i visi
fuori della rete non erano quelli dei loro genitori, ma pur
riconoscendone ognuno, si confondevano in migliaia e migliaia di
volti e di colori, i nostri colori.
Davvero era pericoloso starsene in coda nel traffico, se riuscivo a
vedere nella pioggia ciò che potevo credere fosse il nostro futuro e
forse invece soltanto i sogni ad occhi aperti di un pazzo alla guida di
una squadra di pazzi.

Futuro e presente fatti di istante dopo istante a formare uno dopo
l’altro i nostri giorni migliori.
I giorni migliori sono quando noi crediamo in noi, ed in quanti sono
al nostro fianco, quando la nostra pelle si fa così dura da non poter
essere graffiata dalla vita, quando siamo capaci di far nostro il cielo
oltre l’ultima stella e senza tremare stringiamo nelle mani il nostro
destino.
I giorni migliori per quei ragazzi credo fossero proprio quelli che
attraversavamo insieme, loro giovani entusiasti, noi meno giovani
ma non certo meno entusiasti, e non contavano i risultati incerti di
partite da non essere considerate nemmeno degne di un vero arbitro,
con la divisa gialla e tutto il resto a posto.
I giorni migliori sono quelli dell’età dei miei figli, quando puoi
credere a qualunque cosa, e nessuna favola è troppo impossibile da



                                  40
credere vera, quando guardare il mondo ad occhi spalancati ti fa
vedere i colori sui muri di pietra e non le mani aggrappate alle
sbarre, la bellezza di un paesaggio d’Africa ed i suoi leoni fieri re
della savana, e non le mosche sugli occhi di chi muore di fame lungo
una strada di speranza senza fine, lo scintillio di un astronauta alla
conquista dello spazio, e non il fumo tetro degli incendi di un
bombardamento in una guerra ingoiata dall'indifferenza.
Già, vivere l’avventura del calcio a dieci anni ti fa sentire in ogni
caso un eroe, e sei pietra e sei leone, sei astronauta e sei campione, e
le emozioni si amplificano enormemente dentro il tuo cuore: se un
gol faceva la differenza tra la gioia ed il pianto, era però
meraviglioso vedere con quale facilità quelle emozioni scorrevano
in pochi minuti senza lasciare apparente traccia dietro di loro.
Davanti agli occhi un sogno ricorrente, di quelli che spesso fai ad
occhi aperti, ma che rimangono a martellarti la testa, pieni
d’assurdità e di motivi per ripensarci su.

Nel mio sogno, un giorno mi ero trovato a passare per caso davanti
ad un'osteria malfamata, ed avendo sete, decisi di entrare.
Fui accolto da uno straccio lanciatomi davanti a me sul bancone
dall'oste, una persona davvero sgradevole, che fingendo di pulire, ma
in realtà ungendo ancora più con quella pezza schifosa che aveva in
mano, mi apostrofò malamente, con una voce sgraziata,
chiedendomi che cosa volessi.
Chiesi un latte di mandorle, perchè ne venivo dalle vacanze in
Calabria ed avevo ancora in bocca il gusto stupendo di quella
bevanda e lui mi mise davanti un bicchiere mezzo vuoto di pessimo
vino, nero come un cuore dannato e fetido di una cantina ammuffita.
Alle mie cortesi rimostranze, mi apostrofò ancora più malamente
dicendomi che quello era ciò che passava la casa, e se non mi andava
bene, peggio per me.
Sputò per terra dietro al banco con un rumore orribile della gola, e ci
strascicò sopra un piede, sulla faccia una smorfia di sfida.
Dissi allora che non mi sembrava giusto.



                                  41
Dissi quasi piangendo che non mi era mai capitato di conoscere una
situazione così incredibile, e come faceva a tenere aperto un locale
servendo solo quello che voleva lui, per tutti, quel bicchiere mezzo
vuoto di amaro cancarone color vomito di cane ubriaco.
Mi rispose allora che i tempi erano duri, e che lui non aveva nessuna
voglia di far nulla perchè migliorassero.
D’altra parte, mi disse, quasi rabbonito dalla mia reazione, che posso
aspettarmi dai miei clienti?
Con quelle facce, con quella voglia di morte che hanno addosso, ci
vuol tutta che mi paghino questo.
E poi, mi disse, pensavo davvero che in altri locali potevano offrimi
di meglio?
La vita è tutta qui caro signore, mi disse, e se lei non la sa vivere
come la viviamo noi, è solo perchè lei, se lo lasci dire, è un povero
illuso, lei ha le fette di salame sugli occhi, lei non sa vedere la realtà,
lei è un sognatore.
Si trattenne a stento dallo sputare di nuovo a terra, tirò su col naso e
guardandomi deglutì chissà quale bestia.
Riluttante a farsi vedere dagli altri avventori, tirò fuori di sotto il
banco una fotografia e me la mostrò.
Lo ritraeva molto più giovane e sorridente, di fianco ad una bella
ragazza, al collo entrambi avevano una catenina con la metà di un
cuore d'argento.
Ai polsi avevano dei bracciali di cuoio scuro, mi disse, con su
impressa grande, la scritta “PACE”.
Soffiandomi quelle parole vicino all'orecchio, potei sentire l'odore
nauseante del suo alito mentre spiegava: una volta credevo in
qualcosa, credevo nell'amore di una donna e la amavo, lei mi ha
lasciato per un altro.
Credevo anche nella gente, era la mia vita, e lo sarebbe ancora, ma
mi ha deluso troppo, non ho più fiducia, mi ha tradito troppe volte.
Uscii da quel tanfo di vecchio e di rassegnazione, e m’incamminai
pensieroso.
Forse quell'oste non aveva tutti i torti in fondo.



                                    42
Come facevo a vedere la bellezza delle cose, a sentire in bocca la
dolcezza di quel latte di mandorle calabrese, e credere davvero che
non fosse anche quello, altro che cancarone sofisticato?
Quasi senza accorgermene, entrai in un altro locale, mi avvicinai al
banco distrattamente e chiesi il mio latte di mandorle.
Volgendo intorno lo sguardo, vidi solo visi sorridenti, espressioni
oneste, e in quel bar, l'aria profumava di pulito, e i discorsi che si
facevano intorno ai tavolini, erano diversi e pacati, solo a volte
appena più accentuati forse dalla passionalità di chi esponeva.
Parlavano di donne, di calcio e di politica, ma lo facevano in fondo
serenamente.
Nessuno aveva ragione, ma tutti avevano ragione, e le pacche sulle
spalle si sprecavano, erano tutti grandi amici.
Il mio bicchiere con il latte di mandorle era lì, di fianco a me sul
bancone, dove il barista, un uomo dolce e sorridente, lo aveva
posato, senza dire nulla.
Forse vide la mia espressione sbalordita, mentre osservano la gente
dentro il locale.
Delicatamente mi posò una mano sul braccio dicendomi: <<mi scusi
signore, sa, la stavo osservando.
Mi sembra di capire dalla sua espressione che lei ne viene dal locale
qui vicino... >>
Lo guardai senza rispondere, ma gli sorrisi debolmente.
<<Vada, mi disse, vada anche lei, la stanno aspettando.>>
M’incamminai piano, poi più rilassato, mi sedetti al tavolino più
vicino, dove un uomo dall'espressione seria ma simpatica, si era già
alzato, ed aveva avvicinato una sedia per farmi posto.
Posai il bicchiere sul tavolino, e poi, guardando bene in faccia uno
per uno i miei compagni di viaggio, dissi: <<allora ragazzi, di che
parliamo oggi?>>
Vorrei che questo fosse lo stesso bar frequentato dai miei migliori
amici.




                                  43
Non ho mai terminato quel sogno, non so quale bar dei due fosse
reale, quale realmente mi attendesse insidioso, quale dei due uomini
diversi eppure così simili tra loro, intendesse mettermi in guardia
dall'illusione dell'altro.
La pioggia continuava a cadere leggera, e quando svoltai verso la
collina, i volti d’alcune persone alla fermata del bus s’illuminarono
dei fari della mia auto, così mi ricomposi sul sedile ed azzerai i miei
pensieri strani schiacciando sull’acceleratore come schiacciare un
mozzicone sull’asfalto.
Mentre la luce dei fari fendeva debolmente la prima oscurità, un
altro me stesso voltava pagina e sorrideva.
Si cominciava.




                                  44
45
Capitolo III
        Tra noi




"...ed il più grande conquistò nazione dopo nazione
   e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione
    perchè più in là non si poteva conquistare niente
      ed io ti ho sollevato figlio per guardarti meglio
                 perchè non parli e io sto a guardarti
                             finché rimango sveglio..."

             Roberto Vecchioni (Forse non lo sai...)



              46
"It's no time to make a change
                           just relax, take it easy
           You're still young, that's your fault
           there's so much you have to know
                         Find a girl, settle down,
                     if you want you can marry
         Look at me, I am old, but I'm happy
                  I was once like you are now,
                   and I know that it's not easy
                To be calm when you've found
                              something going on
               But take your time, think a lot,
         Why, think of everything you've got
            For you've still be here tomorrow
                       but your dreams may not
                       How can I try to explain,
               when I do he turns away again
                      It's always been the same,
                                    same old story
                From the moment I could talk
                           I was ordered to listen
                Now there's a way and I know
                          that I have to go away
                               I konw I have to go
               It's not time to make a change,
                     Just sit down, ake it slowly
           You're still young, that's your fault
     There's so much you have to go through
                         Find a girl, settle down,
                     If you want you can marry
         Look at me, I am old, but I'm happy
                        All the times that I cried
          keeping all the things I knew inside
         It's hard, but it's harder to ignore it
                    If they were right, I'd agree
                but it's them you know not me
                Now there's a way and I know
                          that I have to go away
                               I know I have to go
                             I know I have to go"
                                            -----




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"Non è il momento di cambiare
                  Rilassati, prendila con calma
     sei ancora giovane questa è la tua colpa
          Hai ancora molte cose da conoscere
              trovare una ragazza, sistemarti,
                           se vuoi puoi sposarti
   Guarda me, sono vecchio, ma sono felice
                Una volta ero come sei tu ora,
                            e so che non è facile
           rimanere calmi quando hai trovato
                                qualcosa che va
                    ma prenditi tutto il tempo,
                                  pensa a lungo
  Perché, pensa a tutto quello che hai avuto
             Per te sarà ancora qui il domani,
                      ma forse non i tuoi sogni
              Come posso provare a spiegare,
                               quando lo faccio,
                      si volge altrove di nuovo
             E' sempre la stessa vecchia storia
           Dal momento in cui potevo parlare
                    mi fu ordinato di ascoltare
 Ora c'è una strada e so che devo andarmene
                            So che devo andare
                 Non è il momento di cambiare
                    Siediti, prendila con calma
    sei ancora giovane, questa è la tua colpa
    Ci sono ancora molte cose da affrontare
              trovare una ragazza, sistemarti,
                           se vuoi puoi sposarti
   Guarda me, sono vecchio, ma sono felice
                   Tutte le volte che ho pianto,
                    tenendo tutto dentro di me
     E' dura, ma è anche dura ignorare tutto
          Se avevano ragione, ero d'accordo,
         ma sono loro che tu conosci, non me
                              Ora c'è una strada
                   e io so che devo andarmene
                           So che devo andare"

          Cat Stevens (Father and Son)



48
Penso che sia talmente egoistico il nostro mondo d’adulti da privarci
della gioia di conoscere veramente i nostri figli, coinvolti dalla
debole scusa dei nostri impegni e dei nostri grandi problemi.
A volte diventa così difficile parlare con loro perché anche quando
lo facciamo siamo in realtà assorti nei nostri pensieri, preoccupati
della nostra vita quotidiana fatta di lavoro e di piccole e grandi
battaglie, e sottovalutiamo i sentimenti di coloro, così importanti
per noi da chiamarli figli.
Sottovalutiamo molto spesso il raziocinio, i sentimenti e la capacità
d’adattamento alle situazioni dei nostri giovanissimi interlocutori,
liquidandoli troppe volte con la scontata e superficiale motivazione
delle “cose da grandi”, mentre il loro bisogno di sapere, d’essere
spugna davanti ad un mare infinito di nozioni e conoscenza da
acquisire, ci spaventa a tal punto da fuggirne precipitosamente ogni
qual volta dovremmo essere invece capaci di svolgere il nostro
compito di genitori, educatori, insegnanti guida in quelle che invece
sono “cose di vita” per ogni persona su questa terra.
Vederli su un campo di calcio correre sgambettando dietro ad un
pallone in fondo non è altro che rivedere noi stessi bambini e tentare
di riappropriarci di quegli anni che ci sono stati rubati troppo in
fretta dal tempo che passa.
Spesso, fingiamo di cancellare, mentendo a noi stessi, con questo
puerile comportamento le nostre delusioni, le nostre difficoltà.
Scaricare su di loro piccoli calciatori le nostre passioni migliori o
peggiori davvero rischia d’essere il nostro tentativo di rivalsa verso
quanto non siamo stati capaci d’essere o non abbiamo avuto la
possibilità di fare, alla loro età.
Mi accorgo che spesso un breve viaggio in auto solo con uno dei
miei figli, magari proprio mentre lo sto accompagnando a giocare
una partita, diventa occasione di dialogo, opportunità per scoprirne
piccole angolature del carattere, piccoli cambiamenti che anche in
lui inevitabilmente il tempo produce, muovendosi verso la maturità
ma anche verso la perdita di quel giocoso mondo che viene così bene
rappresentato dalla favola di Peter Pan.



                                  49
L’eternamente bambino sopravvive soltanto in chi rimane altrettanto
eternamente ingenuo, permeabile ad un mondo dove il buono
prevale di solito sul cattivo e dove l’immaginifico è reale quanto le
persone che si muovono al suo interno, in fondo prigionieri
comunque di se stessi e di un limitato territorio, al di fuori del quale
nulla ha più i colori della mente, ma soltanto il grigio uniforme della
vita ordinariamente vissuta.
E così, alla ricerca dell’Isola Che Non C’è ed al tentativo
immensamente impossibile di rimanere all’ancora entro qualcuna
delle sue baie più accoglienti, dedichiamo tutti i nostri anni più belli
ed ingenui, sovente portandoci al fianco amici fidati che perderemo
per strada, ed ancora più spesso aggrappandoci alle ali sottili di una
fatina libellula che crediamo ci guidi proteggendoci dal nemico di
turno.
L'orologio del coccodrillo del tempo scandisce le sue ore anche per
noi, per quanto la nostra fantasia ci prolunghi l'agonia restituendoci
ogni tanto all'approdo dell'Isola.
Moriremo crescendo, è vero, dimenticando tutto ciò che siamo stati
per arrivare a quell’età dove delle persone che ci stanno intorno
capiremo meglio il lato più cattivo, dimenticando il piacere di ridere
per il solo gusto di ridere, e dimenticando la fiducia negli altri, soli,
arcigni, avari custodi dei sogni che non abbiamo fatto in tempo a
sognare.
Vivremo pur avendo inconsapevolmente ucciso in noi le certezze
della nostra esistenza infantile, certi ora, invece, di altrettante verità
non certamente più piacevoli, nemmeno più spiacevoli, e tanto meno
diversamente desiderabili, semplicemente consone al nostro comune
ed improbabile regolamento di vita civile da prigionieri sul vascello
fantasma di un Capitan Uncino eternamente in fuga dall’inevitabile
rintocco della sua mezzanotte.

Pensare cosa esista di più bello del sorriso di un bambino è
impossibile, se pure affermarlo ricade nella retorica.




                                   50
Quante volte mi sono trovato a tirare un sermoncino ai miei figli
perché fossero più seri, perché smettessero di ridere come i pazzi,
per poi rendermi conto magari proprio mentre parlavo, dell’assurdità
di quanto stavo dicendo: proibire ad un bambino di ridere è
impossibile ed in fondo ingiusto.
Per fortuna loro si dimenticano subito dei rimproveri, e
tranquillamente riprendono dopo pochi secondi le loro risate.

Quel giorno, superato il traffico del venerdì avevo raggiunto casa e
preparata rapidamente la borsa con l’occorrente per la partita di mio
figlio.
Staccarlo dal televisore si rivelò un’impresa come il solito ardua, ma
alla fine, aperta la porta di casa e chiamato al piano l’ascensore, lui
mi raggiunse, chiudendosi la porta alle spalle non senza un lieve
sospiro di sconforto.
Salì in auto al mio fianco, un piccolo strappo alle regole che gli
concedevo solo in quelle occasioni, quando mi piaceva saggiarne un
pochino l’umore, e magari dargli gli ultimi (inascoltati) consigli per
la partita.
Sapevo che quel giorno, come tutti i suoi compagni, era molto
caricato dalla prospettiva della doppia sfida, perché si affrontavano
gli amici-rivali di sempre, contro i quali non si era mai riusciti a fare
risultato positivo, e così ogni volta che ci incontravamo con loro, si
trattava di una sorta di rivincita continua, sempre più spesso giocata
con agonismo e grinta, poche volte con lucidità e bel gioco.
Mi raccontava di una giornata di scuola mai come tutte le altre, con
sempre nuove cose da scoprire ed imparare, entusiasta della storia
degli Egizi e dello studio dei primi cenni sul come è fatto il nostro
universo, con la Terra, il suo satellite la Luna, il Sole che sembrava
impossibile che fosse così grande se sembrava così piccolo, la
matematica, una sua piccola passione.

Iniziò dopo poco a chiedermi se davvero avremmo giocato due
partite contro di loro, e se pensassi avremmo vinto, stavolta.



                                   51
Sapeva di incontrare avversari forti e motivati a mantenere la
supremazia quanto noi lo eravamo a cercare di ribaltare la tendenza
storica.
Parlava un po’ a testa bassa, come spesso faceva quando dentro di se
pensava di voler dire qualcosa d’importante, ed era così alla ricerca
delle parole giuste per propormi i suoi ragionamenti.
Non era timido, affatto, ma dotato di quella sensibilità che al
bambino fa rendere consueto pensare e vedere più lontano di un
adulto, non possedendo del tutto i termini per spiegare.
Sapevo che anche per lui era importante quel momento di confronto,
noi due soli nel traffico, la radio in sottofondo, parole da scambiarci
tra uomini e qualche sorriso per non pensare troppo alla gara che
andavamo ad affrontare.
Lui ha scelto il ruolo di portiere, ed è questo l’inizio del secondo
anno che copre questo ruolo, il terzo anno da che iniziò a giocare al
calcio, senza realmente essersi mai troppo interessato di pallone e
calciatori, fatta salva qualche sera passata allo stadio a vedere
giocare il nostro vecchio Genoa, passione-malatia-maledizione che
ho trasmesso ai miei figli, e dalla quale non si può guarire.
Non credo sia destinato a divenire un fuoriclasse nel calcio, non
m’interessa molto, non penso di crescere in casa campioni, come
qualche, troppi, genitori restano fin troppo a lungo convinti, fino
alla delusione dell’arrivo dell’adolescenza, quando cambiano
radicalmente gli interessi, e spesso al pallone si riserva ormai
soltanto una parte marginale della propria esistenza.
Quello che reputo importante è che i miei bambini possano crescere
educati anche allo sport, il calcio in questo caso, ma non soltanto,
perché le regole e l’educazione sportiva prendano una parte
importante nel loro essere uomini di domani, orfani di Peter Pan ma
probabilmente altrettanto nostalgici di me della scintillante fantasia
di un mondo di immaginazione.
Lui, ha spesso affermato che da grande però, non vorrà mai fare il
calciatore, preferisce occuparsi d’altre cose più interessanti, non so
come dargli torto, e anche se stuzzicandolo con la domanda di cosa



                                  52
avrebbe pensato se un giorno fosse potuto andare a giocare proprio
nel suo Genoa, gli avevo una volta visto brillare gli occhi per un
attimo, pensavo che se fosse diventato un discreto portiere, si
sarebbe saputo divertire in qualche piccola squadra o con gli amici
delle partitelle serali.

Bene, il discorso andrebbe anche per molti altri che ho avuto
occasione di vedere, non solo nelle nostre squadre, ma anche in tante
altre di tante altre società.
In tre anni ho visto soltanto due, forse tre bambini, che ora, e
sottolineo ora, mostravano i segni di una bella predisposizione al
calcio, movenze da futuri campioni, numeri da lasciare spalancati gli
occhi.
Due o tre bambini tra centinaia in qualche decina di squadre di
ragazzini di tutta la città.
Probabilmente quegli stessi bambini non avranno mai la
soddisfazione, se così si può considerare, di calcare grandi campi,
ma resteranno nell’oblio della periferia sportiva, o rinunceranno una
volta cresciuti, tornando magari a calpestare un’area di rigore solo
quando avranno dei figli da accompagnare su di un campo di calcio.
Sento spesso affermare che sono i genitori la rovina del calcio
giovanile.
Anche se a volte questa idea l’ho condivisa per le tante scene stupide
che ho visto ai margini dei campetti, credo sia in parte ingeneroso ed
in parte eccessivo non considerare naturale l’entusiasmo provato da
chi vede i propri bambini giocarsi una partita, un campionato, un
risultato, comunque in una qualsiasi competizione.
Eccessivo e folle senz’altro è non capire che di fronte ai propri figli
ci sono altri bambini come loro, a volte seduti allo stesso banco
della stessa scuola per molte ore al giorno, anche amici fuori da quel
campo, da quel breve momento, in cui avversari e mai nemici si
confrontano in un gioco.




                                  53
Ho visto un padre mortificare senza vergogna un bambino
avversario fino a farlo piangere ed altri irretiti dall’agonismo, dare in
escandescenze per un rigore negato a loro favore mentre vincevano
dodici a zero.
Ho visto insultare e minacciare con astio un giovane arbitro smarrito
nel proprio ruolo d’educatore e giudice.
Ho visto anche madri trasfigurare urlando al proprio bebè di falciare
l’avversario e pur silenziose, pensare troppo sonoramente per non
udirle, se fosse possibile spezzargli una gamba: qualche altra madre
in quello stesso momento ed altrettanto rumorosamente pensava lo
stesso a parti invertite.
Per loro forse la punizione più giusta sarà ciò che penserà di queste
esaltazioni e di loro stessi, genitori, il loro figlio, quando se non
adesso, ma più cresciuto, si troverà a cercare un modello da imitare
nella sua vita d’adulto.

Chissà perché, ma qui mi ritorna in mente un vecchio film con un
magnifico Vittorio Gasmann, il film era “I mostri” credo, e
Gasmann impersonava un padre impegnato a mostrare la vita al
figlio, facendo di tutto per insegnargli il peggio ai danni del
prossimo, con la strafottenza e la presunzione del furbo io e scemi
tutti gli altri.
Il film finiva con la fotografia di quel padre, ammazzato per quattro
soldi dal figlio, sulla prima pagina di un giornale.

Mio figlio quella sera aveva voglia di giocare ed aveva voglia di
vincere la sua partita personale.
Avere in squadra ben quattro portieri voleva dire giocarsi una
discreta competizione tra loro, per chi avrebbe ricoperto un ruolo di
primo piano in quella stagione.
D’altra parte, se pure i bambini sapevano che tutti avrebbero giocato
la loro fetta di campionato, era evidente in ognuno di loro la voglia
di primeggiare agli occhi dell’allenatore e dei compagni, stabilire




                                   54
silenziosamente una sorta di graduatoria tra loro dove ognuno dei
quattro cercava di arrivare in cima.
Così ogni volta dovevo cercare di spiegare che un gol in più o in
meno preso rispetto al compagno di turno, non era così importante e
determinante, e che d’altro canto, le partite si vincono e si perdono
insieme a tutta la squadra.
Meriti e colpe si possono sempre suddividere con i compagni, con
gli allenatori e con i dirigenti, mai sono da riferire ad un solo
giocatore per quanto determinante nel singolo episodio.
Cercai di fargli capire ancora una volta che nel calcio gioca tutta una
squadra, e che nella squadra contano addirittura anche coloro che
non giocano una partita.
Arrivare primi od ultimi in un campionato, coinvolge dal primo
all’ultimo giocatore della rosa, per quanto bene o male quello stesso
giocatore possa aver fatto durante tutto l’anno, e feci l’esempio di
un giocatore in serie A, che appena arrivato in una nuova squadra si
infortuna seriamente, tanto da non poter giocare per tutta la stagione.
Ebbene, dissi, anche lui darà comunque il suo contributo a ciò che
saprà fare la squadra, e sarà un contributo anche in incoraggiamento
ed impegno nel recupero dall’infortunio.
Se la squadra vincerà lo scudetto, o se sarà retrocessa, sarà anche per
merito o demerito suo, nonostante il fatto di non aver giocato
magari neppure un minuto in tutto l’anno.

Quell’anno avevamo in rosa ben sedici bambini, alcuni dei quali
appena arrivati e magari più digiuni dello stare in campo rispetto ai
compagni che già giocavano da noi da almeno due anni.
Iniziava ad essere un discreto numero, nonostante fossero troppo
pochi perché consentano ancora di preparare una squadra per
l’esordio ad undici giocatori, a cui, però mancavano ancora un paio
di stagioni, e ci sarebbe stato tempo per portare la rosa ad almeno
una ventina di bambini prima di allora.
Ognuno di quei sedici avrebbe disputato le sue partite, magari
qualcuno più bravo, n’avrebbe fatte più di altri, ma tutti avrebbero



                                  55
avuto il loro spazio e la loro soddisfazione, anche perché, se
l’allenamento è importante ed è importante parteciparvi con
impegno, è la partita della domenica quella che maggiormente
stimola la voglia di fare dei ragazzi, e tutti vogliono esservi
protagonisti.
Ed è anche il bello di una realtà di quartiere come nel caso della
nostra società, che consente a tutti i ragazzi, indipendentemente dalla
loro forza e del loro talento nel contesto assoluto di una stagione, di
esprimersi comunque, grosso modo con gli stesso tempi di impiego
in campo di ogni altro compagno anche più bravo.
Questo consente al giocatore meno dotato o comunque più in
ritardo nell’apprendimento del suo ruolo, di guadagnare fiducia in se
stesso mettendo in pratica quanto appreso negli allenamenti, ed allo
stesso tempo costringe anche i migliori a non ritenersi
indispensabilmente superiori agli altri, ed a moltiplicare gli sforzi di
apprendimento e miglioramento per non perdere il passo rispetto ai
compagni.
Fiducia e stimolo mi piacciono quali criteri di educazione ad uno
sport di squadra come il calcio.
Occorre indubbiamente anche un grosso sforzo di comunicazione tra
le varie parti della squadra, ed un’identità d’obiettivi conclamata, in
particolare tra la dirigenza sportiva e gli istruttori, perché non
vadano dispersi in inutili e dannosi conflitti interni i vantaggi e gli
intenti positivi di questa filosofia di approccio al calcio giovanile.

Mentre parlavo con mio figlio, scorrevo mentalmente nomi e ruoli
dei suoi compagni, come avere davanti un album di figurine, di
quelli tutti pieni di calciatori famosi, con l’immagine della perfetta
rovesciata in copertina, con la grafica del pallone che vola verso la
porta, con tutti i colori del mondo, i tabellini, le brevi biografie, gli
scudetti, coppe, trofei e storia dei campionati.
Ma dove i calciatori hanno tutti il sorriso impenitente di un bambino
dagli occhi grandi e poco più di dieci anni.




                                   56
Dove le squadre in quelle immagini dalla posa studiata e consueta,
dietro in piedi a braccia conserte, davanti accosciati e tutti con un
sorriso sicuro e fiero, hanno invece le pose un po’ scomposte ed
irridenti di una banda di scalmanati attorno a qualche adulto che
s’intuisce più spaesato di loro.
In ognuno di quei calciatori, con tante diverse sfumature, potevi
trovare quell’aria un po’ canzonatoria di chi ti guarda lato obiettivo
della macchina fotografica, e sa di avere il mondo in tasca e la vita
davanti.
Ecco, mi piacerebbe presentarveli tutti uno per uno perché più avanti
possiate riconoscerli quando anche senza nominarli, ve li troverete
tra le righe ad essere protagonisti di un azione, in quelle due partite
raccontate in questa storia.
Non saranno queste, fotografie fredde delle persone che
incontreremo più avanti.
Andando a rileggere quanto raccontato in precedenza su parecchi di
loro, già protagonisti dei miei ricordi messi su carta, ne riconosco
alcuni tratti, ma allo stesso tempo mi rendo conto di quanto loro
siano cambiati e cresciuti, tanto da essere spesso bambini
completamente diversi da quelli che descrivevo nemmeno due anni
fa.
Per alcuni sono cambiati i ruoli, per altri il carattere ha subito quelle
lievi modifiche che nel corso degli anni li porterà ad essere uomini
veri, e sin da ora riesco a vederne i tratti di adulti, ognuno con le sue
qualità e di suoi difetti, ma ognuno devo dire, ragazzo e uomo leale
ed aperto, così come oggi bambino leale, allegro e giocoso.
Certo li ho visti crescere diventando ragazzini, mentre prima avevi
davanti bambini che ti facevano quasi tenerezza a vederli correre
dietro a quel pallone sempre troppo grande per loro, e sempre troppo
difficile da controllare come fosse una zanzara impazzita.
Inoltre, ci sono state occasioni, come al raduno dell’anno scorso,
quando a rivederli dopo soli tre mesi, alla ripresa della stagione, mi
sembrò di avere davanti altre persone, tanti erano cresciuti in fretta,
tutti: avendoli lasciati a giugno, me li ritrovavo a settembre che



                                   57
avevano quasi la parvenza di veri piccoli calciatori, e già le loro
maglie, non erano più un assurdo saio informe, ma li ricoprivano
come vere divise da gioco, pur sul fisico spesso ben poco massiccio
di bambini da scuola elementare.
Mi piacerebbe presentarvi tutta la banda di quest’anno, protagonista
di questa storia di un giorno, che potrebbe tradursi come al solito in
storia di una stagione intera.
Ci sono i ragazzi che formano il nucleo storico della squadra, quelli
che da ormai tre anni vestono la nostra maglia e sudano sul nostro
campo, e ci sono i nuovi compagni, i ragazzi arrivati alla fine della
scorsa stagione, od all’inizio di questa presente.
Qualcuno si riconoscerà certamente e forse penserà non appropriato
ciò che legge di se stesso, ma di ognuno credo sia giusto che io dia
l’immagine che porto con me, a volte certo suffragata soltanto dalle
sfumature che ho vissuto in questi anni o mesi in loro compagnia, a
volte talmente distante dalla realtà perché volutamente idealizzata da
rendere il personaggio diverso dal vero e fine alla storia: per tutti,
indistintamente, un grande affetto.




                                  58
59
Capitolo IV
    I vecchi guerrieri




      “…tirai una freccia in cielo per farlo respirare
      Tirai una freccia al vento per farlo sanguinare
La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek…”

                     Fabrizio de Andrè (Sand Creek)




              60
Ettore era ancora uno dei quattro portieri della squadra, in seguito
avrebbe deciso di cambiare ruolo, forse curioso di provare l’altro
lato del pallone, ma sapeva sempre essere al suo posto, spirito
dall’apparenza indolente, ed invece sensibile a tutto ciò che lo
circondava, soffriva della sopraggiunta concorrenza, ma ne faceva
un’arma a suo favore nell’impegno e nella serietà del ruolo.
Da sempre era “il portiere”, e tutti ricordavamo che nel primo anno,
si era in pratica imposto di non ammalarsi mai, nemmeno un
raffreddore, nemmeno una leggera influenza, per essere sempre tra i
pali, ed era riuscito a non saltare nemmeno una partita,
consentendoci allora di giocarle tutte, ed anche di vincerne con
qualcuno di quelli che i commentatori amano chiamare i ”veri
interventi prodigiosi”.
Da non crederci, la maglia gialla come un talismano, sempre
indossata su quei lunghi pantaloncini neri, e se un tempo lui ci
spariva quasi dentro, indossava almeno un paio di taglie in più,
adesso era cresciuto abbastanza da riempirla veramente, con il suo
stare tra i pali sempre tranquillo e sicuro pure con quell’aria
ciondolona che ti faceva sempre temere di vederlo sonnecchiare
appoggiato ad uno dei pali.
I suoi guanti, anche quelli gialli, ed anche quelli sempre troppo
grandi per lui, coprivano le mani ben sicure su tutti i palloni, e le
vedevi muoversi quasi a contrappeso del corpo quando l’avversario
lo puntava e lui quasi immobile, preparava il balzo, il tuffo che
arrivava quando non te lo aspettavi più, convinto come ti lasciava
che non si sarebbe mai mosso dalla sua linea di porta, ultima Linea
Maginot.
Quando a volte, specie nella stagione estiva, indossava anche una
“bandana” gialla, al posto del consueto cappellino per ripararsi dal
sole, sembrava voler assomigliare ad un pirata, comandante del suo
vascello, della sua area di rigore.
Non diceva ancora nulla, ma si capiva che pativa dell’arrivo degli
altri portieri, che lo mettevano ora in una stretta competizione, dopo
due anni da titolare fisso.



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In effetti, al massimo aveva condiviso il ruolo nella stagione
precedente con mio figlio che, però aveva appena iniziato, e da lui
poteva solo imparare.
Tecnicamente Ettore era bravo nella parata sia su tiri da lontano che
nelle uscite, mentre doveva migliorare l'istinto sugli interventi
ravvicinati, e sui calci piazzati, sui corner in particolare.
Anche sui lunghi rinvii dalla difesa avversaria, a volte sembrava
poco reattivo, e specialmente nei primi minuti di gara bisognava
tenerlo bene attento, in quanto mostrava una preoccupante
propensione a non accorgersi della gara iniziata.
Scaldato il motore, rappresentava una buona sicurezza, e sebbene
sempre poco plateale, sapeva effettuare splendide parate salvando la
sua rete quando ormai credevi la frittata fatta.
Qualche mese dopo Ettore avrebbe cambiato ruolo per scelta, e
avrebbe ricominciato a divertirsi come un tempo tra i pali.

Gianni, la mia vecchia roccia della difesa, dopo un periodo un po’
complicato, aveva ripreso fiducia in se stesso, e tornava a dominare
gli avversari con il suo fisico importante, e con i suoi interventi
puntuali, di rado fallosi, affinando sempre più il controllo di palla,
cosa che gli consentiva di recuperare, gestire ed impostare l’azione,
senza buttare via palloni nella nostra metà campo.
A volte ancora in difficoltà quando si trovava davanti avversari più
esili di lui, certi trottolini bassi e veloci che ancora non aveva
imparato a frenare proprio con il fisico superiore, ma che spesso si
lasciava scappare esitando nell’intervento o lasciandogli troppo
spazio di manovra, forse ancora per paura di far male all’altro.
Quando però trovava avversari con cui era necessario mettere la
competizione sul piano della forza, sembrava galvanizzato, e senza
mai una parola di troppo gli si appiccicava addosso inesorabile e
spalla contro spalla, petto contro schiena, faceva valere la sua forza
scatenando spesso gli applausi del pubblico e l’ammirazione dei
compagni.




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Se, come dicevo, nella stagione precedente aveva dato qualche segno
di stanchezza, arrivando perfino a dirmi che avrebbe voluto cambiare
sport, era comprensibile, visto che forse si accorgeva lui stesso della
sua difficoltà a fronte di piccole belve scattanti, lui che della potenza
era il re, avrebbe forse dovuto sacrificare tra qualche anno la gioia
della forchetta, per le gioie del calcio, arrivare a quella condizione
ideale dove qualche piccolo sacrificio avrebbe potuto portarlo, ma a
dieci anni fa ridere pensare di dire a un bambino di mangiare con
moderazione, e mi viene in mente quando da bambino io stesso
venivo chiamato “forchetta”.
Già invece me lo vedevo tra altri dieci anni, anche meno, in forma e
possente torreggiare al centro della difesa della nostra prima
squadra.
Un giorno che sapevo di trovarlo particolarmente giù di morale, nel
suo periodo grigio, lo presi da parte, lui mise su una faccia da
scocciato come spesso in quei giorni.
Parlando chiaro, gli dissi che la domenica successiva, volevo che
giocasse al meglio, e la finisse di far finta di non interessarsi della
cosa, sapevo che la sua era una mascherata, e che lui a dispetto di un
apparenza perfino irridente nei nostri confronti, pativa molto di
quella situazione.
A chi la voleva raccontare, quella delle arti marziali ed altre
baggianate del genere, quando tutti vedevano gli occhi tristi, quando
usciva dal campo dopo una prova mal riuscita, dopo una partita
giocata in affanno.
Miracolosamente, mi guardò dicendomi solo che per lui andava
bene, e mi avrebbe fatto vedere che ci teneva.
Fece una discreta gara, penalizzata forse ancora un pochino dalla
paura di sbagliare, ma senza mai tirare indietro il piede, senza farsi
prendere in giro dagli avversari, giocando a testa alta, senza pensare
ad altro che alla squadra.

Diego sta diventando sempre di più il giocatore vero che avevo visto
in un bambino di sette anni.



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Non ha paura di nulla, combatte come un leone inferocito, ha
settemila polmoni e sta imparando a migliorare tutte le qualità che
già possiede naturalmente.
Il coraggio no, quello non ha bisogno di migliorarlo, anzi, volesse,
potrebbe venderne a qualche avversario che a ben vederlo spesso se
ne intimorisce.
Nel colpo di testa diventa padrone assoluto della sua area di rigore e
del centrocampo sui rinvii del portiere avversario, trovando sempre
la posizione giusta per far ripartire la propria squadra, sfruttando il
contropiede immediato, sfruttando la sua velocità e quella di
qualche compagno sulle ali, o il dribbling devastante di altri.
Sorridente e scherzoso, in allenamento come in partita è
concentratissimo ed impegnato.
Sono ormai un ricordo lontano i ripetuti richiami a mantenere il
corpo ben posizionato nell’atto di calciare la palla, e spesso sfrutta
la sua potenza di tiro, quando si trova sulla trequarti o al limite
dell’area, dopo una delle sue discese devastanti.
Nella struttura fisica è quanto di più simile ad un vero giocatore si
possa vedere sui campi delle giovanili alla loro età, tralasciando
certe piccole grandi incongruenze che donano un età anagrafica
fittizia a giovanotti cresciutelli.
A dispetto di un sorriso aperto e sincero, di una voglia incredibile di
scherzare, lui sa immedesimarsi fortemente nella gara, dimenticando
tutto e tutti fuori del campo, per trasformarsi nel vero condottiero
della sua squadra, e dove c’è da lottare, dove c’è da soffrire, correre
e vincere i duelli, state sicuri che troverete lui, pronto a battersi su
ogni pallone sino a rubarlo agli avversari travolgendoli con la sua
forza cinetica ed il suo coraggio.
Spesso paga negli ultimi minuti delle partite, l’inevitabile stanchezza
per aver dato tutto, proprio tutto, anche nei momenti in cui la gara
potrebbe essere gestita tatticamente in modo più tranquillo, e questo,
può ancora essere un difetto da eliminare, migliorando però non
tanto il gioco individuale, quanto la capacità di squadra di
organizzarsi al meglio per non buttar via energie preziose, quando



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gli altri magari ti aspettano al varco per colpirti quando proprio non
ce la fai più.
A quest’età diventa difficile farti capire di risparmiare le energie, di
dosarle al meglio per arrivare in fondo senza essere completamente
sfiatato.
In effetti, spesso abbiamo pagato l’irruenza sua e di qualche altro
giocatore, proprio negli ultimi minuti, buttando via occasioni d’oro
e lasciandoci battere da avversari più freschi e sornioni, quasi mai
troppo superiori a noi per forza tecnica.
Diego diventerà probabilmente il vero leader della squadra, se saprà
gestirsi al meglio, senza pensare di essere un campione, ma vivendo
al meglio le capacità naturali che ha, e migliorando quelle acquisite
con l’allenamento.
Per ora resta incredibile vederlo volare da una parte all’altra del
campo come un folletto onnipresente in ogni zona, il viso rosso
della corsa e della gioia.

Simone e Roberto sono i due gemelli della squadra.
Non nel senso di gemelli del gol, anche se spesso ci hanno abituato a
gioire delle loro prodezze e delle loro reti, ma proprio nel senso che
sono fratelli e gemelli, quasi identici, al punto che mi viene in mente
un buffo aneddoto da raccontarvi.
Quando ad inizio della scorsa stagione andai presso l’ente di
promozione del campionato che dovevamo affrontare, la UISP per il
Torneo Tanganelli, per richiedere i cartellini di tesseramento per la
squadra, l’impiegato un po’ smarrito si rigirava tra le mani le due
coppie di fotografie dei gemelli, sapete, le tipiche foto formato
tessera, chiaramente distinguibili per me che conoscevo i bambini,
certo meno per lui che deve aver pensato ad uno scherzo.
Dopo parecchi secondi d’indecisione, ecco che mi dice: <<vabbè,
una o l’altra tanto fa lo stesso…>> no, gli dico io che non fa lo
stesso, mica è un’offerta speciale prendi due paghi uno, sono
persone, due, fratelli, ma mica la stessa persona, e intanto gli
riordinavo le foto appaiandole, Simone da una parte e Roberto



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dall’altra, ma non è che lo vidi troppo convinto ed ha continuato a
guardare le fotografie un bel po’ prima di passare alla prossima,
sempre continuando a brontolare da solo e senza guardarmi
ridacchiare della sua perplessità, del resto abbastanza legittima e
giustificata.
Giocano in ruoli molte volte diversi, perché comunque diverse sono
le loro attitudini, anche se entrambi corrono da matti, sulle loro leve
all’apparenza esili, ma tutte nervi e velocità, potenza ed agilità.
Tagliano il campo forsennati ma pronti al numero incredibile, al
passaggio smarcante, o al tiro improvviso che sorprenda il portiere
avversario.
Se non eccedessero a volte in qualche colpo di tacco da infarto
magari al limite della nostra area, sarebbero perfetti, tutto cuore
anche loro, e questa devo dire che è senz’altro una delle
caratteristiche di tutta la squadra.
Lo scorso anno i ragazzi spesso si facevano prendere dallo sconforto
appena sotto di un gol, con il risultato di perdere partite che
potevano anche essere ribaltate, e tornare in campo la volta
successiva con la certezza di buscarle, prendendo di solito reti nei
primissimi minuti di gara.
I gemelli si cercano in campo, si trovano spesso, realizzando anche
azioni bellissime, e proprio gli scambi tra loro rappresentano spesso
il fulcro della nostra manovra, chiudendo il triangolo con un altro
protagonista che vedremo più avanti.
Crescendo, anche loro hanno, entrambi, la buona probabilità di
diventare davvero bravi, e spero che la loro abilità rimanga a lungo
al servizio di questa squadra, dei colori che hanno dimostrato
sempre d’amare, portandoli addosso non solo in occasione delle
partite o degli allenamenti ma stretti al cuore come cosa propria.

Mattia come vi dicevo, è mio figlio, anche lui portiere, dopo un
primo anno d’esperienza a ricoprire diversi ruoli, dall’attaccante al
difensore, tutto sommato senza grandi risultati, mentre in testa aveva
soltanto di potersi finalmente infilare i guanti da estremo difensore,



                                  66
e riuscì a farlo dal secondo anno, quando il preparatore dei nostri
portieri, accettò di metterlo alla prova una sera, con esiti abbastanza
soddisfacenti da fargli dire che pure con molto impegno necessario,
con l’assiduità agli allenamenti e la passione, il bambino poteva
provare a diventare ciò che più gli piaceva.
Il giorno dopo ebbe la sua prima maglia da portiere: scelse un
magnifico arancio e nero, il numero uno sulla schiena.
Lo penalizzava forse un pochino la statura non ancora altissima,
confrontandola con quella d’altri piccoli portieri della sua stessa età,
e una certa propensione alla svagatezza, alla gioiosa giocosità, che,
in particolare durante gli allenamenti, lo portava a distrarsi
facilmente, impegnato magari di più a sostenere uno scherzo con
qualche compagno pure giocherellone, che a guardar palla.
Per contro, era tutto preso dal ruolo non appena dall’allenamento si
passava alla competizione, e così, in partita, sfoggiava spesso una
concentrazione da fare invidia, ed assumeva un’aria tutta seria
persino buffa a vedersi.
Corrucciato anche, quando per lui il sorriso era il primo gesto di
mattino al risveglio, e l’ultimo la sera prima di addormentarsi.
Simpaticamente, il suo preparatore, lo sfida prima della partita con
una scommessa, sempre uguale, ma che ha sortito buoni effetti,
dicendogli che non riuscirà a rinviare il pallone oltre la metà campo,
e lui gli sorride ma ha imparato così a sferrare certi calcioni alla
palla da vincere sempre questa sfida, e nello stesso tempo
migliorando le sue capacità in un ruolo che decisamente è
complicato e ricco di responsabilità.
Il ruolo del portiere richiede, infatti, una maturazione più lunga
rispetto ad altri ruoli, oltre che una struttura fisica appropriata e un
lavoro in allenamento molto differenziato.
Sebbene mi sia difficile ora qui descriverne gli intendimenti e la gran
voglia di diventare davvero bravo, che lui provava, non posso fare
altro che ricordare la gran prova di ponderatezza che mi diede
durante un partita della scorsa stagione, quando, mentre eravamo
sotto di un gol e dopo l’intervallo sarebbe toccato a lui entrare al



                                  67
posto di Ettore, per l’ultima e decisiva frazione di gioco, riflettendo
sulla sua poca esperienza, andò diritto dal Mister per dirgli che forse
sarebbe stato meglio non far uscire Ettore e tentare di pareggiare la
partita, e che a lui non sarebbe importato di non giocare, se per la
squadra fosse stato importante.
Il mister lo guardò come ad un marziano e dicendogli che non se ne
parlava proprio lo spedì subito in campo, dove lui sfoggiò imbattuto
una prestazione memorabile per poi correre a farsi intervistare dal
giornalista presente per il giornalino sportivo del calcio giovanile,
tutto orgoglioso nonostante la sconfitta di misura, per essere
riuscito a non prendere altri goal in quella che era una delle sue
primissime uscite come portiere.
Conoscendo la sua determinazione nel sostenere il ruolo che ha
scelto, spero che crescendo un pochino capisca inevitabilmente che il
miglioramento tecnico è frutto non soltanto dell’impegno in partita.
Il miglioramento personale in uno sport, qualsiasi esso sia, è dovuto
soprattutto all’apprendimento continuo ed alla serietà sul campo di
allenamento.
C’è un patto silenzioso tra noi due, e devo assicurare che negli
ultimi mesi lo sta mantenendo davvero, togliendosi qualche bella
soddisfazione anche a fronte di quanti hanno avuto dubbi sul suo
attaccamento al ruolo.

Paola è la nostra piccola principessa, ma guai a pensare che sia una
mascotte per la squadra.
Lei della squadra fa parte ormai da tre anni, e nulla al mondo
potrebbe distoglierla dai suoi compagni, dai suoi amici.
L’impegno nel migliorare e nell’apprendere che lei ha dimostrato in
questi anni, è semplicemente incredibile, ed, infatti, i progressi che
ha fatto nel gioco sono il risultato della sua grandissima serietà e
forza di volontà.
Se qualche volta ancora, pur molto meno che in passato, risulta
frenata da una predisposizione atletica non eccellente, che sta
affinando crescendo, nello sviluppo muscolare che la penalizza nella



                                  68
corsa, ha pur fatto passi giganteschi nel migliorare la tecnica di
gioco e l’intelligenza tattica.
L’allenamento continuo e la maturazione fisica più precoce rispetto
ai compagni maschi l’aiutano nel progresso atletico, mentre una
spiccata intelligenza le facilita l’apprendimento.
Parecchi suoi compagni faticano a comprendere meccanismi tattici,
sia pure semplici quanto lo possono essere quelli insegnati ai
bambini, mentre per lei sembra naturale imporre il gioco con un
tocco delicato e preciso.
E’ stupefacente vederla spalle alla porta distribuire ai compagni
palloni su palloni, con un tempismo ed una precisione incredibili,
oppure andare in pressing su avversari anche a volte ben più grandi e
grossi di lei, ma ostinatamente rincorrerli ed ostacolarli sino a
prendere palla e favorire un nostro contropiede spesso messo a
realizzazione da un suo lancio preciso.
Più di una volta inoltre, si è fatta trovare pronta in azioni d’attacco
sottoporta, e puntuale, con un colpo di testa o un calcio di giro ben
fatto, ha risolto in gol meravigliosamente.
Ricordo un episodio della fine della scorsa stagione, quando
arrivammo alla fine di una delle partite del Trofeo Aldo Gastaldi, sul
nostro campo, ed erano previsti i calci di rigore per assegnare un
ulteriore punto in classifica.
Quando il portiere avversario, che già aveva beccato durante la
partita, si trovò davanti lei, pronta sul dischetto, si voltò verso i suoi
compagni di squadra in maglia rossa, e abbastanza
intempestivamente sghignazzando se ne uscì con un commento a
voce alta del tipo: <<adesso figuriamoci se mi faccio fare gol da una
femmina…>>
Certo mancava solo la promessa di appendere gli scarpini ed i guanti
al chiodo prematuramente nell’evenienza avversa.
Senza dire una sola parola, ma con un malizioso sorrisetto sulle
labbra, Paola prese una brevissima rincorsa, e, lasciando il poverino
piantato per terra, piazzò il pallone esattamente all’incrocio dei pali,




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per poi voltarsi ed andarsene sommersa dall’abbraccio e dalle urla di
tutti i compagni.
Una bella lezione che credo quel ragazzo avrà imparato.

Davide era il mio capitano di due stagioni fa e di quella dopo,
probabilmente di sempre.
Davide rappresentava ciò che ci si aspettava da lui, e lo sapeva.
Se penso ad un capitano per la mia squadra, vedo Davide con la
fascia al braccio, e quella fascia con la “C” scritta sopra, l’avevo
acquistata io gialla e fiammante il giorno prima di una famosa
partita di due stagioni fa, proprio per darla a lui, come feci poi, soli
nello spogliatoio, chiedendogli solo se sapeva perché quella fascia
volevo la portasse lui in quell’ultima partita.
Mi ricompensò, come sapete, con una superba e coraggiosa vittoria,
insieme a tutta la squadra.
Migliorata la tecnica e la fantasia, più deciso nei confronti a
centrocampo, dove spesso aspettava l’avversario per ingaggiare
duelli fatti di finte ed eleganza nei movimenti, mai troppo frenetici
ma precisi e fluidi, con i quali lo lasciava sul posto o lo costringeva
al fallo inevitabile per non lasciarlo andare in porta, pronto a
scoccare con il suo sinistro il tiro vincente.
Doveva costruire ancora un carattere più sicuro dei propri mezzi,
infatti, a volte lo frenava una certa disistima delle possibilità sue e
della squadra.
A volte si diceva preoccupato, prima di qualche partita importante
che temeva di perdere, di non fare bella figura, e non era facile
cercare di caricarlo a dovere.
Lui, era pronto ad abbassare gli occhi davanti ad un
incoraggiamento, come a pensare di non meritarselo, mentre sono
sicuro vorrebbe credere di più e questo gli farebbe fare un altro
enorme salto di qualità, anche così giovane.
Sta cercando di migliorare il controllo ed il tiro anche con il piede
destro, e l’impegno che ci mette darà sicuramente buoni frutti, anche
se è con il sinistro che si esprime al meglio, tanto che qualche volta



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L’arbitro improvvisato

  • 1. 1
  • 2. Fabio G. Mori L’arbitro improvvisato nuovaoregina.net 2
  • 3. 3
  • 5. 5
  • 6. L’ARBITRO IMPROVVISATO Un racconto e frames d’immaginazione Situazioni e personaggi di questo racconto sono inventati, e non deve intendersi alcun riferimento a nomi, fatti e persone reali. Il racconto tuttavia è basato sui ricordi e gli avvenimenti legati alla vera squadra 1996 e chi potrà riconoscere se stesso, altre persone, fatti o luoghi relativi a quanto conosciuto, potrà considerare che quanto scritto dall’autore, è una rappresentazione romanzata della realtà. Il racconto è distribuito gratuitamente per la prima edizione, su supporto informatico quale CD ROM, per numero duecento copie numerate a mano, e pubblicato on line su www.nuovaoregina.net grazie alla società sportiva A.S.D. Nuova Oregina Genova che ne detiene tutti i diritti, fatti salvi copyright di terze fonti citate nell'indice dei frames utilizzati in apertura di capitolo, e sarà disponibile in formato PDF, per quanti avranno voglia e piacere di leggerlo, pur sapendo che non ha alcuna pretesa letteraria, ma semplicemente di diario, testimonianza e ricordo di una stagione insieme alle Squadre del 1996 e del 1997/98. Finito di scrivere e pubblicato settembre 2006 6
  • 7. 7 Indice 10 Introduzione 16 Presentazione di Attilio Roncallo frame da O Capitano! Mio Capitano! (Walt Whitman) 24 Psichedelia di un Amore 28 Camminando sul margine 30 Capitolo I frame da The Wall (Pink Floyd) La pioggia 38 Capitolo II frame da The best of times (Styx) I giorni migliori 46 Capitolo III frame da Forse non lo sai... (Roberto Vecchioni) frame da Father and Son (Cat Stevens) - originale - traduzione Tra noi 60 Capitolo IV frame da Sand Creek ( Fabrizio De André) I vecchi guerrieri 74 Capitolo V frame da Ala Bianca (Nomadi) …Ed i nuovi guerrieri 7
  • 8. 90 Capitolo VI frame da Goethe Andiamo in campo 100 Capitolo VII frame da Heroes (David Bowie) L’arbitro improvvisato 120 Capitolo VIII frame da Comes a time (C.S.N. &Y.) Fischio finale 126 Capitolo IX frame da La canzone del Maggio (Fabrizio De André) frame da Blowing in the wind (Bob Dylan) Il planetario della bambola russa 134 Capitolo X frame da Selling England by the pound (Genesis) I denti del Lupo 142 Capitolo XI frame da un detto ebraico I dimenticati 148 Capitolo XII frame da Il mago dei sogni (Catherine Webb) Il Mago dei Sogni 152 Risposte 154 A luci spente 8
  • 9. 9
  • 10. INTRODUZIONE Siamo alla seconda puntata. L’anno scorso scrissi un breve racconto dedicato alla Squadra ’96 ed in particolare ad una bella vittoria giunta alla fine di una stagione travagliata per risultati che non avevano premiato l’impegno dei ragazzi. Questo secondo racconto ne diventa sostanzialmente il seguito obbligato, un anno di distanza dal primo racconto, con in più un’esperienza accresciuta, con protagonisti vecchi e nuovi, e da parte mia con qualche rammarico per non aver potuto seguire sempre la squadra come avrei voluto. Qualcuno potrà rimproverarmi per questo e non posso fare altro per ora che dispiacermene sinceramente e con questo impegnarmi, se la società vorrà rinnovare la fiducia nella mia mansione, a far sì che con la prossima stagione ritorni ed anzi sia accresciuto il rapporto di stima e collaborazione con le famiglie dei ragazzi, che così tanto bene hanno fatto in questi anni di intenti comuni e di passione per quanto di sano rimane nel gioco che una volta volevamo definire come il più bello del mondo. I ragazzi quest’anno mi sono mancati molto, e le poche volte che ho potuto essere al loro fianco durante le partite, sono state per me fonte di molte riflessioni, dove i problemi, con un coinvolgimento a livello personale forse non da tutti sono stati notati, ma credo giusto ritenere facciano parte della naturale evoluzione di una squadra, con 10
  • 11. la relativa importanza che possono rivestire per ognuno di noi qualora interessato direttamente o qualora investito da un ruolo di testimone inconsapevole. Il ruolo doppio, se non triplo che ci troviamo spesso a sostenere in alcuni momenti della vita sociale non agevola sicuramente le facili scelte e la semplice convivenza. Scrivere questo racconto mi è costato in termini di fatica e tempo più impegno del precedente. Questo nonostante il risultato siano il centinaio di pagine che potrete leggere, unitamente ad un paio d’esercizi in versi che aprono e chiudono la storia. Si tratta quindi di un racconto breve, ma ognuna di queste pagine ha comportato maggiori riflessioni, ripensamenti e tagli successivi alla prima stesura. La scrittura del racconto è iniziata intorno alla fine di novembre ed è terminata in concreto, nove mesi dopo, per quello che a volte viene fatto assomigliare ad un parto, e pur essendo questa una definizione veramente eccessiva, è quanto più vicino è immaginabile per la difficoltà a tirar fuori da dentro qualcosa che non è solo un opera di fantasia, ma racchiude anche un po’ di chi scrive e di coloro che lo circondano. Certo immagino più agevole scrivere un trattato di fisica quantistica piuttosto che raccontare la storia di sedici bambini che giocano a calcio, ognuno dei quali per me rappresenta una persona vera ed esistente e non un personaggio tracciato da una matita colorata. Tra le righe del racconto vero e proprio ci saranno frequentemente accenni e considerazioni che se prendono spunto dalla cronaca pur semi immaginaria, esulano però in parte dalla narrazione, per affrontare alcuni temi che ho sempre considerato importanti. Alcuni concetti, suggeriranno forse quanto espresso già né “La squadra del 1996”, il precedente racconto, altri sono frutto delle esperienze incontrate nel corso di questi anni, all’interno della società, del mondo del calcio giovanile, anni comunque molto belli se pure non semplici in particolare nella gestione delle risorse umane. 11
  • 12. Il lettore, che già ringrazio per voler sopportare questa mia piccola passione, che propongo, senza alcuna presunzione di avere la verità in tasca e tanto meno di voler essere qualcosa di più di un semplice esercizio di scrittura, vorrà pazientemente soffermarsi anche su quelle divagazioni, e potrà magari condividerle o rifiutarle, o ancora meglio e più semplicemente discuterle insieme. A novembre la squadra ’96 giocò due amichevoli in una sera contro la Polisportiva Mandraccio, amici ed avversari di sempre, e sempre superiori a noi per risultati. Quella sera per la prima volta m’improvvisai arbitro delle due partite, e mister in assenza degli allenatori titolari. Era l’inizio vero della stagione, poiché la settimana successiva sarebbe iniziato il campionato. Ai ragazzi sentii di dover dire soltanto di giocare come sapevo avrebbero saputo fare, e così, in mezzo al campo con loro, pure con un fischietto in mano, ebbi in regalo due delle più belle partite in assoluto per carattere, grinta, gioco e solidarietà tra compagni. Perdemmo uno a zero entrambe le partite, ma di nuovo, come dopo quella partita raccontata un anno fa, ebbi la certezza uscendo dal campo che questi ragazzi avrebbero saputo darci molto, se molto avessimo saputo dare loro in termini di insegnamento e fiducia. Alla fine della stagione ci troveremo tra le mani i risultati sempre e in ogni caso buoni del lavoro di tutti. Indipendentemente da quanto ottenuto la domenica sui campi di gioco, sarà importante, infatti, rendere prezioso tesoro d’esperienza positiva quanto avremo tutti saputo imparare, gli uni dagli altri: i bambini dagli allenatori e gli allenatori e la dirigenza dai bambini, così come i genitori e le famiglie dai loro figli e compagni. Anche loro comunque, con il loro impegno ed i loro sacrifici, ci insegnano giorno per giorno qualcosa di più sull’essere ragazzi, se ce lo fossimo dimenticati, e su come lavorare ancora meglio per commettere meno errori e non ripetere più quelli già commessi. Spesso la semplicità ed insieme la profondità del ragionamento di un ragazzo di appena dieci, undici anni, scontra e sconfigge 12
  • 13. concretamente il contorto e prolisso pensare, proprio del nostro mondo d’adulti. Questo ci fa rendere conto di quanto possiamo essere distanti dai nostri figli, pur amandoli e pur essendo disposti a nostra volta ad innumerevoli sacrifici per quello che ci ostiniamo a considerare il loro bene esclusivo, e che a volte, in particolare nella scelta e nella prosecuzione di un’attività ludico-sportiva, richiama soltanto le nostre pur legittime, ma ormai distanti aspirazioni giovanili. In ogni caso non conta molto ciò che faranno o ciò che saranno i bambini di oggi, nel mondo del calcio. Spero per loro rimanga almeno un ricordo piacevole, ed una piccola grande passione da rimettere in campo ogni tanto insieme agli amici, quelli di oggi, o quelli di un domani. Spero che a loro rimanga anche qualcosa dell’affetto che tutti noi abbiamo provato a trasmettere negli anni in cui abbiamo avuto la gioia di seguirli in quest’avventura e che non tutto vada perduto con il tempo. I nostri errori serviranno forse ad evitare i loro, pur con la consapevolezza che dovranno e vorranno sbattere il capo contro molte difficoltà, crescendo giorno dopo giorno in una società che sembra solo apparentemente fatta in funzione dei giovani, ma è regno della superficialità e della preclusione, prima di trovarsi magari, da questa parte della penna, o di un fischietto da arbitro improvvisato. 13
  • 14. Questo racconto è dedicato a Mario Chiaramente, Tullio Gemelli, Attilio Roncallo, Alessio Ottaviani, Leo Torrente, ed a loro, i miei cuccioli di questa stagione: le Squadra 1996 e 1997/98 Nicolò Aiello, Fabio Ambrosino, Simone Benzi, Andrea Bosco, Davide Cervini, Mattia Costa, Gloria Davico, Leonardo Farina, Andrea Guasco, Marco Impollonia, Paolo Lucisano, Simone Morello, Manuel Mori, Daniel Ochoa, Christian e Federico Parissi, Saverio Palma, Alessandro Piovesan, Matteo Pittiglio, Davide Pompa, Francesco Sanguineti, Giorgio Savalli Lopez, Andrea Scarpati, Riccardo Superbi, Luca Tarabotto, Marco Tonnicchi Bonfilio, ai Mister Fabrizio Sgro, Alessio Quadro, Jose Parissi e Guido Baldini. Un ringraziamento particolare a Edu Ambrosino, Nuccio Aiello e Jose Parissi che sono stati coinvolti da me in questa avventura, durata una sera, incredibilmente indelebile nella mia memoria ma credo anche nella loro. Spero non dispiaccia loro di essere citati nel racconto con i loro nomi reali: vorrei fosse un tributo tangibile all’amicizia che ho per loro e per quanto hanno dato pure con le loro energie, a questa squadra meravigliosa. A mia moglie, per il suo incoraggiamento: J <<…ma non hai proprio niente di più utile da fare?...>> J 14
  • 15. 15
  • 17. "O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato la nave ha superato ogni ostacolo l'ambito premio è conquistato vicino è il porto, odo le campane tutto il popolo esulta occhi seguono l'invitto scafo la nave arcigna e intrepida ma o cuore! Cuore! Cuore! O gocce rosse di sangue là sul ponte dove giace il Capitano caduto, gelido, morto O Capitano! Mio Capitano! Risorgi odi le campane risorgo per te è issata la bandiera per te squillano le trombe per te fiori e ghirlande ornate di nastri per te le coste affollate te invoca la massa ondeggiante a te volgono i volti ansiosi ecco Capitano! O amato padre! Questo braccio sotto il tuo capo! E' solo un sogno che sul ponte sei caduto, gelido, morto Non risponde il mio Capitano le sue labbra sono pallide e immobili non sente il padre il mio braccio non ha più energia né volontà la nave è all'ancora sana e salva il suo viaggio concluso, finito la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo la meta è raggiuta esultate coste, suonate campane! entre io con funebre passo percorro il ponte dove giace il mio Capitano caduto, gelido, morto. Walt Whitman (O Capitano! Mio Capitano!) 17
  • 18. La squadra 1996 stagione 2005/2006:In piedi da sin. Paolo Lucisano, Leonardo Farina, Saverio Palma, Christian Parissi, Fabrizio Sgro, Federico Parissi, Andrea Bosco, Nicolò, Aiello, Simone Morello, Manuel Mori - Acc. da sin: Davide Cervini, Gloria Davico, Andrea Guasco, Luca Tarabotto, Davide Pompa A volte la vita ci presenta delle sorprese. Che Fabio fosse persona piena di ottime qualità e di dedizione alla Nuova Oregina, già lo sapevo. Sapevo anche che è bravo a scrivere, per le innumerevoli mail che ci siamo scambiati, ma non sapevo che fosse così bravo a scrivere un racconto intero. Il lavoro di cui mi sto onorando di scrivere la presentazione, non è solo il dettagliato racconto di un'esperienza lunga due anni e di un episodio particolare, di una partita, ma è l'emozione di padre e di dirigente di una società di calcio. Ma qui Fabio riesce a raccontarlo con una comunicativa che va ben oltre quello che ci si aspetterebbe da chi non è abituato a scrivere per mestiere. 18
  • 19. Alcune situazioni emotive sono descritte con una tale profondità e incisività che avrei atteso soltanto da un autore di professione. Allo stesso modo mi sono sorpreso anni fa, quando avvicinatomi alla Nuova Oregina, ho trovato un ambiente davvero diverso dal mondo del calcio che potevo immaginare. Mi sono lasciato coinvolgere nella gestione di questo gruppo, proprio perché già dai primi momenti ho capito che la società poneva al primo posto il bambino: le sue esigenze, lo sviluppo sociale, le capacità aggregative e la capacità di offrire ai ragazzi una strada per crescere sfruttando l'immensa attrattiva dello sport e del calcio in particolare. Questa non è una società sportiva finalizzata unicamente a capitalizzare calciatori e risultati, bensì a lavorare come supporto ed ausilio per le famiglie allo scopo di contribuire a formare i ragazzi di domani. Ho conosciuto persone eccezionali, che hanno dedicato il loro tempo e le loro risorse a questa società. Persone meravigliose che nel corso degli anni sono arrivate ed altre persone meravigliose che se ne sono andate. Tante situazioni con un unico importantissimo punto fermo, che a mio avviso rappresenta da solo l'anima della Nuova Oregina: Tullio Gemelli. E' presente da sempre, e più lavoro al suo fianco e più apprezzo la dedizione che ha per questo gruppo. Ha la capacità di coinvolgere la gente e di far lavorare assieme persone che altrimenti avrebbero avuto poche occasioni di incontrarsi ed aggregare le rispettive capacità. Riveste ed affronta con modestia e competenza assoluta qualsiasi ruolo occorra, e riesce nel contempo a delegare la fiducia di agire e coordinare le attività agli altri, legittimandone le funzioni e rendendo ognuno attore protagonista della vita sociale e decisionale dell'associazione. 19
  • 20. Oltre al raggiungimento degli obiettivi principali, la Nuova Oregina riesce ad offrire ai ragazzi le stesse opportunità che avrebbero in qualsiasi altra squadra. Non ci manca nulla e spesso offriamo cose più gratificanti di quanto sanno offrire altre società sportive. Iscriviamo le squadre ai tornei più importanti, offriamo il supporto tecnico di due allenatori qualificati per ogni leva, allenamenti specifici per i portieri, campi a sette e ad undici giocatori, palestra ed attrezzature ginniche, ci presentiamo alle partite con un abbigliamento decoroso ed uniforme, abbiamo una nostra assicurazione supplementare a coprire ogni possibile rischio d’infortunio dei ragazzi, abbiamo i palloni personalizzati con lo stemma ed il nome della società, abbiamo un sito internet cha fa invidia a quello di società professionistiche, ogni atleta ha la possibilità di usufruire di una sua e-mail personalizzata. Ci preoccupiamo di portare i ragazzi ad un ritiro precampionato degno di una squadra di serie A, ed è già successo di portare ragazzini di dodici anni a fare una tournee all'altro capo del globo, in Ecuador ed alle Isole Galapagos, facendo parlare di noi giornali e televisioni non solo locali ed italiane. Per questo, è con gran rammarico che talvolta vedo genitori che lasciano la Nuova Oregina per portare i loro ragazzi a giocare in società più blasonate. Sono i genitori, quasi mai i ragazzi a prendere questa decisione, ed ho quasi l'impressione che noi, in quanto padri, non sappiamo resistere alla dolcissima tentazione di viziare i nostri ragazzi e pensiamo che portarli dove c'è la possibilità di vincere una partita in più, sia offrire loro il meglio, e per fare questo magari ci sobbarchiamo ore di trasferimento ed abbandoniamo la sicurezza di una società dove esiste un indiscusso valore morale e la tranquillità di un ambiente sano e protetto. Personalmente ho resistito alcune volte alle pressanti richieste di mio figlio, che avrebbe voluto forse talvolta sentirsi richiesto e trasferito come un calciatore professionista, o che avrebbe voluto 20
  • 21. vantarsi a scuola di essere nella rosa di una grande società, ma lavorando da dentro, vedendo la passione immensa di persone come quella di cui vi state accingendo a leggere il racconto, vedendo mio figlio che cresce contento, che riesce a superare qualche piccola delusione della vita con la stessa facilità con cui affronta una sconfitta e si prepara a vincere la prossima partita, credo di essere sulla strada giusta ed aver preso decisioni altrettanto giuste. State con noi e facciamo strada assieme. Diamo l'opportunità ai nostri figli di crescere insieme e di rafforzare la coesione del gruppo. Insegniamo loro un attaccamento a dei valori, l'attaccamento alla territorialità del quartiere, se è il caso. Se non molliamo, i risultati non tarderanno ad arrivare. Premiamo l'impegno, dei ragazzi e degli adulti che li seguono in modo completamente volontario. Se vedete delle cose che non vanno o che devono essere aggiustate, lavoriamo per cambiarle, ed arriveremo dove ognuno di noi, sono certo, vuole arrivare: vedere i propri figli crescere con un carattere forte, sano, altruista ed in grado di gestire le cose della vita. Attilio Roncallo A.S.D. Nuova Oregina 21
  • 22. 22
  • 23. N.d.A. : Questo breve sproloquio è stato scritto la notte successiva a Genoa-Cosenza del 7 giugno 2003 quando una partita di calcio senza significato, che anzi sanciva l'ufficialità della retrocessione dei rossoblu nella serie C1, divenne per quanti la vissero sugli spalti un evento di emozione indimenticabile ed irripetibile. So bene che ora lo leggeranno anche persone che non condividono la passione sportiva per questi colori, ma, mentre agli amici genoani offro queste righe sapendo di toccare facilmente i loro sentimenti, a tutti gli altri le regalo invitandoli a leggerle con gli occhi della fantasia, dell'entusiasmo e del rispetto per lo sport, visto che nel racconto che seguirà, protagonista sarà il calcio, sport dei bambini. 23
  • 24. Psichedelia di un Amore Da parecchio tempo non l'ascoltavo. Così poco fa, ho pensato di mettermi su "tales from topographic oceans" degli Yes. Un doppio album che fa data 1973. La musica mi fa mettere mano alla tastiera, e mentre su un pc scorro le immagini di ieri, sull'altro butto giù queste righe, che non hanno altra pretesa che di aggiungere psichedelia a questa giornata. La prima cosa che ho scritto è stato il titolo. Insolito per me, che in genere scrivo e poi da quanto ho scritto o da quanto ho inteso, porto al mondo il nome da dare alla mia creatura. Psichedelia di un Amore, è quanto sento per questa gente, per quanti amici sconosciuti, immagini che sfocano appena finita una partita, volti che ho visto uguali e diversi, ridere, piangere, cantare od imprecare legati ad una ringhiera, avvinghiati ad una sciarpa, soffocati da una bandiera, accecati dai mille fumogeni colorati. Che gente, meglio gente che popolo. Il popolo si fa guidare. La gente è la guida, la fonte pulita d’ogni idea e d’ogni certezza. La gente che dei ricordi fa globuli rossi per il proprio sangue, non perché viva di ricordi, ma perché non sei vivo senza avere ricordi e sogni in cui credere. Che gente, che mentre cantava e urlava, negli occhi aveva tutte le lacrime del mondo perché colpita, ferita, umiliata. Asciugavamo quelle lacrime con le mani e ancora gridavamo e ancora piangevamo ridendo perché capivamo di quanta storia stavamo costruendo le pagine. Maledizione, c'ero, e quelle lacrime sorridenti, erano le mie e le tue e di quello vicino che fumava una sigaretta dietro l'altra, e di quella ragazza davanti con il grifone tatuato sulla schiena, che io guardavo e mi si confondeva negli occhi con quelli sulle bandiere. Quelle lacrime erano nelle risate di mio figlio, troppo piccolo per capire che andavamo giù, abbastanza grande per urlare quelle 24
  • 25. canzoni rabbiose fino a perdere la voce e poi piangere pensando che non sarebbe tornata mai più. Che gente, che sapeva sussurrare un canto immenso nella lingua dei padri, mentre il cuore di ognuno si stringeva in un rimpianto, e lo sguardo si spostava lontano, su di un campo che non aveva più erba, ma chi lo calpestava aveva la purezza dei campioni e il nome scolpito sulle colonne dell'eternità, scarpe goffe, pali di legno a cingere il cielo di un portiere che per primo pronunciò il nome glorioso del Vecchio Balordo. Che gente innamorata di un paio di colori vividi come il sangue di un cavallo imbizzarrito, mai domato dalla speculazione e dalle beffe. Si mescolano tra loro le emozioni, e mille sono che so solo d’averle vissute in tutti questi anni, portando dentro quelle di mio padre e dei padri di tutti noi, folli innamorati della luce di quei colori. Quanto ci fanno dire e pensare quei colori, perché forse troppo bambini vogliamo rimanere, perché sappiamo che crescere ci toglierà il vivido sapere di essere immortali. E allora navighiamo, gente di scorza dura, col cuore in mano e mano a mano con chi ci ha lasciato e non è vero che non c'è più, nomi di tutti e nomi sconosciuti a tutti, fratelli di quel sangue che sa rivelare l'eternità dell'amicizia. Che stadio ci vorrebbe per tenerli tutti quegli amici che ci guardano dal terzo anello, che stadio immenso, dove le luci non servono ad accendere ancora più il fulgore delle loro anime, buoni e cattivi ma grifoni nella pelle. Un capitano avanti a tutti perché quel numero lo porta negli occhi e sull'anima, un sorriso accanto, sprezzante e sincero biondo guerriero di battaglie lontane, e dietro ma accanto, nomi che inorgogliscono, vicende da libro di storia, il nostro libro. Scorre la musica nelle vene e brilla anch'essa di colori immortali, volano le parole, che strano, preferirei carta e penna. Non ditemi sciocco se stasera vi stupirà ciò che leggete, forse lo scrivo solo per me e solo per voi, datemi tempo di capire perché amo. 25
  • 26. Trenta anni fa forse troppo giovane per sapere, credevo nella psichedelia di ciò che ascoltavo e guardavo negli occhi di un musicista narciso, le parole di canzoni troppo intime per essere condivise con altri. Mi riempiva il giorno di suoni, sapere che dietro l'angolo c'era un amico con cui parlare di loro. Ricordo bambino al Pio, vedere giocare quegli uomini, di loro ricordo soltanto che c'era Spalazzi, e una volta giocammo con loro e corsi a casa a raccontarlo a mio padre e toccavo il cielo. Corre il fiato di questa gente, che soffia vita verso questo cielo. Che gente, questa che cerca e non troverà certezze nelle notizie di un giornale, e si domanda il perché delle cose. Che gente che sa camminare i sentieri difficili ritrovando la strada per la felicità. Finisce una partita e di loro dimentico le facce, ma poi le ritrovo qui, disegnate nel rosso e blu dei colori di questo muro, e non so non credermi amico e fratello di ognuno di loro. Silenzio. Ascoltate la maestosità di questo silenzio che vi avvolge. Abbandonate per un attimo tutte le parole e i rumori della città, e ascoltate questo silenzio. E' talmente così rumoroso che vi stordisce, questo silenzio. E' talmente così pieno di voci che penserete di trovarvi nel mezzo di uno stadio. Non c'è nulla. Non c'è calcio, non c'è polemica, non c'è partita da giocare, non ci sono punti in palio, non ci sono trofei alla birra o al sushi, non ci sono ricorsi, non ci sono tar, covisoc, cga, figc, lnp, lnd, g, v, n, p, f, s, non ci sono medie inglesi e non ci sono arbitri, segnalinee e giocatori in mezzo a quel campo verde, non ci sono gemellaggi da fare e gemellaggi da rovinare. Non c'è nemmeno un pubblico sugli spalti, non ci sono bandiere, striscioni, fumogeni, tamburi, sciarpe, voci, cori, insulti, risate e pianti. 26
  • 27. Non ci sono cuori che battono per un'illusione, non ci sono maglie sudate, non ci sono quei due colori uniti, a quarti su una casacca antica, non ci sono quei grifoni dorati cuciti sulla pelle viva, non ci sono palloni di cuoio pesanti da calciare, non ci sono nomi da ricordare, Spensley, Abbadie, Corso, Meroni, Beccattini, Pruzzo, Damiani, Nela, Odorizzi, Manfrin, Onofri, Aguilera, Bortolazzi, Skuravy, Branco, Ruotolo, Torrente, Gorin, Signorini, e mille e mille altri. Non ci sono lacrime da versare per fratelli morti in nome della stupidità umana. Non ci sono storie da raccontare per dire io c'ero. Non ci sono i clamori e le lacrime di una sera di giugno e non ci sono i clamori e le risate di un'altra sera di giugno. C'è solo quest’immenso magico irreale silenzio. E qui, in questa vacanza meravigliosa, nel silenzio di un raggio di sole caldissimo, siedo qui, e scrivo. Mi manca la vita. Che facce che avete stasera. Dedicato a noi. FGM 27
  • 28. Camminando sul margine Stiamo camminando sul margine del mondo. Stiamo muovendoci pericolosamente ondeggiando sul bordo estremo di quanto conosciamo. Certo abbiamo conoscenza della nostra fiducia abbiamo certezza della nostre certezze Quanto sappiamo di ciò che ci controlla? il Re Cremisi ci sta sopra e nemmeno lo vediamo. Le sue lunghe dita aperte sulle nostre teste, e nemmeno lo vediamo. So d’essere vivo perché respiro ma ho bisogno del Re Cremisi per sapere cosa fare Quando mi dicono ciò che non voglio sentire alzo spesso la voce e mi infurio ma le orecchie del Re e gli occhi dei suoi consiglieri sono chiusi da lembi di carne putrescente Sanno solo ordinarmi di tacere e di eseguire i loro capricci sono le mie banalità Quanto denaro serve perchè i loro denti splendano nel sole sui loro teschi minacciosi? Quante bocche hanno pagato perché parlassero per loro? Il Re vuole costruire un ponte ed il suo palazzo davanti alla mia spiaggia preferita e un recinto intorno perché io non possa più raggiungerla per bagnarmi nel mio mare migliore Il Re manda inviti col suo sigillo a tutti i notabili perché sappiano che ciò che desidera è ciò che lui ordina Stanno sussurrandogli parole suadenti perché lui li guardi con il suo occhio più limpido Stanno sorridendogli intorno come scrofe in calore perché hanno paura di lui e dei suoi soldati crudeli Io non voglio ubbidire ai suoi comandamenti Non è il mio Signore, non è il mio cavaliere, non sono io 28
  • 29. Ci sono molte voci intorno a me e tutte rumoreggiano Sembra si stia preparando un'altra rivolta Ma il Re Cremisi controlla e sorveglia i suoi poderi Stiamo camminando sul margine del mondo cercando un appiglio per non cadere Stiamo muovendoci pericolosamente vacillando sul margine della realtà che ci piace Ogni cosa ha confini ed i colori mi trattengono il pianto Stiamo armando il nostro braccio è più forte ora che siamo così tanti Ho detto agli altri di non temere perché la mia spada ha poteri incredibili Perché la mia voce spezzerà le catene del Re Cremisi e della sua banda Stiamo camminando sul margine del mondo per riscriverne la storia di nostro pugno Perché la storia ci appartiene e quando abbiamo fame ci insegna ad alzare la voce Stiamo muovendoci sul margine ed il Re se ne è accorto Avanziamo sul margine del mondo verso le armate Sono in tanti stavolta e ci sorridono da lontano e portano in giro la maschera con un espressione perbene Sono in tanti a muoverci contro Ma il Re preferisce restare nell'ombra Camminiamo ai margini delle certezze per farle a pezzi Stiamo arrivando per farle a pezzi Sta arrivando il tuo turno e ora tocca a te Non sarai più il Re Cremisi Dovrai camminare sui margini. FGM 29
  • 30. Capitolo I La pioggia “Che cosa useremo per riempire i vuoti spazi dove di solito stavamo a parlare. Come riempirò gli ultimi spazi? Come completerò il muro?” Pink Floyd (The Wall) 30
  • 31. Sarà stata la serata piovosa, ma noia era la sola parola che mi veniva in mente, mentre risalivo il traffico faticosamente, tra semafori poco intelligenti e un campionario completo di stupidi seduti dietro ad un volante, evidentemente messi lì apposta dal poco stimato assessore al traffico, per dimostrare l’utilità del trasporto pubblico nei confronti di quello privato, dovendo d’altronde mandare avanti un carrozzone da quaranta milioni di euro all’anno di perdite di bilancio. Nonostante il breve tragitto da compiere, era oltre mezz’ora che mi trovavo inchiodato dietro ad un furgone che mi impediva anche di vedere i progressi della coda davanti a noi, cosa che mi rendeva ancora più nervoso del solito, mentre cercavo di spostarmi lentamente più all’esterno, per riuscire a sbirciare avanti, dopo il maledetto furgone, e vedere qualcosa di quello che stava oltre. Se quel tipo avesse guardato un attimo nello specchietto, avrebbe corso il rischio di vedersi fulminato dal mio sguardo e dalle pacate maledizioni che gli stavo indirizzando. Far ginnastica con un piede sulla frizione non era il mio sport preferito, e se non altro quello era il piede sbagliato, e potendo scegliere, avrei preferito un buon esercizio di “push and… push” sul pedale opposto, quello dell’acceleratore, ma visto che al momento non era possibile fare altrimenti, me ne stavo sconsolatamente abbandonato sullo schienale, una mano distratta sul volante, ed il resto banalmente impiegato a far procedere centimetro dopo centimetro l’auto incolonnata nel traffico di una Genova piovosamente spettrale. La radio teneva compagnia, e mi mandava gentilmente alcune vecchie, meravigliose canzoni pop degli anni settanta, e qualche cover inizio anni ottanta niente male, e questo, oltre ad evocare qualche emozione, risvegliava i ricordi di serate passate a sentire musica e chiacchierare tra una birra e l’altra, insieme alla vecchia banda di Coronata. 31
  • 32. Naturalmente appena entrato nella galleria di Corvetto, la maledetta baracca mi salutò allegramente iniziando a gracchiare come un vecchio corvo sbalordito e mi costrinse a zittirla bruscamente. Dolcemente, girai parte delle mie maledizioni alla radio, che sopportò con estrema signorilità, degnandomi appena di una breve pernacchietta alla quale risposi con un’occhiataccia e con una manata sul pulsante di spegnimento. Mi riservai di accenderla nuovamente tra una galleria e l’altra, e un paio di canzoni ci stavano nei cento metri tra una galleria e l’altra, e poi ero disposto a perdonare l’aggeggio infernale, se non avesse rinunciato a tenermi compagnia in mezzo a quel casino insuperabile. Un pezzo d’asfalto lungo dieci metri quella sera sembrava una distanza da balzo iper spaziale, e come al solito, quattro gocce di pioggia mettevano su più confusione che una mezza alluvione: non c’era un cane senza auto per la strada. Ero in ritardo, ma non potendo farci nulla non me ne preoccupavo più di tanto, e dopo poco avrei comunque svoltato verso le alture, lasciando quella che da sempre era una delle strade più intasate, per una molto più tranquilla, salendo da Piazza della Nunziata, verso il Carmine e l’Albergo dei Poveri, che faceva da collegamento tra il centro e la Circonvallazione a Monte. Il ritardo lo avrei recuperato rapidamente, e avrei fatto in tempo a sbrigare le ultime faccende della giornata, prima di passare alla scuola ed attendere l’uscita di mio figlio. Fermo dietro quel furgone, osservavo distrattamente il passaggio della gente sui marciapiedi ancora lucidi per la pioggia leggera durata tutto il giorno, e le luci delle prime insegne accese iniziavano a colorare della loro fosforescenza le sottili superfici increspate delle piccole pozze d’acqua sull’asfalto irregolare. Un quadro irreale e fantastico, dipinto da decine di mani e tratto dal disegno abbozzato da qualcuno che se esisteva, nessuno poteva nemmeno immaginare. Il dio degli elettrotecnici forse c’è davvero, cercare per credere. 32
  • 33. Nel 1982, al quinto anno di studi, e poco prima degli esami di maturità, che avrebbero battezzato l'ennesima generazione di periti elettrotecnici, assieme ad alcuni complici sghignazzanti, componemmo e trascrivemmo sulla lavagna, per la gioia dell'ing. Salvini, addirittura la "preghiera dell'elettricista" che recitava più o meno così: Ampere nostro che sei nei cavi dacci oggi il nostro Volt quotidiano e non ci indurre in Alta Tensione ma liberaci dalle Correnti Parassite. Ohm Non ho parole, e mi vergogno così tanto da farvela leggere, così potrete prendermi in giro per la giusta pena del contrappasso. Stavo pensando che anche quei colori avevano una loro strana bellezza, confusi ed effimeri, senza di loro il grigio avrebbe comunque prevalso su tutto, smorzando ancora di più i toni di un pomeriggio autunnale come tanti altri. A volte il passaggio di qualche persona rompeva il gioco delle luci nell’acqua, e le ombre lunghe ma attenuate dalle molte fonti di luce, si staccavano dal suolo per infrangersi sulle fiancate delle auto e sui cofani surriscaldati. Le luci erano blu, verdi e rosse, e tutte insieme formavano migliaia di altri colori, sfumature di scintille nell’aria un po’ grigia di rientro dal lavoro. Scenari da filmaccio di fantascienza, se non fosse che il desiderio di un elicottero qualsiasi, di una macchina volante, di un astronave che mi permettesse di levarmi sopra quella massa di ferro, vernice, plastica ed imbecilli, mi riportava facilmente al presente del mio incedere metro dopo metro con la velocità di un fante scelto dell’esercito delle lumache. 33
  • 34. Al puzzo dei gas di scarico nessuno faceva più caso, tanto n’eravamo impregnati dalla mattina alla sera, e ogni volta che il passaggio di un autobus pungeva le mie narici con la sua zaffata nera, mi trovavo a ricordare quando tornavamo in città al rientro dalle vacanze. Ci trovavamo di colpo nell’odore che cancellava in un attimo i profumi della campagna ed il salmastro degli spruzzi di mare che per tanti giorni ci aveva sfiorato. Amavo la mia città, anche se forse la parola amore era un po’ troppo per definire quel senso d’appartenenza e d’identificazione in quella gente, in quelle colline basse, ed in quel lanciarsi in un attimo nel mare scuro di quel golfo antico, che sembrava dover essere stato la patria d’ogni marinaio ed il punto di partenza d’ogni esplorazione e commercio. Anche il vecchio Cristoforo, benché per la traversata più famosa della storia avesse preso il largo da tutt’altro porto, ad immaginarselo, sembrava di vederlo scendere da quelle calate verso la sua caravella, e volgere un ultimo sguardo alla città ed alla Lanterna, prima di affrontare il mare aperto verso le colonne, ritto e fiero sul castello di prora del suo legno. Dubito ancora che con quei tre gusci di noce sia arrivato dove disse di essere arrivato, ma forse dire che fu questione di fortuna, può ancora dipendere dai punti di vista. Non che i risultati di quella traversata fossero infatti stati così positivi per tutti, a partire da chi abitava già dall’altra parte dell’Atlantico, e si era trovato da un giorno all’altro a dividere la propria terra con quegli strani uomini dalla zucca di ferro venuti da chissà dove, così pronti a rubare loro ogni cosa possedessero, oro, terra, perfino le donne, uccidere ed imporre con la violenza dell'arroganza prima, solo con la violenza più tardi, un nuovo credo in qualcosa di così diverso ed incomprensibile dai loro dei di sempre, mostrando delle verità che non riuscivano a comprendere, 34
  • 35. così lontane dai loro bisogni di sopravvivere ogni giorno ad una natura selvaggia. E poi Cristoforo stesso, non è che fosse stato il primo ad arrivare fino a là, ma forse il primo a tornare per dire di essere finito da qualche parte navigando sempre dritto davanti al naso. Bene o male anche lui fece in fondo la fine che meritava, solo, povero, dimenticato dal mondo dei potenti, e gettato in catene in una scomoda due metri per due. Questi, molti altri pensieri strampalati mi giravano per la testa in quel pomeriggio piovoso, nel chiuso dell’abitacolo della mia auto, a rilento nel traffico e diretto verso gli impegni più leggeri ma non meno importanti della serata. Una serata da trascorrere insieme a mio figlio ed insieme alla squadra di calcio, impegnati in un paio di partitelle amichevoli, una sgambata del venerdì contro gli amici-avversari di sempre, tanto per prepararsi alla seconda di campionato. Ovviamente parlo del campionato Pulcini non di serie A. Campionato che era iniziato com’era finito il precedente, una sconfitta dietro l’altra, ed un’incomprensibile poca voglia di mostrare quella grinta che in allenamento non mancava. C’era anche l’aggravante dei progressi tecnici invisibili alla luce dei due anni e mezzo passati sul campo a lavorare, e con la sola debole attenuante d’alcuni nuovi arrivi, ragazzi potenzialmente in gamba, ma ancora poco abituati ad un vero campo da gioco, e quindi poco disciplinati a mantenere le posizioni dettate dal mister, ed ancor meno pronti all’intesa con i compagni più vecchi della squadra. Vostro Onore, pesiamo bene aggravanti e soprattutto attenuanti, se vogliamo giudicare questi ragazzi, e se possibile diamo loro un’altra possibilità. Grazie Vostro Onore i miei ragazzi ed il mio editore le sono eternamente riconoscenti. 35
  • 36. Vecchi comunque si fa per dire, quando stiamo ragionando di ragazzini sui dieci anni di età, mese più, mese meno, ma se parlo della mia squadra, non posso fare a meno di vederli come una vera squadra di calcio, quasi che non sia importante la differenza di età dai calciatori adulti, ed il colore delle maglie, sempre troppo grandi per loro, non sia quello di una piccola società di quartiere, invece di quello delle illustri casacche sempre al centro delle cronache sportive televisive. Che importa e a chi importa, quando in quella squadra c’è tuo figlio, e quando i suoi compagni ormai fanno parte anche della tua vita, ed a loro dedichi con entusiasmo una bella fetta del poco tempo libero, ripagato sostanziosamente dai sorrisi di una ventina di bambini rigorosamente assorti nella felicità di sentirsi protagonisti di fronte alle piccole platee di genitori e nonni fuori delle recinzioni di un campetto scalcinato. Mi è capitato ultimamente di guardarmi in faccia con il mister della squadra 1997/98 durante una partita, e sconsolatamente confidarci quanto fosse impossibile capire perché stavamo appassionandoci e soffrendo più per quei bambini che davano vita a tutto fuorché ad una partita di calcio, piuttosto che alle sorti del nostro Grifone che in quello stesso momento stava giocandosi una promozione e di cui non sapevamo assolutamente nulla. Eppure mi rendo conto che ti prende, vedere sul campo quelle miniature cariche di orgoglio e di voglia di strafare, di emulare le azioni viste in tv la sera prima. I bambini c’insegnano come vivere ancora giovani dentro il cuore, e lo fanno con le loro mille sbucciature, con le lacrime per il pallone preso sul muso, con quei gol incredibili ed improbabili, ai quali esulti come un pazzo. D’accordo, comunque si era soltanto ai primi di novembre, e tempo per crescere e recuperare ce ne sarebbe stato a bizzeffe, magari non avremmo vinto il campionato, ma certo non si poteva dichiarare persa la stagione prima di iniziarla, e poi comunque andasse quella sarebbe stata un’esperienza importante per l’anno successivo. 36
  • 37. Forse erano gli stessi tiepidi discorsi fatti a giugno, quando chiacchierando alla fine delle ultime partite estive, fantasticavamo sulle possibilità di crescita dei ragazzi dal punto di vista tecnico, e sull’assoluta impossibilità di ripercorrere il calvario che avevamo appena finito di scalare. Magari stava nell’ordine naturale delle cose, visto che se esistevano squadre che vincevano, dovevano altrettanto esistere squadre che perdevano. Peccato trovarsi spesso dalla parte sbagliata di questo bellissimo concetto. La scorsa stagione abbiamo raccolto molto meno di quanto avremmo meritato, per aver giocato le partite migliori contro le squadre più quotate e per aver sciupato parecchio, troppo. E se questo in qualche modo ci puniva giustamente, perché una squadra vincente nel calcio, a qualunque livello non può e non deve permettersi di sciupare occasioni più del lecito, se vuole almeno trovarsi alla fine del campionato in un dignitoso centro classifica. Se quel dannato furgone si fosse deciso a fermarsi, o almeno fosse sprofondato in un crepaccio, avrei potuto vedere che cosa mi aspettava ancora sulla strada, prima di riuscire a mettere la freccia per svoltare sulla strada della salvezza. E se il pallone avesse trasformato per una volta i suoi esagoni neri in tanti numeri esatti, e sulla ruota della fortuna fossero usciti quei numeri, si poteva sperare in qualcosa che infilasse tutto dentro un bussolotto, scuotesse bene, e lasciasse cadere i dadi facendoci finire per una volta nella metà sorridente di un teorema assai poco matematico. 37
  • 38. Capitolo II I giorni migliori "Noi prendiamo il meglio, dimentichiamo il resto e a volte scopriremo che questo è il meglio di sempre... I momenti migliori sono quando io sono solo con te... pioggia e sorrisi, faremo di questo un mondo per due..." Styx (The best of times) 38
  • 39. Per il terzo anno seguivo la squadra con la carica di dirigente responsabile, e anche se magari poteva sembrare un po’ suntuoso come appellativo, per uno che in fondo doveva occuparsi di compilare distinte di gara e portare sul campo borsate di maglie e cesti di borracce per l’acqua, vi assicuro che a volerlo fare per bene dovevi perderci la testa e dedicarci qualcosa di più che un po’ di tempo libero. Dovevi dedicarci passione, tanta passione, ed ancora passione, tenuta insieme da un mucchio di tempo spesso sottratto al resto della famiglia e disponibilità continua nei confronti di società, genitori e soprattutto ragazzi. Io c’ero finito tirato per i capelli da un paio d’amici, i quali, non appena il loro indicatore di livello di sopportabilità per quello stile di vita era arrivato ad inchiodarsi oltre la zona rossa, mi avevano imbesugato con moine varie ed ambigue richieste del tipo “…così ci dai una mano…”, per poi svanire senza nemmeno la nuvoletta di fumo non appena ebbi oltrepassata la soglia della sede. Una volta sbattuta la testa al buio contro quello spigolo, avevo però volentieri scelto di metterci dentro tutta la passione che avevo, e questa, con il passare del tempo non aveva faticato a diventare talmente intensa da spaventarmi anche e farmi temere che la zuccata contro lo stipite dell’ingresso di quella segreteria, l’avessi presa davvero e ne fossi ancora intontito. Mi spiegate come si fa a non innamorarsi di una squadra di ragazzini che hai visto iniziare a prendere a calci un pallone, quando avevano sei anni, e ci hai passato insieme ore di gioia e delusioni? Mi sapete dire come si fa a non mettersi al collo la sciarpa di quella squadra, quando di ognuno di quei bambini hai imparato a conoscere perfino come si fa il nodo alle scarpe? Avete mai deciso in una sera d’estate di vincere una partita e guardato negli occhi il vostro capitano alto un metro e trenta centimetri nel consegnargli la fascia? 39
  • 40. Non ci credete vero, che in quegli occhi ci si possono tranquillamente leggere gli occhi dell’uomo che sarà? Eppure io ve lo firmo anche e vi dico che potete provare se avete abbastanza fegato, perché poi non vi sarà per niente facile tirarvene via. Pioveva ancora: una sottilissima parete di meravigliosi diamanti di rugiada che scendevano dal cielo sul parabrezza, subito cancellati dal crudele schiaffo della spazzola. Eppure riuscivo ad intravedere dentro ad ogni goccia il volto di uno dei miei ragazzi, e mi sembrava in quel momento di vederli allineati per il saluto al pubblico, ma eravamo in un grande stadio, e i visi fuori della rete non erano quelli dei loro genitori, ma pur riconoscendone ognuno, si confondevano in migliaia e migliaia di volti e di colori, i nostri colori. Davvero era pericoloso starsene in coda nel traffico, se riuscivo a vedere nella pioggia ciò che potevo credere fosse il nostro futuro e forse invece soltanto i sogni ad occhi aperti di un pazzo alla guida di una squadra di pazzi. Futuro e presente fatti di istante dopo istante a formare uno dopo l’altro i nostri giorni migliori. I giorni migliori sono quando noi crediamo in noi, ed in quanti sono al nostro fianco, quando la nostra pelle si fa così dura da non poter essere graffiata dalla vita, quando siamo capaci di far nostro il cielo oltre l’ultima stella e senza tremare stringiamo nelle mani il nostro destino. I giorni migliori per quei ragazzi credo fossero proprio quelli che attraversavamo insieme, loro giovani entusiasti, noi meno giovani ma non certo meno entusiasti, e non contavano i risultati incerti di partite da non essere considerate nemmeno degne di un vero arbitro, con la divisa gialla e tutto il resto a posto. I giorni migliori sono quelli dell’età dei miei figli, quando puoi credere a qualunque cosa, e nessuna favola è troppo impossibile da 40
  • 41. credere vera, quando guardare il mondo ad occhi spalancati ti fa vedere i colori sui muri di pietra e non le mani aggrappate alle sbarre, la bellezza di un paesaggio d’Africa ed i suoi leoni fieri re della savana, e non le mosche sugli occhi di chi muore di fame lungo una strada di speranza senza fine, lo scintillio di un astronauta alla conquista dello spazio, e non il fumo tetro degli incendi di un bombardamento in una guerra ingoiata dall'indifferenza. Già, vivere l’avventura del calcio a dieci anni ti fa sentire in ogni caso un eroe, e sei pietra e sei leone, sei astronauta e sei campione, e le emozioni si amplificano enormemente dentro il tuo cuore: se un gol faceva la differenza tra la gioia ed il pianto, era però meraviglioso vedere con quale facilità quelle emozioni scorrevano in pochi minuti senza lasciare apparente traccia dietro di loro. Davanti agli occhi un sogno ricorrente, di quelli che spesso fai ad occhi aperti, ma che rimangono a martellarti la testa, pieni d’assurdità e di motivi per ripensarci su. Nel mio sogno, un giorno mi ero trovato a passare per caso davanti ad un'osteria malfamata, ed avendo sete, decisi di entrare. Fui accolto da uno straccio lanciatomi davanti a me sul bancone dall'oste, una persona davvero sgradevole, che fingendo di pulire, ma in realtà ungendo ancora più con quella pezza schifosa che aveva in mano, mi apostrofò malamente, con una voce sgraziata, chiedendomi che cosa volessi. Chiesi un latte di mandorle, perchè ne venivo dalle vacanze in Calabria ed avevo ancora in bocca il gusto stupendo di quella bevanda e lui mi mise davanti un bicchiere mezzo vuoto di pessimo vino, nero come un cuore dannato e fetido di una cantina ammuffita. Alle mie cortesi rimostranze, mi apostrofò ancora più malamente dicendomi che quello era ciò che passava la casa, e se non mi andava bene, peggio per me. Sputò per terra dietro al banco con un rumore orribile della gola, e ci strascicò sopra un piede, sulla faccia una smorfia di sfida. Dissi allora che non mi sembrava giusto. 41
  • 42. Dissi quasi piangendo che non mi era mai capitato di conoscere una situazione così incredibile, e come faceva a tenere aperto un locale servendo solo quello che voleva lui, per tutti, quel bicchiere mezzo vuoto di amaro cancarone color vomito di cane ubriaco. Mi rispose allora che i tempi erano duri, e che lui non aveva nessuna voglia di far nulla perchè migliorassero. D’altra parte, mi disse, quasi rabbonito dalla mia reazione, che posso aspettarmi dai miei clienti? Con quelle facce, con quella voglia di morte che hanno addosso, ci vuol tutta che mi paghino questo. E poi, mi disse, pensavo davvero che in altri locali potevano offrimi di meglio? La vita è tutta qui caro signore, mi disse, e se lei non la sa vivere come la viviamo noi, è solo perchè lei, se lo lasci dire, è un povero illuso, lei ha le fette di salame sugli occhi, lei non sa vedere la realtà, lei è un sognatore. Si trattenne a stento dallo sputare di nuovo a terra, tirò su col naso e guardandomi deglutì chissà quale bestia. Riluttante a farsi vedere dagli altri avventori, tirò fuori di sotto il banco una fotografia e me la mostrò. Lo ritraeva molto più giovane e sorridente, di fianco ad una bella ragazza, al collo entrambi avevano una catenina con la metà di un cuore d'argento. Ai polsi avevano dei bracciali di cuoio scuro, mi disse, con su impressa grande, la scritta “PACE”. Soffiandomi quelle parole vicino all'orecchio, potei sentire l'odore nauseante del suo alito mentre spiegava: una volta credevo in qualcosa, credevo nell'amore di una donna e la amavo, lei mi ha lasciato per un altro. Credevo anche nella gente, era la mia vita, e lo sarebbe ancora, ma mi ha deluso troppo, non ho più fiducia, mi ha tradito troppe volte. Uscii da quel tanfo di vecchio e di rassegnazione, e m’incamminai pensieroso. Forse quell'oste non aveva tutti i torti in fondo. 42
  • 43. Come facevo a vedere la bellezza delle cose, a sentire in bocca la dolcezza di quel latte di mandorle calabrese, e credere davvero che non fosse anche quello, altro che cancarone sofisticato? Quasi senza accorgermene, entrai in un altro locale, mi avvicinai al banco distrattamente e chiesi il mio latte di mandorle. Volgendo intorno lo sguardo, vidi solo visi sorridenti, espressioni oneste, e in quel bar, l'aria profumava di pulito, e i discorsi che si facevano intorno ai tavolini, erano diversi e pacati, solo a volte appena più accentuati forse dalla passionalità di chi esponeva. Parlavano di donne, di calcio e di politica, ma lo facevano in fondo serenamente. Nessuno aveva ragione, ma tutti avevano ragione, e le pacche sulle spalle si sprecavano, erano tutti grandi amici. Il mio bicchiere con il latte di mandorle era lì, di fianco a me sul bancone, dove il barista, un uomo dolce e sorridente, lo aveva posato, senza dire nulla. Forse vide la mia espressione sbalordita, mentre osservano la gente dentro il locale. Delicatamente mi posò una mano sul braccio dicendomi: <<mi scusi signore, sa, la stavo osservando. Mi sembra di capire dalla sua espressione che lei ne viene dal locale qui vicino... >> Lo guardai senza rispondere, ma gli sorrisi debolmente. <<Vada, mi disse, vada anche lei, la stanno aspettando.>> M’incamminai piano, poi più rilassato, mi sedetti al tavolino più vicino, dove un uomo dall'espressione seria ma simpatica, si era già alzato, ed aveva avvicinato una sedia per farmi posto. Posai il bicchiere sul tavolino, e poi, guardando bene in faccia uno per uno i miei compagni di viaggio, dissi: <<allora ragazzi, di che parliamo oggi?>> Vorrei che questo fosse lo stesso bar frequentato dai miei migliori amici. 43
  • 44. Non ho mai terminato quel sogno, non so quale bar dei due fosse reale, quale realmente mi attendesse insidioso, quale dei due uomini diversi eppure così simili tra loro, intendesse mettermi in guardia dall'illusione dell'altro. La pioggia continuava a cadere leggera, e quando svoltai verso la collina, i volti d’alcune persone alla fermata del bus s’illuminarono dei fari della mia auto, così mi ricomposi sul sedile ed azzerai i miei pensieri strani schiacciando sull’acceleratore come schiacciare un mozzicone sull’asfalto. Mentre la luce dei fari fendeva debolmente la prima oscurità, un altro me stesso voltava pagina e sorrideva. Si cominciava. 44
  • 45. 45
  • 46. Capitolo III Tra noi "...ed il più grande conquistò nazione dopo nazione e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione perchè più in là non si poteva conquistare niente ed io ti ho sollevato figlio per guardarti meglio perchè non parli e io sto a guardarti finché rimango sveglio..." Roberto Vecchioni (Forse non lo sai...) 46
  • 47. "It's no time to make a change just relax, take it easy You're still young, that's your fault there's so much you have to know Find a girl, settle down, if you want you can marry Look at me, I am old, but I'm happy I was once like you are now, and I know that it's not easy To be calm when you've found something going on But take your time, think a lot, Why, think of everything you've got For you've still be here tomorrow but your dreams may not How can I try to explain, when I do he turns away again It's always been the same, same old story From the moment I could talk I was ordered to listen Now there's a way and I know that I have to go away I konw I have to go It's not time to make a change, Just sit down, ake it slowly You're still young, that's your fault There's so much you have to go through Find a girl, settle down, If you want you can marry Look at me, I am old, but I'm happy All the times that I cried keeping all the things I knew inside It's hard, but it's harder to ignore it If they were right, I'd agree but it's them you know not me Now there's a way and I know that I have to go away I know I have to go I know I have to go" ----- 47
  • 48. "Non è il momento di cambiare Rilassati, prendila con calma sei ancora giovane questa è la tua colpa Hai ancora molte cose da conoscere trovare una ragazza, sistemarti, se vuoi puoi sposarti Guarda me, sono vecchio, ma sono felice Una volta ero come sei tu ora, e so che non è facile rimanere calmi quando hai trovato qualcosa che va ma prenditi tutto il tempo, pensa a lungo Perché, pensa a tutto quello che hai avuto Per te sarà ancora qui il domani, ma forse non i tuoi sogni Come posso provare a spiegare, quando lo faccio, si volge altrove di nuovo E' sempre la stessa vecchia storia Dal momento in cui potevo parlare mi fu ordinato di ascoltare Ora c'è una strada e so che devo andarmene So che devo andare Non è il momento di cambiare Siediti, prendila con calma sei ancora giovane, questa è la tua colpa Ci sono ancora molte cose da affrontare trovare una ragazza, sistemarti, se vuoi puoi sposarti Guarda me, sono vecchio, ma sono felice Tutte le volte che ho pianto, tenendo tutto dentro di me E' dura, ma è anche dura ignorare tutto Se avevano ragione, ero d'accordo, ma sono loro che tu conosci, non me Ora c'è una strada e io so che devo andarmene So che devo andare" Cat Stevens (Father and Son) 48
  • 49. Penso che sia talmente egoistico il nostro mondo d’adulti da privarci della gioia di conoscere veramente i nostri figli, coinvolti dalla debole scusa dei nostri impegni e dei nostri grandi problemi. A volte diventa così difficile parlare con loro perché anche quando lo facciamo siamo in realtà assorti nei nostri pensieri, preoccupati della nostra vita quotidiana fatta di lavoro e di piccole e grandi battaglie, e sottovalutiamo i sentimenti di coloro, così importanti per noi da chiamarli figli. Sottovalutiamo molto spesso il raziocinio, i sentimenti e la capacità d’adattamento alle situazioni dei nostri giovanissimi interlocutori, liquidandoli troppe volte con la scontata e superficiale motivazione delle “cose da grandi”, mentre il loro bisogno di sapere, d’essere spugna davanti ad un mare infinito di nozioni e conoscenza da acquisire, ci spaventa a tal punto da fuggirne precipitosamente ogni qual volta dovremmo essere invece capaci di svolgere il nostro compito di genitori, educatori, insegnanti guida in quelle che invece sono “cose di vita” per ogni persona su questa terra. Vederli su un campo di calcio correre sgambettando dietro ad un pallone in fondo non è altro che rivedere noi stessi bambini e tentare di riappropriarci di quegli anni che ci sono stati rubati troppo in fretta dal tempo che passa. Spesso, fingiamo di cancellare, mentendo a noi stessi, con questo puerile comportamento le nostre delusioni, le nostre difficoltà. Scaricare su di loro piccoli calciatori le nostre passioni migliori o peggiori davvero rischia d’essere il nostro tentativo di rivalsa verso quanto non siamo stati capaci d’essere o non abbiamo avuto la possibilità di fare, alla loro età. Mi accorgo che spesso un breve viaggio in auto solo con uno dei miei figli, magari proprio mentre lo sto accompagnando a giocare una partita, diventa occasione di dialogo, opportunità per scoprirne piccole angolature del carattere, piccoli cambiamenti che anche in lui inevitabilmente il tempo produce, muovendosi verso la maturità ma anche verso la perdita di quel giocoso mondo che viene così bene rappresentato dalla favola di Peter Pan. 49
  • 50. L’eternamente bambino sopravvive soltanto in chi rimane altrettanto eternamente ingenuo, permeabile ad un mondo dove il buono prevale di solito sul cattivo e dove l’immaginifico è reale quanto le persone che si muovono al suo interno, in fondo prigionieri comunque di se stessi e di un limitato territorio, al di fuori del quale nulla ha più i colori della mente, ma soltanto il grigio uniforme della vita ordinariamente vissuta. E così, alla ricerca dell’Isola Che Non C’è ed al tentativo immensamente impossibile di rimanere all’ancora entro qualcuna delle sue baie più accoglienti, dedichiamo tutti i nostri anni più belli ed ingenui, sovente portandoci al fianco amici fidati che perderemo per strada, ed ancora più spesso aggrappandoci alle ali sottili di una fatina libellula che crediamo ci guidi proteggendoci dal nemico di turno. L'orologio del coccodrillo del tempo scandisce le sue ore anche per noi, per quanto la nostra fantasia ci prolunghi l'agonia restituendoci ogni tanto all'approdo dell'Isola. Moriremo crescendo, è vero, dimenticando tutto ciò che siamo stati per arrivare a quell’età dove delle persone che ci stanno intorno capiremo meglio il lato più cattivo, dimenticando il piacere di ridere per il solo gusto di ridere, e dimenticando la fiducia negli altri, soli, arcigni, avari custodi dei sogni che non abbiamo fatto in tempo a sognare. Vivremo pur avendo inconsapevolmente ucciso in noi le certezze della nostra esistenza infantile, certi ora, invece, di altrettante verità non certamente più piacevoli, nemmeno più spiacevoli, e tanto meno diversamente desiderabili, semplicemente consone al nostro comune ed improbabile regolamento di vita civile da prigionieri sul vascello fantasma di un Capitan Uncino eternamente in fuga dall’inevitabile rintocco della sua mezzanotte. Pensare cosa esista di più bello del sorriso di un bambino è impossibile, se pure affermarlo ricade nella retorica. 50
  • 51. Quante volte mi sono trovato a tirare un sermoncino ai miei figli perché fossero più seri, perché smettessero di ridere come i pazzi, per poi rendermi conto magari proprio mentre parlavo, dell’assurdità di quanto stavo dicendo: proibire ad un bambino di ridere è impossibile ed in fondo ingiusto. Per fortuna loro si dimenticano subito dei rimproveri, e tranquillamente riprendono dopo pochi secondi le loro risate. Quel giorno, superato il traffico del venerdì avevo raggiunto casa e preparata rapidamente la borsa con l’occorrente per la partita di mio figlio. Staccarlo dal televisore si rivelò un’impresa come il solito ardua, ma alla fine, aperta la porta di casa e chiamato al piano l’ascensore, lui mi raggiunse, chiudendosi la porta alle spalle non senza un lieve sospiro di sconforto. Salì in auto al mio fianco, un piccolo strappo alle regole che gli concedevo solo in quelle occasioni, quando mi piaceva saggiarne un pochino l’umore, e magari dargli gli ultimi (inascoltati) consigli per la partita. Sapevo che quel giorno, come tutti i suoi compagni, era molto caricato dalla prospettiva della doppia sfida, perché si affrontavano gli amici-rivali di sempre, contro i quali non si era mai riusciti a fare risultato positivo, e così ogni volta che ci incontravamo con loro, si trattava di una sorta di rivincita continua, sempre più spesso giocata con agonismo e grinta, poche volte con lucidità e bel gioco. Mi raccontava di una giornata di scuola mai come tutte le altre, con sempre nuove cose da scoprire ed imparare, entusiasta della storia degli Egizi e dello studio dei primi cenni sul come è fatto il nostro universo, con la Terra, il suo satellite la Luna, il Sole che sembrava impossibile che fosse così grande se sembrava così piccolo, la matematica, una sua piccola passione. Iniziò dopo poco a chiedermi se davvero avremmo giocato due partite contro di loro, e se pensassi avremmo vinto, stavolta. 51
  • 52. Sapeva di incontrare avversari forti e motivati a mantenere la supremazia quanto noi lo eravamo a cercare di ribaltare la tendenza storica. Parlava un po’ a testa bassa, come spesso faceva quando dentro di se pensava di voler dire qualcosa d’importante, ed era così alla ricerca delle parole giuste per propormi i suoi ragionamenti. Non era timido, affatto, ma dotato di quella sensibilità che al bambino fa rendere consueto pensare e vedere più lontano di un adulto, non possedendo del tutto i termini per spiegare. Sapevo che anche per lui era importante quel momento di confronto, noi due soli nel traffico, la radio in sottofondo, parole da scambiarci tra uomini e qualche sorriso per non pensare troppo alla gara che andavamo ad affrontare. Lui ha scelto il ruolo di portiere, ed è questo l’inizio del secondo anno che copre questo ruolo, il terzo anno da che iniziò a giocare al calcio, senza realmente essersi mai troppo interessato di pallone e calciatori, fatta salva qualche sera passata allo stadio a vedere giocare il nostro vecchio Genoa, passione-malatia-maledizione che ho trasmesso ai miei figli, e dalla quale non si può guarire. Non credo sia destinato a divenire un fuoriclasse nel calcio, non m’interessa molto, non penso di crescere in casa campioni, come qualche, troppi, genitori restano fin troppo a lungo convinti, fino alla delusione dell’arrivo dell’adolescenza, quando cambiano radicalmente gli interessi, e spesso al pallone si riserva ormai soltanto una parte marginale della propria esistenza. Quello che reputo importante è che i miei bambini possano crescere educati anche allo sport, il calcio in questo caso, ma non soltanto, perché le regole e l’educazione sportiva prendano una parte importante nel loro essere uomini di domani, orfani di Peter Pan ma probabilmente altrettanto nostalgici di me della scintillante fantasia di un mondo di immaginazione. Lui, ha spesso affermato che da grande però, non vorrà mai fare il calciatore, preferisce occuparsi d’altre cose più interessanti, non so come dargli torto, e anche se stuzzicandolo con la domanda di cosa 52
  • 53. avrebbe pensato se un giorno fosse potuto andare a giocare proprio nel suo Genoa, gli avevo una volta visto brillare gli occhi per un attimo, pensavo che se fosse diventato un discreto portiere, si sarebbe saputo divertire in qualche piccola squadra o con gli amici delle partitelle serali. Bene, il discorso andrebbe anche per molti altri che ho avuto occasione di vedere, non solo nelle nostre squadre, ma anche in tante altre di tante altre società. In tre anni ho visto soltanto due, forse tre bambini, che ora, e sottolineo ora, mostravano i segni di una bella predisposizione al calcio, movenze da futuri campioni, numeri da lasciare spalancati gli occhi. Due o tre bambini tra centinaia in qualche decina di squadre di ragazzini di tutta la città. Probabilmente quegli stessi bambini non avranno mai la soddisfazione, se così si può considerare, di calcare grandi campi, ma resteranno nell’oblio della periferia sportiva, o rinunceranno una volta cresciuti, tornando magari a calpestare un’area di rigore solo quando avranno dei figli da accompagnare su di un campo di calcio. Sento spesso affermare che sono i genitori la rovina del calcio giovanile. Anche se a volte questa idea l’ho condivisa per le tante scene stupide che ho visto ai margini dei campetti, credo sia in parte ingeneroso ed in parte eccessivo non considerare naturale l’entusiasmo provato da chi vede i propri bambini giocarsi una partita, un campionato, un risultato, comunque in una qualsiasi competizione. Eccessivo e folle senz’altro è non capire che di fronte ai propri figli ci sono altri bambini come loro, a volte seduti allo stesso banco della stessa scuola per molte ore al giorno, anche amici fuori da quel campo, da quel breve momento, in cui avversari e mai nemici si confrontano in un gioco. 53
  • 54. Ho visto un padre mortificare senza vergogna un bambino avversario fino a farlo piangere ed altri irretiti dall’agonismo, dare in escandescenze per un rigore negato a loro favore mentre vincevano dodici a zero. Ho visto insultare e minacciare con astio un giovane arbitro smarrito nel proprio ruolo d’educatore e giudice. Ho visto anche madri trasfigurare urlando al proprio bebè di falciare l’avversario e pur silenziose, pensare troppo sonoramente per non udirle, se fosse possibile spezzargli una gamba: qualche altra madre in quello stesso momento ed altrettanto rumorosamente pensava lo stesso a parti invertite. Per loro forse la punizione più giusta sarà ciò che penserà di queste esaltazioni e di loro stessi, genitori, il loro figlio, quando se non adesso, ma più cresciuto, si troverà a cercare un modello da imitare nella sua vita d’adulto. Chissà perché, ma qui mi ritorna in mente un vecchio film con un magnifico Vittorio Gasmann, il film era “I mostri” credo, e Gasmann impersonava un padre impegnato a mostrare la vita al figlio, facendo di tutto per insegnargli il peggio ai danni del prossimo, con la strafottenza e la presunzione del furbo io e scemi tutti gli altri. Il film finiva con la fotografia di quel padre, ammazzato per quattro soldi dal figlio, sulla prima pagina di un giornale. Mio figlio quella sera aveva voglia di giocare ed aveva voglia di vincere la sua partita personale. Avere in squadra ben quattro portieri voleva dire giocarsi una discreta competizione tra loro, per chi avrebbe ricoperto un ruolo di primo piano in quella stagione. D’altra parte, se pure i bambini sapevano che tutti avrebbero giocato la loro fetta di campionato, era evidente in ognuno di loro la voglia di primeggiare agli occhi dell’allenatore e dei compagni, stabilire 54
  • 55. silenziosamente una sorta di graduatoria tra loro dove ognuno dei quattro cercava di arrivare in cima. Così ogni volta dovevo cercare di spiegare che un gol in più o in meno preso rispetto al compagno di turno, non era così importante e determinante, e che d’altro canto, le partite si vincono e si perdono insieme a tutta la squadra. Meriti e colpe si possono sempre suddividere con i compagni, con gli allenatori e con i dirigenti, mai sono da riferire ad un solo giocatore per quanto determinante nel singolo episodio. Cercai di fargli capire ancora una volta che nel calcio gioca tutta una squadra, e che nella squadra contano addirittura anche coloro che non giocano una partita. Arrivare primi od ultimi in un campionato, coinvolge dal primo all’ultimo giocatore della rosa, per quanto bene o male quello stesso giocatore possa aver fatto durante tutto l’anno, e feci l’esempio di un giocatore in serie A, che appena arrivato in una nuova squadra si infortuna seriamente, tanto da non poter giocare per tutta la stagione. Ebbene, dissi, anche lui darà comunque il suo contributo a ciò che saprà fare la squadra, e sarà un contributo anche in incoraggiamento ed impegno nel recupero dall’infortunio. Se la squadra vincerà lo scudetto, o se sarà retrocessa, sarà anche per merito o demerito suo, nonostante il fatto di non aver giocato magari neppure un minuto in tutto l’anno. Quell’anno avevamo in rosa ben sedici bambini, alcuni dei quali appena arrivati e magari più digiuni dello stare in campo rispetto ai compagni che già giocavano da noi da almeno due anni. Iniziava ad essere un discreto numero, nonostante fossero troppo pochi perché consentano ancora di preparare una squadra per l’esordio ad undici giocatori, a cui, però mancavano ancora un paio di stagioni, e ci sarebbe stato tempo per portare la rosa ad almeno una ventina di bambini prima di allora. Ognuno di quei sedici avrebbe disputato le sue partite, magari qualcuno più bravo, n’avrebbe fatte più di altri, ma tutti avrebbero 55
  • 56. avuto il loro spazio e la loro soddisfazione, anche perché, se l’allenamento è importante ed è importante parteciparvi con impegno, è la partita della domenica quella che maggiormente stimola la voglia di fare dei ragazzi, e tutti vogliono esservi protagonisti. Ed è anche il bello di una realtà di quartiere come nel caso della nostra società, che consente a tutti i ragazzi, indipendentemente dalla loro forza e del loro talento nel contesto assoluto di una stagione, di esprimersi comunque, grosso modo con gli stesso tempi di impiego in campo di ogni altro compagno anche più bravo. Questo consente al giocatore meno dotato o comunque più in ritardo nell’apprendimento del suo ruolo, di guadagnare fiducia in se stesso mettendo in pratica quanto appreso negli allenamenti, ed allo stesso tempo costringe anche i migliori a non ritenersi indispensabilmente superiori agli altri, ed a moltiplicare gli sforzi di apprendimento e miglioramento per non perdere il passo rispetto ai compagni. Fiducia e stimolo mi piacciono quali criteri di educazione ad uno sport di squadra come il calcio. Occorre indubbiamente anche un grosso sforzo di comunicazione tra le varie parti della squadra, ed un’identità d’obiettivi conclamata, in particolare tra la dirigenza sportiva e gli istruttori, perché non vadano dispersi in inutili e dannosi conflitti interni i vantaggi e gli intenti positivi di questa filosofia di approccio al calcio giovanile. Mentre parlavo con mio figlio, scorrevo mentalmente nomi e ruoli dei suoi compagni, come avere davanti un album di figurine, di quelli tutti pieni di calciatori famosi, con l’immagine della perfetta rovesciata in copertina, con la grafica del pallone che vola verso la porta, con tutti i colori del mondo, i tabellini, le brevi biografie, gli scudetti, coppe, trofei e storia dei campionati. Ma dove i calciatori hanno tutti il sorriso impenitente di un bambino dagli occhi grandi e poco più di dieci anni. 56
  • 57. Dove le squadre in quelle immagini dalla posa studiata e consueta, dietro in piedi a braccia conserte, davanti accosciati e tutti con un sorriso sicuro e fiero, hanno invece le pose un po’ scomposte ed irridenti di una banda di scalmanati attorno a qualche adulto che s’intuisce più spaesato di loro. In ognuno di quei calciatori, con tante diverse sfumature, potevi trovare quell’aria un po’ canzonatoria di chi ti guarda lato obiettivo della macchina fotografica, e sa di avere il mondo in tasca e la vita davanti. Ecco, mi piacerebbe presentarveli tutti uno per uno perché più avanti possiate riconoscerli quando anche senza nominarli, ve li troverete tra le righe ad essere protagonisti di un azione, in quelle due partite raccontate in questa storia. Non saranno queste, fotografie fredde delle persone che incontreremo più avanti. Andando a rileggere quanto raccontato in precedenza su parecchi di loro, già protagonisti dei miei ricordi messi su carta, ne riconosco alcuni tratti, ma allo stesso tempo mi rendo conto di quanto loro siano cambiati e cresciuti, tanto da essere spesso bambini completamente diversi da quelli che descrivevo nemmeno due anni fa. Per alcuni sono cambiati i ruoli, per altri il carattere ha subito quelle lievi modifiche che nel corso degli anni li porterà ad essere uomini veri, e sin da ora riesco a vederne i tratti di adulti, ognuno con le sue qualità e di suoi difetti, ma ognuno devo dire, ragazzo e uomo leale ed aperto, così come oggi bambino leale, allegro e giocoso. Certo li ho visti crescere diventando ragazzini, mentre prima avevi davanti bambini che ti facevano quasi tenerezza a vederli correre dietro a quel pallone sempre troppo grande per loro, e sempre troppo difficile da controllare come fosse una zanzara impazzita. Inoltre, ci sono state occasioni, come al raduno dell’anno scorso, quando a rivederli dopo soli tre mesi, alla ripresa della stagione, mi sembrò di avere davanti altre persone, tanti erano cresciuti in fretta, tutti: avendoli lasciati a giugno, me li ritrovavo a settembre che 57
  • 58. avevano quasi la parvenza di veri piccoli calciatori, e già le loro maglie, non erano più un assurdo saio informe, ma li ricoprivano come vere divise da gioco, pur sul fisico spesso ben poco massiccio di bambini da scuola elementare. Mi piacerebbe presentarvi tutta la banda di quest’anno, protagonista di questa storia di un giorno, che potrebbe tradursi come al solito in storia di una stagione intera. Ci sono i ragazzi che formano il nucleo storico della squadra, quelli che da ormai tre anni vestono la nostra maglia e sudano sul nostro campo, e ci sono i nuovi compagni, i ragazzi arrivati alla fine della scorsa stagione, od all’inizio di questa presente. Qualcuno si riconoscerà certamente e forse penserà non appropriato ciò che legge di se stesso, ma di ognuno credo sia giusto che io dia l’immagine che porto con me, a volte certo suffragata soltanto dalle sfumature che ho vissuto in questi anni o mesi in loro compagnia, a volte talmente distante dalla realtà perché volutamente idealizzata da rendere il personaggio diverso dal vero e fine alla storia: per tutti, indistintamente, un grande affetto. 58
  • 59. 59
  • 60. Capitolo IV I vecchi guerrieri “…tirai una freccia in cielo per farlo respirare Tirai una freccia al vento per farlo sanguinare La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek…” Fabrizio de Andrè (Sand Creek) 60
  • 61. Ettore era ancora uno dei quattro portieri della squadra, in seguito avrebbe deciso di cambiare ruolo, forse curioso di provare l’altro lato del pallone, ma sapeva sempre essere al suo posto, spirito dall’apparenza indolente, ed invece sensibile a tutto ciò che lo circondava, soffriva della sopraggiunta concorrenza, ma ne faceva un’arma a suo favore nell’impegno e nella serietà del ruolo. Da sempre era “il portiere”, e tutti ricordavamo che nel primo anno, si era in pratica imposto di non ammalarsi mai, nemmeno un raffreddore, nemmeno una leggera influenza, per essere sempre tra i pali, ed era riuscito a non saltare nemmeno una partita, consentendoci allora di giocarle tutte, ed anche di vincerne con qualcuno di quelli che i commentatori amano chiamare i ”veri interventi prodigiosi”. Da non crederci, la maglia gialla come un talismano, sempre indossata su quei lunghi pantaloncini neri, e se un tempo lui ci spariva quasi dentro, indossava almeno un paio di taglie in più, adesso era cresciuto abbastanza da riempirla veramente, con il suo stare tra i pali sempre tranquillo e sicuro pure con quell’aria ciondolona che ti faceva sempre temere di vederlo sonnecchiare appoggiato ad uno dei pali. I suoi guanti, anche quelli gialli, ed anche quelli sempre troppo grandi per lui, coprivano le mani ben sicure su tutti i palloni, e le vedevi muoversi quasi a contrappeso del corpo quando l’avversario lo puntava e lui quasi immobile, preparava il balzo, il tuffo che arrivava quando non te lo aspettavi più, convinto come ti lasciava che non si sarebbe mai mosso dalla sua linea di porta, ultima Linea Maginot. Quando a volte, specie nella stagione estiva, indossava anche una “bandana” gialla, al posto del consueto cappellino per ripararsi dal sole, sembrava voler assomigliare ad un pirata, comandante del suo vascello, della sua area di rigore. Non diceva ancora nulla, ma si capiva che pativa dell’arrivo degli altri portieri, che lo mettevano ora in una stretta competizione, dopo due anni da titolare fisso. 61
  • 62. In effetti, al massimo aveva condiviso il ruolo nella stagione precedente con mio figlio che, però aveva appena iniziato, e da lui poteva solo imparare. Tecnicamente Ettore era bravo nella parata sia su tiri da lontano che nelle uscite, mentre doveva migliorare l'istinto sugli interventi ravvicinati, e sui calci piazzati, sui corner in particolare. Anche sui lunghi rinvii dalla difesa avversaria, a volte sembrava poco reattivo, e specialmente nei primi minuti di gara bisognava tenerlo bene attento, in quanto mostrava una preoccupante propensione a non accorgersi della gara iniziata. Scaldato il motore, rappresentava una buona sicurezza, e sebbene sempre poco plateale, sapeva effettuare splendide parate salvando la sua rete quando ormai credevi la frittata fatta. Qualche mese dopo Ettore avrebbe cambiato ruolo per scelta, e avrebbe ricominciato a divertirsi come un tempo tra i pali. Gianni, la mia vecchia roccia della difesa, dopo un periodo un po’ complicato, aveva ripreso fiducia in se stesso, e tornava a dominare gli avversari con il suo fisico importante, e con i suoi interventi puntuali, di rado fallosi, affinando sempre più il controllo di palla, cosa che gli consentiva di recuperare, gestire ed impostare l’azione, senza buttare via palloni nella nostra metà campo. A volte ancora in difficoltà quando si trovava davanti avversari più esili di lui, certi trottolini bassi e veloci che ancora non aveva imparato a frenare proprio con il fisico superiore, ma che spesso si lasciava scappare esitando nell’intervento o lasciandogli troppo spazio di manovra, forse ancora per paura di far male all’altro. Quando però trovava avversari con cui era necessario mettere la competizione sul piano della forza, sembrava galvanizzato, e senza mai una parola di troppo gli si appiccicava addosso inesorabile e spalla contro spalla, petto contro schiena, faceva valere la sua forza scatenando spesso gli applausi del pubblico e l’ammirazione dei compagni. 62
  • 63. Se, come dicevo, nella stagione precedente aveva dato qualche segno di stanchezza, arrivando perfino a dirmi che avrebbe voluto cambiare sport, era comprensibile, visto che forse si accorgeva lui stesso della sua difficoltà a fronte di piccole belve scattanti, lui che della potenza era il re, avrebbe forse dovuto sacrificare tra qualche anno la gioia della forchetta, per le gioie del calcio, arrivare a quella condizione ideale dove qualche piccolo sacrificio avrebbe potuto portarlo, ma a dieci anni fa ridere pensare di dire a un bambino di mangiare con moderazione, e mi viene in mente quando da bambino io stesso venivo chiamato “forchetta”. Già invece me lo vedevo tra altri dieci anni, anche meno, in forma e possente torreggiare al centro della difesa della nostra prima squadra. Un giorno che sapevo di trovarlo particolarmente giù di morale, nel suo periodo grigio, lo presi da parte, lui mise su una faccia da scocciato come spesso in quei giorni. Parlando chiaro, gli dissi che la domenica successiva, volevo che giocasse al meglio, e la finisse di far finta di non interessarsi della cosa, sapevo che la sua era una mascherata, e che lui a dispetto di un apparenza perfino irridente nei nostri confronti, pativa molto di quella situazione. A chi la voleva raccontare, quella delle arti marziali ed altre baggianate del genere, quando tutti vedevano gli occhi tristi, quando usciva dal campo dopo una prova mal riuscita, dopo una partita giocata in affanno. Miracolosamente, mi guardò dicendomi solo che per lui andava bene, e mi avrebbe fatto vedere che ci teneva. Fece una discreta gara, penalizzata forse ancora un pochino dalla paura di sbagliare, ma senza mai tirare indietro il piede, senza farsi prendere in giro dagli avversari, giocando a testa alta, senza pensare ad altro che alla squadra. Diego sta diventando sempre di più il giocatore vero che avevo visto in un bambino di sette anni. 63
  • 64. Non ha paura di nulla, combatte come un leone inferocito, ha settemila polmoni e sta imparando a migliorare tutte le qualità che già possiede naturalmente. Il coraggio no, quello non ha bisogno di migliorarlo, anzi, volesse, potrebbe venderne a qualche avversario che a ben vederlo spesso se ne intimorisce. Nel colpo di testa diventa padrone assoluto della sua area di rigore e del centrocampo sui rinvii del portiere avversario, trovando sempre la posizione giusta per far ripartire la propria squadra, sfruttando il contropiede immediato, sfruttando la sua velocità e quella di qualche compagno sulle ali, o il dribbling devastante di altri. Sorridente e scherzoso, in allenamento come in partita è concentratissimo ed impegnato. Sono ormai un ricordo lontano i ripetuti richiami a mantenere il corpo ben posizionato nell’atto di calciare la palla, e spesso sfrutta la sua potenza di tiro, quando si trova sulla trequarti o al limite dell’area, dopo una delle sue discese devastanti. Nella struttura fisica è quanto di più simile ad un vero giocatore si possa vedere sui campi delle giovanili alla loro età, tralasciando certe piccole grandi incongruenze che donano un età anagrafica fittizia a giovanotti cresciutelli. A dispetto di un sorriso aperto e sincero, di una voglia incredibile di scherzare, lui sa immedesimarsi fortemente nella gara, dimenticando tutto e tutti fuori del campo, per trasformarsi nel vero condottiero della sua squadra, e dove c’è da lottare, dove c’è da soffrire, correre e vincere i duelli, state sicuri che troverete lui, pronto a battersi su ogni pallone sino a rubarlo agli avversari travolgendoli con la sua forza cinetica ed il suo coraggio. Spesso paga negli ultimi minuti delle partite, l’inevitabile stanchezza per aver dato tutto, proprio tutto, anche nei momenti in cui la gara potrebbe essere gestita tatticamente in modo più tranquillo, e questo, può ancora essere un difetto da eliminare, migliorando però non tanto il gioco individuale, quanto la capacità di squadra di organizzarsi al meglio per non buttar via energie preziose, quando 64
  • 65. gli altri magari ti aspettano al varco per colpirti quando proprio non ce la fai più. A quest’età diventa difficile farti capire di risparmiare le energie, di dosarle al meglio per arrivare in fondo senza essere completamente sfiatato. In effetti, spesso abbiamo pagato l’irruenza sua e di qualche altro giocatore, proprio negli ultimi minuti, buttando via occasioni d’oro e lasciandoci battere da avversari più freschi e sornioni, quasi mai troppo superiori a noi per forza tecnica. Diego diventerà probabilmente il vero leader della squadra, se saprà gestirsi al meglio, senza pensare di essere un campione, ma vivendo al meglio le capacità naturali che ha, e migliorando quelle acquisite con l’allenamento. Per ora resta incredibile vederlo volare da una parte all’altra del campo come un folletto onnipresente in ogni zona, il viso rosso della corsa e della gioia. Simone e Roberto sono i due gemelli della squadra. Non nel senso di gemelli del gol, anche se spesso ci hanno abituato a gioire delle loro prodezze e delle loro reti, ma proprio nel senso che sono fratelli e gemelli, quasi identici, al punto che mi viene in mente un buffo aneddoto da raccontarvi. Quando ad inizio della scorsa stagione andai presso l’ente di promozione del campionato che dovevamo affrontare, la UISP per il Torneo Tanganelli, per richiedere i cartellini di tesseramento per la squadra, l’impiegato un po’ smarrito si rigirava tra le mani le due coppie di fotografie dei gemelli, sapete, le tipiche foto formato tessera, chiaramente distinguibili per me che conoscevo i bambini, certo meno per lui che deve aver pensato ad uno scherzo. Dopo parecchi secondi d’indecisione, ecco che mi dice: <<vabbè, una o l’altra tanto fa lo stesso…>> no, gli dico io che non fa lo stesso, mica è un’offerta speciale prendi due paghi uno, sono persone, due, fratelli, ma mica la stessa persona, e intanto gli riordinavo le foto appaiandole, Simone da una parte e Roberto 65
  • 66. dall’altra, ma non è che lo vidi troppo convinto ed ha continuato a guardare le fotografie un bel po’ prima di passare alla prossima, sempre continuando a brontolare da solo e senza guardarmi ridacchiare della sua perplessità, del resto abbastanza legittima e giustificata. Giocano in ruoli molte volte diversi, perché comunque diverse sono le loro attitudini, anche se entrambi corrono da matti, sulle loro leve all’apparenza esili, ma tutte nervi e velocità, potenza ed agilità. Tagliano il campo forsennati ma pronti al numero incredibile, al passaggio smarcante, o al tiro improvviso che sorprenda il portiere avversario. Se non eccedessero a volte in qualche colpo di tacco da infarto magari al limite della nostra area, sarebbero perfetti, tutto cuore anche loro, e questa devo dire che è senz’altro una delle caratteristiche di tutta la squadra. Lo scorso anno i ragazzi spesso si facevano prendere dallo sconforto appena sotto di un gol, con il risultato di perdere partite che potevano anche essere ribaltate, e tornare in campo la volta successiva con la certezza di buscarle, prendendo di solito reti nei primissimi minuti di gara. I gemelli si cercano in campo, si trovano spesso, realizzando anche azioni bellissime, e proprio gli scambi tra loro rappresentano spesso il fulcro della nostra manovra, chiudendo il triangolo con un altro protagonista che vedremo più avanti. Crescendo, anche loro hanno, entrambi, la buona probabilità di diventare davvero bravi, e spero che la loro abilità rimanga a lungo al servizio di questa squadra, dei colori che hanno dimostrato sempre d’amare, portandoli addosso non solo in occasione delle partite o degli allenamenti ma stretti al cuore come cosa propria. Mattia come vi dicevo, è mio figlio, anche lui portiere, dopo un primo anno d’esperienza a ricoprire diversi ruoli, dall’attaccante al difensore, tutto sommato senza grandi risultati, mentre in testa aveva soltanto di potersi finalmente infilare i guanti da estremo difensore, 66
  • 67. e riuscì a farlo dal secondo anno, quando il preparatore dei nostri portieri, accettò di metterlo alla prova una sera, con esiti abbastanza soddisfacenti da fargli dire che pure con molto impegno necessario, con l’assiduità agli allenamenti e la passione, il bambino poteva provare a diventare ciò che più gli piaceva. Il giorno dopo ebbe la sua prima maglia da portiere: scelse un magnifico arancio e nero, il numero uno sulla schiena. Lo penalizzava forse un pochino la statura non ancora altissima, confrontandola con quella d’altri piccoli portieri della sua stessa età, e una certa propensione alla svagatezza, alla gioiosa giocosità, che, in particolare durante gli allenamenti, lo portava a distrarsi facilmente, impegnato magari di più a sostenere uno scherzo con qualche compagno pure giocherellone, che a guardar palla. Per contro, era tutto preso dal ruolo non appena dall’allenamento si passava alla competizione, e così, in partita, sfoggiava spesso una concentrazione da fare invidia, ed assumeva un’aria tutta seria persino buffa a vedersi. Corrucciato anche, quando per lui il sorriso era il primo gesto di mattino al risveglio, e l’ultimo la sera prima di addormentarsi. Simpaticamente, il suo preparatore, lo sfida prima della partita con una scommessa, sempre uguale, ma che ha sortito buoni effetti, dicendogli che non riuscirà a rinviare il pallone oltre la metà campo, e lui gli sorride ma ha imparato così a sferrare certi calcioni alla palla da vincere sempre questa sfida, e nello stesso tempo migliorando le sue capacità in un ruolo che decisamente è complicato e ricco di responsabilità. Il ruolo del portiere richiede, infatti, una maturazione più lunga rispetto ad altri ruoli, oltre che una struttura fisica appropriata e un lavoro in allenamento molto differenziato. Sebbene mi sia difficile ora qui descriverne gli intendimenti e la gran voglia di diventare davvero bravo, che lui provava, non posso fare altro che ricordare la gran prova di ponderatezza che mi diede durante un partita della scorsa stagione, quando, mentre eravamo sotto di un gol e dopo l’intervallo sarebbe toccato a lui entrare al 67
  • 68. posto di Ettore, per l’ultima e decisiva frazione di gioco, riflettendo sulla sua poca esperienza, andò diritto dal Mister per dirgli che forse sarebbe stato meglio non far uscire Ettore e tentare di pareggiare la partita, e che a lui non sarebbe importato di non giocare, se per la squadra fosse stato importante. Il mister lo guardò come ad un marziano e dicendogli che non se ne parlava proprio lo spedì subito in campo, dove lui sfoggiò imbattuto una prestazione memorabile per poi correre a farsi intervistare dal giornalista presente per il giornalino sportivo del calcio giovanile, tutto orgoglioso nonostante la sconfitta di misura, per essere riuscito a non prendere altri goal in quella che era una delle sue primissime uscite come portiere. Conoscendo la sua determinazione nel sostenere il ruolo che ha scelto, spero che crescendo un pochino capisca inevitabilmente che il miglioramento tecnico è frutto non soltanto dell’impegno in partita. Il miglioramento personale in uno sport, qualsiasi esso sia, è dovuto soprattutto all’apprendimento continuo ed alla serietà sul campo di allenamento. C’è un patto silenzioso tra noi due, e devo assicurare che negli ultimi mesi lo sta mantenendo davvero, togliendosi qualche bella soddisfazione anche a fronte di quanti hanno avuto dubbi sul suo attaccamento al ruolo. Paola è la nostra piccola principessa, ma guai a pensare che sia una mascotte per la squadra. Lei della squadra fa parte ormai da tre anni, e nulla al mondo potrebbe distoglierla dai suoi compagni, dai suoi amici. L’impegno nel migliorare e nell’apprendere che lei ha dimostrato in questi anni, è semplicemente incredibile, ed, infatti, i progressi che ha fatto nel gioco sono il risultato della sua grandissima serietà e forza di volontà. Se qualche volta ancora, pur molto meno che in passato, risulta frenata da una predisposizione atletica non eccellente, che sta affinando crescendo, nello sviluppo muscolare che la penalizza nella 68
  • 69. corsa, ha pur fatto passi giganteschi nel migliorare la tecnica di gioco e l’intelligenza tattica. L’allenamento continuo e la maturazione fisica più precoce rispetto ai compagni maschi l’aiutano nel progresso atletico, mentre una spiccata intelligenza le facilita l’apprendimento. Parecchi suoi compagni faticano a comprendere meccanismi tattici, sia pure semplici quanto lo possono essere quelli insegnati ai bambini, mentre per lei sembra naturale imporre il gioco con un tocco delicato e preciso. E’ stupefacente vederla spalle alla porta distribuire ai compagni palloni su palloni, con un tempismo ed una precisione incredibili, oppure andare in pressing su avversari anche a volte ben più grandi e grossi di lei, ma ostinatamente rincorrerli ed ostacolarli sino a prendere palla e favorire un nostro contropiede spesso messo a realizzazione da un suo lancio preciso. Più di una volta inoltre, si è fatta trovare pronta in azioni d’attacco sottoporta, e puntuale, con un colpo di testa o un calcio di giro ben fatto, ha risolto in gol meravigliosamente. Ricordo un episodio della fine della scorsa stagione, quando arrivammo alla fine di una delle partite del Trofeo Aldo Gastaldi, sul nostro campo, ed erano previsti i calci di rigore per assegnare un ulteriore punto in classifica. Quando il portiere avversario, che già aveva beccato durante la partita, si trovò davanti lei, pronta sul dischetto, si voltò verso i suoi compagni di squadra in maglia rossa, e abbastanza intempestivamente sghignazzando se ne uscì con un commento a voce alta del tipo: <<adesso figuriamoci se mi faccio fare gol da una femmina…>> Certo mancava solo la promessa di appendere gli scarpini ed i guanti al chiodo prematuramente nell’evenienza avversa. Senza dire una sola parola, ma con un malizioso sorrisetto sulle labbra, Paola prese una brevissima rincorsa, e, lasciando il poverino piantato per terra, piazzò il pallone esattamente all’incrocio dei pali, 69
  • 70. per poi voltarsi ed andarsene sommersa dall’abbraccio e dalle urla di tutti i compagni. Una bella lezione che credo quel ragazzo avrà imparato. Davide era il mio capitano di due stagioni fa e di quella dopo, probabilmente di sempre. Davide rappresentava ciò che ci si aspettava da lui, e lo sapeva. Se penso ad un capitano per la mia squadra, vedo Davide con la fascia al braccio, e quella fascia con la “C” scritta sopra, l’avevo acquistata io gialla e fiammante il giorno prima di una famosa partita di due stagioni fa, proprio per darla a lui, come feci poi, soli nello spogliatoio, chiedendogli solo se sapeva perché quella fascia volevo la portasse lui in quell’ultima partita. Mi ricompensò, come sapete, con una superba e coraggiosa vittoria, insieme a tutta la squadra. Migliorata la tecnica e la fantasia, più deciso nei confronti a centrocampo, dove spesso aspettava l’avversario per ingaggiare duelli fatti di finte ed eleganza nei movimenti, mai troppo frenetici ma precisi e fluidi, con i quali lo lasciava sul posto o lo costringeva al fallo inevitabile per non lasciarlo andare in porta, pronto a scoccare con il suo sinistro il tiro vincente. Doveva costruire ancora un carattere più sicuro dei propri mezzi, infatti, a volte lo frenava una certa disistima delle possibilità sue e della squadra. A volte si diceva preoccupato, prima di qualche partita importante che temeva di perdere, di non fare bella figura, e non era facile cercare di caricarlo a dovere. Lui, era pronto ad abbassare gli occhi davanti ad un incoraggiamento, come a pensare di non meritarselo, mentre sono sicuro vorrebbe credere di più e questo gli farebbe fare un altro enorme salto di qualità, anche così giovane. Sta cercando di migliorare il controllo ed il tiro anche con il piede destro, e l’impegno che ci mette darà sicuramente buoni frutti, anche se è con il sinistro che si esprime al meglio, tanto che qualche volta 70