«Il fattore K» by Valerio Cappelli and Giovanni Gavazzeni - Amadeus, no. 296 [July 2014]
1. Amadeus
Periodico di cultura musicale edito da Paragon edizioni
Anno XXVI numero 7 (296) luglio 2014
Direttore responsabile Gaetano Santangelo
In copertina, Domenico Mason, Lea Birringer,
Laura Bortolotto (Foto di Renato Bianchini)
Karajan-Kleiber: doppio
anniversario per due
40
direttori d'orchestra entrati nel mito.
Entrambi austriaci, personalità
e scelte professionali opposte
Christoph Willibald Gluck:
con il temperamento
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“selvaggio” delle sue opere
il compositore di “Orfeo ed Euridice”
scardinò le regole del melodramma
Paolo Fresu: incontro con
il celebre jazzista italiano,
50
il cui percorso si avvicina sempre più
spesso a formazioni e autori "classici”
da Monteverdi a Richard Strauss
> Amadeus è su internet www.amadeusonline.net
Rubriche
7 agorà
di Luca Cerchiari
9 in scena
a cura di Nicoletta Lucatelli
19 calendario
25 fondazione amadeus
26 appunti
74 note di viaggio
a cura di Nicoletta Lucatelli
78 musicaoggi
80 antica
a cura di Massimo Rolando Zegna
81 jazz
a cura di Franco Fayenz
82 fuoritema
a cura di Riccardo Santangelo
83 scaffale
a cura di Paola Molfino
84 libri
89 cd e video
a cura di Massimo Rolando Zegna
Servizi
30 cd 1
Federigo Fiorillo
di Davide Pitis
33 cd 1
Domenico Mason
di Claudia Abbiati
37 cd 2
Marco Sollini
di Claudia Abbiati
40 Karajan-Kleiber
di Valerio Cappelli
e Giovanni Gavazzeni
46 Anniversari: Gluck
di Paolo Gallarati
50 Paolo Fresu
di Andrea Milanesi
53 Laurent Pelly
di Guy Cherqui
56 Festival Spoleto-Fendi
di Nicoletta Lucatelli
59 Miloš Karadaglič
di Maurizio Corbella
62 Piet Mondrian
di Paolo Bolpagni
66 Strumenti alternativi
di Giuseppe Scuri
70 Brunello Rondi
di Marco Ranaldi
cd 1 Federigo Fiorillo
Concerti e Sinfonie concertanti
Lea Birringer e Laura Bortolotto, violini
Luca Vignali e Stefano Rava, oboi
Accademia d'Archi Arrigoni
Domenico Mason, direttore
guida all’ascolto di Davide Pitis
Sommario
cd 2 download digitale
I Valzer di Chopin
Marco Sollini, pianoforte
codice SW296BR14
(a pag. 39 le modalità per scaricare il cd 2)
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2. karajan (1908 -1989) – Kleiber (1930 - 2004)
Il fattore K
Karajan Paumgartner, ebbe parola su tutto, creandosi un suo mono-festival
Con la nomina a direttore a vita dei Berliner
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Philharmoniker (1955-89), alla morte del suo più
acerrimo detrattore, Wilhelm Furtwängler, il
regno di Herbert von Karajan si estese alle più importanti
capitali musicali d’Europa: Vienna, direttore musicale e
galvanizzatore dei Wiener Symphoniker; Londra, direttore
musicale della Philharmonia Orchestra, compagine
formidabile per intonazione e qualità che Walter Legge
gli costruì su misura; Milano, presenza fissa e trionfatore
non solo per le opere tedesche al Teatro alla Scala;
Lucerna, dominus del Festival per trent’anni. Con l’ultimo
gioiello berlinese la corona di Heribert Ritter von Karajan
(scomparso il 16 luglio di 25 anni fa) divenne quella di
un monarca assoluto, che si arricchì di ulteriori gemme:
la Wiener Staatsoper (1957-64) e il Festival di Salisburgo
(1956-89), nel cui ambito, dopo essersi disfatto del direttorio
presieduto dal suo maestro di composizione, Bernhard
Doppio anniversario per due
direttori d’orchestra entrati
nel mito. Austriaci entrambi,
personalità e scelte professionali
completamente diverse: i volti
opposti di una stessa medaglia
di GIOVANNI GAVAZZENI
nel periodo di Pasqua, quasi una anti-Bayreuth, per
realizzare il “suo” mirabile Wagner.
Niente male per un artista che alla fine della Seconda
guerra mondiale era dovuto riparare nell’anonimato a Milano
e a Trieste in casa di amici fidati (il conte Attilio Smecchia
e la famiglia del barone Goffredo De Banfield), per subire
poi in patria un non lieve processo di denazificazione (con
incluso divieto di dirigere in pubblico fino al ’48). La sua
fedina era segnata dall’iscrizione al Partito nazionalsocialista,
“tessera” presa ben prima dell’Anschluss (poco importa se
nel ’33 o nel ’35, e, come affermano gli agiografi, non per fede
ideologica ma per calcolo o necessità carrieristica). Sono anni
in cui il talento di Karajan esplode: nel ’34, a soli 26 anni, è il
più giovane Generalmusikdirektor del Terzo Reich ad Aachen
(Aquisgrana), dove una sua Elektra destò l’ammirazione
dell’autore presente, Richard Strauss. Per un eclatante Tristan
und Isolde che gli apre le porte della Staatsoper di Berlino
(teatro che era sotto l’egida diretta del Maresciallo Göring),
la stampa conia l’epiteto di Miracolo Karajan (Wunder
Karajan): da allora quel giovanotto di origini greco-armene
sarà per Furtwängler la sua ombra di Banquo. Per farsi largo
a quei tempi non bastavano tessere, relazioni altolocate o
scaltrezza manovriera, come rampognava Furtwängler,
ci voleva anche una dotazione naturale e Karajan era un
3. 41
fuoriclasse. Basti pensare che in Germania, partiti per le
inique sanzioni razziali grandi direttori come Blech, Busch,
Erich Kleiber, Klemperer, Walter, rimanevano sempre
in posti chiave Böhm, Jochum, Knappertsbusch, Krauss,
Rosbaud e Schuricht, per rimanere solo alla prima fila.
L’uomo della provvidenza per Karajan fu il Direttore
Artistico della Voce del Padrone, Legge. Questi piombò
subito nella Vienna occupata dagli Alleati (quella del Terzo
uomo di Graham Greene), incidendo con Karajan, i Wiener
e i migliori cantanti rimasti (Maria Cebotari, Erich Kunz,
Elizabeth Schwarzkopf), aggirando così il bando che vietava
agli inquisiti di dirigere in pubblico. Alla revoca, Karajan
era pronto per macinare concerti e registrazioni a ritmi
forsennati. Dall’intesa con Legge e la Emi nasceranno
dischi che hanno fatto storia (soprattutto nelle opere di
Mozart e Richard Strauss). L’asse Vienna-Londra si ruppe
nel ’60, quando Karajan diventò artista esclusivo Deutsche
Grammophon e i suoi interessi lo portarono ad abbandonare
sans souci il Mentore d’un tempo. Sugli anni di guerra e
sui pellegrinaggi postbellici l’interessato stese un velo di
reticenze e omissioni, allontanando in un alone di mistero
ogni domanda imbarazzante. Circolarono però notizie
utili: una disgrazia presso il Führer, causa un’esecuzione
dei Meistersinger in cui un vuoto di memoria determinò
un’ignominiosa interruzione dello spettacolo. Alla difesa
non fu estranea la seconda moglie, Anita Gütermann, figlia
di un facoltoso industriale con molte aderenze ed ebrea per
un quarto secondo le aberranti classificazioni razziali (da
cui divorziò, a bufera conclusa, nel ’58). Dal ’48 al ’55 un solo
teatro non si piegò al Wunder Herbert: Bayreuth. Già nel ’50
Wieland Wagner lo aveva invitato a dirigere il Tristan. Le
frizioni non mancarono, da subito, e per i motivi più svariati:
la pretesa di avere un bagno privato, quella di alzare il livello
dell’orchestra o di provare con i cantanti usando registrazioni
e di correggerli senza aspettare la conclusione della frase o
del periodo, e soprattutto di avere il primato sulle decisioni
in materia di cast. «Non potevamo affidare una segreteria
a lui solo», ricorda nelle sue memorie Wolfgang Wagner,
«così usava di soppiatto la carta intestata del Festival di
Bayreuth inserendo la parola “Direzione” in testa». Non
fu una buona idea quella di far condividere la guida del
Ring a due personalità così diverse come Karajan e Hans
Knappertsbusch, che non perdeva occasione per bersagliare
il giovane collega con il suo sarcasmo mordace. Alla fine di
una prova, dove Karajan suonava il pianoforte (e lo suonava
magnificamente) e “Kna” dirigeva, «circostanza per se stessa
eccezionale, stante la sua avversione al provare, il maestro
scese verso il terzo livello della nostra buca. Karajan con
una mano sul pianoforte, guardava in alto verso il suo
confrère considerabilmente più alto nell’attesa di sentire
4. un apprezzamento». “Kna”, assestandogli una pacca sulla
spalla, lo freddò: «Se da qualche parte si elemosina un posto
da ripetitore, metterò una buona parola per te»”. Quando il
rampante collega dirigeva a memoria, il decano commentava:
«Io posso leggere la musica».
Nel corso degli anni ’60 (secolo scorso) Karajan definì
in maniera capillare la sua immagine. Fotografie patinate,
capelli con i riflessi azzurrati, pose plastiche, occhi chiusi
in mistico contatto con gli autori, abiti di grande eleganza.
Scatti presi nei luoghi del jet-set: al timone del mega yacht
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a Saint-Tropez, sulle nevi di Sankt Moritz, a bordo del
jet privato pilotato personalmente. Nulla era lasciato al
caso. E il culto della personalità accompagnò la vendita
di centinaia di milioni di copie di dischi. Karajan ha
eternato se stesso attraverso le incisioni e le riprese video
(di cui fu pioniere e, manco a dirlo, esperto straordinario),
perseguendo quello scopo con crescente determinazione,
quasi un’ossessione, incidendo più volte gli stessi pezzi (non
sempre migliorandone l’interpretazione). Ne sanno qualcosa
i formidabili tecnici della Deutsche Grammophon svegliati
ad alta notte dalla voce chioccia e inflessibile del Maestro che
impartiva correzioni millimetriche e modifiche al balance.
Sul versante operistico Karajan colse successi
memorabili anche nel repertorio italiano: dalla Lucia
scaligera con la Callas ai sontuosi Puccini (La bohème
e Tosca), all’amato Verdi (Il trovatore, Don Carlo, Aida,
Otello). Assunse anche l’onere della regia dei suoi
spettacoli a Vienna e Salisburgo (quasi sempre oggetto di
non poche critiche, stante anche il gusto non lieve del suo
scenografo di fiducia, Günther Schneider-Siemssen).
Il General Manager del Met, Rudolf Bing, colui il quale
vinse le non poche riserve degli americani per l’ex tesserato
Nasdap Karajan, riuscì a scritturarlo per il Ring a New
York (non completato causa un clamoroso sciopero). Bing
narra, con umorismo mitteleuropeo, le innumerevoli
problematiche sorte già in fase preliminare con una varietà di
intermediari: «Il manager personale e segretario, André von
Mattoni, l’incaricato d’affari per i contratti, dottor Steffan;
il suo agente artistico a Parigi, Michel Glotz, e il curatore
delle faccende americane, Mister Peter Wilford». Difficile
anche la trattativa diretta. «Lui è timido, come sono io: gli
si offre una sigaretta, risponde che non fuma; gli si offre da
Karajan da ascoltare
In occasione del venticinquennale della morte, Warner
Classics ha iniziato la pubblicazione in 12 cofanetti del-l’integrale
(Official Remastered Edition) di tutte le regi-strazioni
effettuate da Karajan per la Voce del Padrone -
Emi, da quelle viennesi post-belliche (336180) alle famose
Nove sinfonie di Beethoven di Londra (3373454), alle prime
con i Berliner fino al 1960 (336234). Musica sinfonica e cora-le,
escluse soltanto le opere complete. Soprattutto nel primo
ventennio si trovano le registrazioni più preziose dal punto
di vista interpretativo (i Valzer degli Strauss, le arie e i brani
operistici). Deutsche Grammophon ha congiunto il ricor-do
di Karajan con la ricorrenza dei 150 anni dalla nascita di
Richard Strauss con un cofanetto Karajan-Strauss: 11 cd e
un blu ray (4792686). In luglio arriva anche il primo ciclo
beethoveniano con i Berliner, quello del 1963 (4793442),
mentre è già disponibile una non meno monumentale Sym-phony
Edition in 38 cd (4778005). g.g.
5. 43
bere, e non beve, “facciamo colazione insieme”, e lui non
mangia mai a mezzogiorno». Questioni spinose saltano fuori
come funghi: il Maestro scrittura un costumista (Georges
Wakhévitch) senza preavvertire; contatta altri soprani per
la “parte” di Brünnhilde irritando la regina del Met, Birgit
Nisson, che già non ama lavorare con un uomo «privo di
senso dell’umorismo»; esige un doppio cast completo. Però
«quando vuole segue i cantanti in modo sublime, e in genere
lo vuole», c’è sempre la fissazione “luci”. Karajan ordina al suo
assistente Nikolaus Lehnhoff: «Luce su Wotan!». Il comando
da questi passa al responsabile luci del Met, Rudy Kuntner,
che lo trasmette in cabina-luci. Quando l’uomo in cabina
domanda: «Chi è Wotan?», Bing fugge dalla sala.
I detrattori di Karajan non mancavano di sottolineare la
spregiudicatezza di scegliere voci troppo liriche per ruoli
drammatici (ad esempio, Christa Ludwig come Kundry),
dimenticando come questa scelta si inserisse in un disegno di
alleggerimento delle opere di Wagner e Strauss (si pensi alla
ricchezza di sfumature della Brünnhilde di Regine Crespin),
il cui modello era stato il suo maestro, Clemens Krauss.
E non bisogna dimenticare l’aiuto e la fiducia data a giovani
solisti (Cristian Ferras e Anne-Sophie Mutter, Yo-Yo Ma,
Antonio Meneses), accanto a storici sodalizi con Denis
Brain, Gieseking, Gould, Lipatti, Fournier, Rostropovič e
Weissenberg. La supposta scarsa attenzione alla musica
contemporanea, a parte le mirabili incisioni dei più noti
brani sinfonici di Schönberg, Berg e Webern, si smentisce
scorrendo attentamente il suo repertorio utile anche
per capire i gusti: non solo autori tedeschi – Hindemith,
Orff, Blacher, Fortner, Einem – ma anche con frequenza,
Bartók, Stravinskij (Sacre, Apollon e Sinfonia di salmi),
Honegger; e negli anni della Philharmonie “prime” di Britten
(War Requiem), Ligeti, Henze, Martin, Messiaen, Nono,
Penderecki. Nel repertorio sinfonico sono storicizzati il “suo”
Mozart, il titanico Beethoven, la famiglia Strauss, Brahms
e Bruckner, Richard Strauss e Sibelius (e mirabili sortite nel
decadentismo mahleriano). Più complesso il rapporto con il
primo romanticismo (Schubert, Schumann e Mendelssohn).
Comunque, si voglia o non si voglia, possiamo definire
Karajan un re Mida dell’esecuzione musicale: nelle sue mani
tutto diventava oro lucente.
Kleiber
di VALERIO CAPPELLI
Chi era Carlos Kleiber e perché molti tra i maggiori
direttori d’orchestra del mondo lo considerano come
il più grande di tutti? Nel mondo della musica, tra gli
anni ’70 e ’80, è diventato una leggenda. Quando a Berlino
è uscito il documentario Traces to nowhere, che raccoglie
le testimonianze di chi ci ha lavorato e lo ha conosciuto,
l’intera vetrina del negozio Dussmann a Friedrichstraße
(punto di riferimento discografico della città), ne dava conto.
Ad alimentare la leggenda concorse la sporadicità dei suoi
concerti e impegni operistici: l’assenza, si sa, aumenta la
fama. Ma questo non basta a spiegare il “caso” Kleiber.
Carlos Kleiber, di cui il 13 luglio ricorrono i dieci anni
dalla morte (era nato nel 1930, ancora a luglio, il 3), ha
diretto appena tredici opere: tre sono di Verdi, La traviata,
Otello e Falstaff; poi Carmen di Bizet, Elektra di Richard
Strauss, Die Fledermaus di Johann Strauss, Der Freischütz
di Weber, Adriana Lecouvreur di Cilea, Wozzeck di Berg,
Tristan und Isolde di Wagner. Poi due titoli di Puccini, La
bohème e Madama Butterfly (che non volle più dirigere
dopo il 1968 a Monaco) e Der Rosenkavalier di Strauss che
fu il suo marchio di fabbrica e di cui si sono contate ben 120
recite sotto la sua guida. Kleiber era affascinato da un’idea
di Vienna che scaturisce dal Rosenkavalier, come un mondo
scomparso che riemerge dalla nebbia. Strauss adopera
elementi del lessico musicale del ’700, cita addirittura
un tema della Zauberflöte ma poi li combina col valzer
creando una cornice strumentale che forse soltanto nel ’900
era possibile concepire. Insomma, inventa un linguaggio
completamente artificiale, tutto centrato sul tema del tempo
che scorre inavvertitamente ma inesorabilmente. L’ultima
fiammata della tradizione musicale tedesca che rivive
attraverso una elaborazione intellettuale raffinatissima,
consapevole della crisi del linguaggio e dell’imminenza della
fine che accompagnarono il ’900.
Alla Scala fu protagonista, all’interno di questo stretto
recinto di titoli in cui si esercitò nevroticamente, di alcune
prime memorabili: 1975,Der Rosenkavalier; 1976, Otello;
1970, Tristan und Isolde; 1979, La bohème. Quello che
secondo i suoi stessi colleghi viene ritenuto il più grande
6. talento direttoriale del ’900 musicale non ha mai toccato il
teatro musicale di Mozart né la Nona sinfonia di Beethoven.
Franco Zeffirelli, con cui Kleiber ha collaborato in ben
quattro produzioni (La traviata, La bohème, Carmen, Otello)
cercò invano di convincerlo a dirigere il Don Giovanni,
Kleiber gli rispose che di quell’opera sono belli solo l’inizio
e la fine. Il regista tornò alla carica per Il trovatore, ma non
ci fu nulla da fare. Ci riprovò con un titolo con cui si era già
misurato, Falstaff. Gli rispose che non trovava di buon gusto
la battuta finale, «tutto nel mondo è burla». «Ma è l’addio di
Verdi al mondo», obiettò Zeffirelli. Kleiber: «Non è spiritoso,
un artista che rappresenta se stesso non è corretto».
Questa parsimonia, per usare un eufemismo, è vera fino a
un certo punto. Da giovane, quando si faceva chiamare con
lo pseudonimo di Carl Keller, Carlos non si risparmiò. Dopo
un piccolo concerto a Montevideo, il vero debutto avvenne
a Potsdam il 12 febbraio 1955, a 25 anni, nell’operetta
Gasparòne di Karl Millöcker. A Düsseldorf (una delle due
città tedesche in cui si formò, insieme con Stoccarda, dove
acconsentì per la prima e unica volta in modo compiuto,
nel 1970, a filmare le prove di un suo concerto) condusse
un gran numero di lavori: I due Foscari e Rigoletto, Hänsel
und Gretel e La vedova allegra; per non parlare dei balletti,
Coppélia, Abraxas… Dunque, finito l’apprendistato, quando
Kleiber “divenne” Kleiber, decise di dedicarsi a pochi
titoli, sempre quelli. Sua sorella, Veronica (che Amadeus
intervistò in esclusiva nel luglio 2010, n.d.r.), ha raccontato
che Carlos dirigeva quando il frigo era vuoto, o c’erano bei
panorami nelle città che lo invitavano. Accettò una sola
volta un incarico stabile, come direttore principale, nel
1965 a Wurttemberg. Qualche anno prima, nel 1959, in un
teatro della provincia salisburghese, affrontò la sua prima
opera, La sposa venduta di Smetana. In quell’anno, dopo
una recita della Bohème, decise che era venuto il momento di
rinunciare allo pseudonimo di Karl Keller e di farsi chiamare
col suo vero nome. Lo annunciò nella sola breve intervista
da lui concessa nella sua vita, alla radio, durante l’intervallo
di un concerto ad Amburgo (aveva trent’anni); confessò che
l’idea del soprannome era di suo padre, lui la trovava «una
mascherata senza senso» a cui voleva mettere fine, «tanto il
pubblico prima o poi avrebbe scoperto la mia vera identità».
Carlos Kleiber aveva una devozione per il padre, il
celebre direttore d’orchestra Erich Kleiber, ma del padre-padre
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non parlava mai. L’amico e medico Otto Staindl ha
raccontato che «dovetti spiegargli a lungo dove l’avesse
superato, comunque non riuscii a convincerlo. Eppure
sapeva, o perlomeno immaginava, che sul podio lui poteva
fare fondamentalmente tutto». Questo farebbe pensare a
un’insicurezza di fondo, ma secondo Riccardo Muti questa
è una prospettiva sbagliata: «Carlos seguiva di nascosto le
prove di alcuni colleghi, cercava di scoprire se c’era qualcosa
di nuovo, di sconosciuto. Non chiedeva consigli, poneva
domande. Non era insicurezza: era curiosità.
Le sue domande erano una verifica. Aveva una sicurezza
ferrea delle sue idee».La sorella Veronica in un bel ciclo
di trasmissioni radiofoniche raccontò che quando erano
adolescenti il padre era solito portare la famiglia a Lugano.
Nel salotto troneggiava un pianoforte. Carlo e Veronica
vedendo un pianoforte vi si avventarono d’istinto. Il padre
vide la scena con la coda dell’occhio e si precipitò a chiudere
la tastiera. Prese la chiave e la scaraventò nel lago dicendo:
«In questa famiglia un solo Kleiber». Non voleva che Carlos
si mettesse sulla sua scia, era un modo per proteggerlo da
una carriera così aleatoria, era il suo modo di volergli bene.
Gli impose di iscriversi alla facoltà di Chimica a Zurigo,
esperienza che abbandonò presto. Il padre condizionò il
suo modo di vivere la musica. Erich apparteneva alla scuola
antica, era un direttore col dominio completo dell’orchestra,
arrivando alle prove della Nona sinfonia, prima di afferrare
la bacchetta, si limitava a esclamare: «Beethoven». Carlos
Kleiber era l’esatto opposto. Su Amadeus abbiamo
raccontato nel giugno 2012 di quel filmato delle prove da
Stoccarda in cui gli orchestrali lo guardavano come un
uomo della luna, perché Kleiber si affidava a metafore
e paradossi extramusicali, interrompendo di continuo
l’orchestra. Egli non si attardava mai su spiegazioni tecniche.
Ma investiva i musicisti con la sua energia creativa, con i suoi
tempi brucianti (non sempre lo erano), con quelle che sono
state definite delle improvvise folate di vento. Nel filmato
da Stoccarda si vede che gli anziani professori d’orchestra,
abituati ai ritmi massacranti e alla routine tedesca, all’inizio
lo guardarono con aria di diffidenza. Ma, essendo musicisti,
presto cambiarono idea, si resero conto che stavano vivendo
un’esperienza unica, irripetibile.
Aveva un gesto largo, elegante, morbido, fluttuava le
braccia nell’aria, sembrava danzare. Dirigeva ogni concerto
come se fosse l’ultimo della sua vita. Era capace di studiare
l’attacco della Quarta sinfonia di Brahms (una delle due del
suo “sacro recinto”, insieme con la Seconda) per sei mesi.
La fama internazionale, Carlos la raggiunse dirigendo nel
1974 Tristan und Isolde a Bayreuth. Il grande pianista russo
Sviatoslav Richter, che era presente in sala, nel suo diario
scrisse che Kleiber era il più grande direttore d’orchestra del
mondo. Entrando in camerino, trovò Kleiber depresso, era
in uno stato di apatia e malinconia; Richter gli disse quello
7. 45
Metti Kleiber a teatro
Firma del Corriere della Sera e storico collaboratore di
Amadeus, Valerio Cappelli – autore di questo articolo –
su Carlos Kleiber ha scritto a quattro mani con il critico
cinematografico Mario Sesti la pièce Carlos Kleiber.
Il titano insicuro, spettacolo teatrale con la regia di Pier
Luigi Pizzi andato in scena nel 2013 al Festival di Spoleto
e all’Opera di Roma nell’ambito della stagione alle Terme
di Caracalla. Una conversazione immaginaria
accompagnata da musica e proiezioni video di immagini
rare, che ha dato voce al mito Kleiber, interpretata da
Remo Girone e Anita Bertolucci.
che pensava di lui, e Carlos ebbe una reazione di improvvisa
felicità quasi fanciullesca. Quella sera Richter lo definì
«Il titano insicuro». Aveva un rapporto filiale con Herbert
von Karajan, anche se questi non riuscì mai a convincerlo
a dirigere nel suo regno, il Festival di Salisburgo (Kleiber
detestava lo star system). In comune avevano la passione
per le auto sportive. È celebre la sua lettera a Celibidache,
il quale con fare sprezzante (pesò anche la sua mancata
nomina alla guida dei Berliner) aveva liquidato Karajan
come «uno che piaceva alle masse come la Coca Cola»,
e definì Karl Böhm «un sacco di patate». Kleiber finse di
essere Toscanini ormai in cielo, insieme con i grandi del
passato, e scrisse a Celibidache: «Caro Sergiu, rompi le
scatole ma ti perdoniamo. Wilhelm Furtwängler ha detto
di non aver mai sentito il tuo nome. Papa Joseph, Wolfgang
Amadeus, Ludwig, Johannes e Anton volevano farti sapere
che i tuoi tempi sono tutti sbagliati. Bruno Walter a leggere
i tuoi rilievi si è quasi ammazzato dal ridere. Perché non
In queste pagine, Herbert von Karajan e Carlos Kleiber: il gesto,
il volto; sopra, Kleiber in concerto al Ravenna Festival nel 1997
offendi un po’ anche lui? Spiacente, devo comunicarti che
quassù tutti, di Herbert, vanno pazzi. Continua a divertirti.
Ti saluto con tutto il mio affetto. Arturo». Era molto
sensibile al fascino femminile e aveva un grande senso
dell’umorismo, mandava ai suoi amici decine di cartoline
firmandosi, in italiano, «il tuo vecchio minestrone»; durante
un concerto assunse le sembianze del connazionale tennista
Boris Becker, la racchetta al posto della bacchetta. Kleiber
aveva una personalità misteriosa, indecifrabile. Aveva una
passione per le poesie di Emily Dickinson e per molto tempo
fu convinto di essere la reincarnazione del suo cane. Che
cosa rimane oggi di Carlos Kleiber? A parte la preziose
testimonianza discografiche (Deutsche Grammophon sua
casa d’elezione e Sony con i due Concerti di Capodanno,
1989 e 1992) Maurizio Pollini (il quale era amico di Kleiber
e gli chiese qualche consiglio per la sua unica esperienza
sul podio al Rossini Opera Festival in La donna del lago,
ricavandone pochissimo) efficacemente osserva che «aveva
la capacità di comprendere la musica all’istante, se ne faceva
un’idea e l’espressione si risolveva in un gesto appropriato. Un
approccio alla musica del tutto personale, in parte mutuato
dall’esperienza di antichi maestri quali Furtwängler,
Toscanini, Bruno Walter. Un approccio che sta scomparendo,
il grande rigore, lo studio di ogni minimo dettaglio». Ecco, la
prima cosa che rimane di Kleiber, insieme con l’abbagliante
bellezza dei suoi concerti, quasi delle esperienze mistiche, è
il suo approccio etico.
Era un artista che non conosceva compromessi o la routine.
Poi c’è il rimpianto per non averlo mai sentito dirigere tanti
capolavori. Gli proposero Parsifal, lui rispose che non
aveva le braccia abbastanza lunghe. w