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Università degli Studi di Napoli
           “Federico II”




          Facoltà di Sociologia

         Corso di Laurea Magistrale in
Comunicazione pubblica, sociale e politica

                   Corso di
         Comunicazione d’impresa


                     Slide


            Anno Accademico 2011/2012


                                        Augusto Cocorullo
matr. M15000460




2
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Gruppi 1-7 Pecchenino - Gruppo 8 De Feo - Gruppo 9 Invernizzi - Gruppo 10 ? -
Gruppi 11-12 Signorelli - Gruppo 13 Codeluppi - Gruppo 14 ?
1. La comunicazione d’impresa
2. Le relazioni pubbliche
3. Il direct marketing
4. Il brand name
5. La visual identity
6. La pubblicità
7. Promozione e sponsorizzazione
8. Il comunicatore d’impresa in Italia
9. La comunicazione nei modelli organizzativi e nel contesto sociale
10. La responsabilità sociale delle imprese
11. Il consumo
12. Il consumo, teorie contemporanee
13. Il biocapitalismo
14. Il commercio equo e il consumatore etico




1. La comunicazione d’impresa
         Lo studio del settore disciplinare afferente alla sfera della comunicazione
d’impresa necessita di alcune premesse metodologiche, atte a fornire strumenti idonei
per     una   corretta   interpretazione     ed   un’efficace   comprensione     dei   concetti
successivamente esposti.
         Nello     specifico,   risulta    opportuno   focalizzarsi   sulla    definizione   di
“informazione” e sulle caratteristiche della comunicazione, in quanto elementi
strutturanti della disciplina in analisi. In particolare, l’informazione costituisce un
concetto centrale per lo studio della società contemporanea, configurandosi come
un’azione sociale cui si attribuisce un significato collettivamente condiviso, divenendo
in tal modo parte integrante del processo comunicativo.         Inoltre, per “comunicazione”
si intende un processo di trasmissione di informazioni tra soggetti, un’azione sociale,
reciproca e comunitaria, che si connota come “agire comunicativo” in termini di




                                                  3
dinamicità tra individui. Infatti, la comunicazione può essere considerata come relazione
tra soggetti che vogliono comunicare (intenzionalità), che possono comunicare (mezzi e
contesti),   che   riescono   a   comunicare      (valori   condivisi).   Nell’ambito   della
comunicazione d’impresa, interagiscono due tipologie di soggetti: l’impresa, che si
focalizza su modelli organizzativi e su modalità comunicative; il consumatore, che
sviluppa modelli di consumo mediante specifiche modalità comunicative. La relazione
che si è progressivamente instaurata tra i suddetti soggetti ha subito una sostanziale
evoluzione, provocando un mutamento del rapporto sia per l’impresa (dall’informazione
di mercato alla relazione con il consumatore) sia per il consumatore (dal bene di
consumo all’agire di consumo), fino all’“evaporazione” della relazione impresa-
consumatori. Questione particolarmente complessa è quella della definizione delle
peculiarità della professione del comunicatore d’impresa, in termini di competenze, di
possibilità occupazionali, di istituzionalizzazione professionale. Collegate alla
precedente, si elencano altre tematiche da approfondire: il piano di comunicazione,
l’ITC ed il telelavoro, il commercio equo e solidale, il consumo critico.


2. Le relazioni pubbliche
        Per “relazioni pubbliche” si intende l’insieme dei nessi relazionali strategici che
le organizzazioni mettono in atto nell’ambiente di riferimento. Le R. P. si configurano
come l’insieme delle attività dell’azienda finalizzate a sviluppare la credibilità,
potenziandone l’immagine e la reputazione, per ottenere benevolenza e consenso:
vengono altresì considerate come lo strumento finalizzato a governare in modo pro-
attivo i sistemi di relazione con i soggetti influenti, ai fini di un tempestivo
raggiungimento degli obiettivi aziendali.
        In particolare, le azioni di R. P. possono rivolgersi ai media, agli attori
economici (fornitori e concorrenti), alla sfera politica (istituzioni e partiti), alla società
civile (opinione pubblica e comunità locali), agli opinion leader. Le R. P. sono uno
strumento comunicativo di tipo composito, per il fatto che possono essere utilizzati
diversi canali per la loro implementazione (strumenti scritti, strumenti “immagine”,
strumenti orali); applicabile a diversi ambiti, dall’impresa al prodotto; rilevante in tutti i
settori della comunicazione d’impresa. Esse possono riguardare la comunicazione
istituzionale (Pubblic Affairs), la comunicazione di marketing (Consumer Relations), la




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comunicazione economico-finanziaria (Financial PR), la comunicazione organizzativa
(Internal Relations). Tali forme si servono di alcuni strumenti operativi specifici:
relazioni con i media, ossia strumenti di attivazione e gestione dei rapporti con i mezzi
ed i veicoli della comunicazione e con i giornalisti (conferenza stampa, comunicato
stampa, rassegna stampa); eventi di comunicazione, manifestazioni che prevedono la
partecipazione di pubblici interessati a specifiche tematiche (convention, mostre,
convegni, open day, workshop); eventi speciali, manifestazioni che implicano
l’associazione del nome di un soggetto aziendale ad una attività non direttamente riferita
all’operatore economico (sponsorizzazione, mecenatismo, patronage); pubblicazioni
editoriali, prodotti editoriali attraverso cui l’azienda divulga la propria mission, i propri
valori e la propria condizione sociale ed economica (bilanci, house-organ, newsletter,
brochure); media digitali, strumenti per coniugare le caratteristiche peculiari della
stampa unitamente agli aspetti tipici dei mezzi della comunicazione via web (email,
blog aziendale, forum, press room virtuale); musei aziendali, istituzioni culturali che
raccolgono e rendono fruibile il patrimonio materiale della produzione e della storia di
un’impresa.
       Inoltre, risulta opportuno analizzare le fasi di programmazione delle relazioni
pubbliche, sintetizzabili in specifici passaggi del metodo Gòrel. Nello specifico, dopo
aver individuato il pubblico di riferimento, sarà necessario specificare l’obiettivo che si
intende perseguire alla luce delle variabili (interne ed esterne) e degli influenti; si
procederà quindi con lo studio dei messaggi-chiave, effettuando alcuni pre-test su
piccoli campioni, al fine di definire una strategia operativa efficace in termini di
trasferimento dei contenuti, per poi valutare e misurare i risultati ottenuti.


3. Il direct marketing
       Il direct marketing è uno strumento che mira ad instaurare un rapporto diretto e
interattivo tra impresa e cliente, inteso come individuo singolo e specifico. Si
distinguono due forme di marketing diretto: tradizionale, rivolto a pubblici vasti;
specifico, finalizzato alla promozione. È opportuno specificare che il direct marketing si
differenzia dalle relazioni pubbliche per il fatto che esse si riferiscono a pratiche
comunicative considerate nella loro generalità e numerosità tipologica, a differenza




                                              5
della metodologia in analisi che, invece, si incentra esclusivamente sulla promozione di
un prodotto.
       Il d. m. si caratterizza per una serie di dimensioni particolari, focalizzandosi su
di un target specifico di utenti dei quali si hanno informazioni aggiornate,
configurandosi come relazione interattiva e biunivoca tra impresa e cliente, servendosi
di tecniche e strumenti per la misurazione del feedback, utilizzando, infine, una pluralità
di mezzi e di canali di comunicazione. Ed ancora, il marketing diretto si discosta dal
marketing di massa (mass marketing) in relazione a numerosi parametri: mentre il d. m.
si basa su di un approccio one-to-one, il m. m. si serve di un approccio standardizzato.
Altre differenze possono essere collocate nelle seguenti opposizioni: focus
sull’individuo/focus sul mercato; comunicazione impersonale/comunicazione personale;
fidelizzazione dei clienti/acquisizione di nuovi clienti; customer relationship
management/customer care. Nello specifico, il customer relationship management,
concetto strettamente legato a quello di fidelizzazione del cliente, prevede una continua
attività di monitoraggio in itinere del comportamento del cliente in termini di preferenze
d’acquisto, al fine di adattare l’offerta alla richiesta. In tal modo, il consumatore,
estremamente coinvolto nel processo produttivo, diviene “prosumer”, ossia produttore e
consumatore allo stesso tempo, determinando con la sua richiesta il prodursi di quella
data merce maggiormente richiesta.
       Il direct marketing trova ampia diffusione nell’ambito della società
contemporanea a causa dell’affermarsi di una serie di fattori contestuali specifici: la
frammentazione della società, attivando un processo di individualizzazione dei consumi
- indicatori dello status sociale ed economico dell’utente - ha determinato un’evoluzione
dei modelli consumistici, inducendo le imprese ad una iper-competizione. Inoltre,
concorrono all’affermazione del d. m. anche la diffusione dei new media, nonché la
riduzione dei costi di elaborazione e trasmissione dei dati. Un piano di direct marketing,
perché risulti valido ed efficace, deve articolarsi sulla base di sei fasi operative:
definizione degli obiettivi; individualizzazione del target; definizione della lista di
distribuzione sui target; selezione dei mezzi; creazione del messaggio; misurazione dei
risultati. Nello specifico, le due possibili strategie utilizzabili nel direct marketing, in
relazione ai mezzi di comunicazione, si riferiscono rispettivamente ai mass media,
caratterizzati da un ridotto livello di interattività, un target di ampie dimensioni e bassi




                                             6
costi di implementazione, la prima; a tecniche face-to-face, che si connotano in termini
di alti livelli di interattività, target di dimensioni ridotte ed alti costi per contatto, la
seconda.


4. Il brand name
        Per “brand name” si intende il nome di un prodotto o di un’azienda e,
precisamente, l’indicativo di un bene o servizio offerto sul mercato. È possibile
considerare due diverse accezioni del concetto in questione: quando ricorda il
bene/servizio e richiama direttamente il settore merceologico congiuntamente alle sue
funzioni od utilità, è detto b. n. “punto zero”; quando invece si prefigge l’obiettivo di
conferire una carica valoriale all’oggetto cui si riferisce, all’interno di un contesto di
marketing, viene definito b. n. “making sense”, applicato soprattutto ai prodotti che, a
causa di una saturazione di consumo, necessitano di un rinnovamento identitario.
        In particolare, il brand name “punto zero” deve essere facilmente pronunciabile
e memorizzabile, capace di distinguere il prodotto nella varietà esistente in quel
determinato segmento di mercato, anticipando funzioni e/o benefit. I criteri di
misurazione dell’efficacia di questa tipologia di b. n. sono la brand familiarity ed il
brand quale valore aggiunto, nella misura in cui esso concorre ad incrementare
l’affidabilità della merce cui si riferisce.
        Differenti sono le peculiarità del brand name “making sense”. Quest’ultimo,
infatti, deve marcare l’identità e la differenza rispetto ai concorrenti, facilitando la
awareness e l’accesso al senso. I criteri di misurazione dell’efficacia della tipologia di
brand name in analisi sono collocabili rispettivamente nella brand personality e nel
brand meaning. Un’ulteriore differenza tra i due tipi di b. n. citati attiene alla strategia
da utilizzare per la diffusione del brand stesso: nel caso di un b. n. del primo tipo, sarà
opportuno scegliere il mass marketing; nel caso di un b. n. del secondo tipo, sarà utile
optare per il direct marketing. A prescindere dalla tipologia, prima del lancio di un
brand name si dovranno verificare e valutare alcuni parametri: fittingness (capacità di
richiamo); distinctiviness (capacità di distinzione); mood (affettività del nome); speed of
learning (semplicità d’apprendimento).




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5. La visual identity
       Per “visual identity” si intende l’insieme degli elementi visuali, organizzati in un
programma di applicazioni specifiche (Visual Identity Program), che conferisce
all’impresa un profilo estetico definito e riconoscibile verso i diversi pubblici o partner.
Il “simbolo” ed il “marchio” hanno funzione sia segnaletica, indicando la presenza, sia
significante, essendo finalizzato a distinguere un determinato prodotto nel contesto di
mercato cui si inserisce. Nello specifico, il “marchio”, in quanto caso specifico di visual
identity, identifica un’entità trasmettendo se stesso come messaggio, sintetizza valori ed
informazioni raccontandoli in forma di elementi visibili e memorabili, consente una
rapida identificazione delle proprietà dei prodotti e dei servizi aziendali, garantisce e
difende la qualità della proposta prima dell’atto di acquisto. Si riconoscono tre diverse
tipologie di marchio: il logotipo, il pittogramma ed il diagramma. Diversi sono i
requisiti che devono connotare la visual identity di un prodotto o di un’azienda:
originalità, visibilità, semplicità, correttezza morale, riproducibilità, attrattività, alta
qualità grafica, longevità, presenza sul web, protezione legale. Infine, il Visual Identity
Program assolve alla funzione di fornire un preciso ed universale profilo visivo
dell’azienda, concretizzandosi nell’identificazione coerente dell’oggetto per il quale è
strutturato, definendone il corrispettivo posizionamento estetico.


6. La pubblicità
       Si distinguono tre diverse tipologie di pubblicità: p. “di prodotto”, atta a
qualificare l’immagine di un prodotto con lo scopo di aumentarne la richiesta; p. “di
impresa”, finalizzata all’affermazione dell’immagine dell’impresa per sviluppare
atteggiamenti positivi nel pubblico; p. “collettiva”, diretta all’incentivazione dell’uso
dei prodotti collocabili nello stesso settore merceologico.
       La pubblicità, in quanto strumento capace di favorire l’aumento della richiesta di
un bene, può produrre due tipi di effetti sulla domanda: effetto di traslazione, che, a
parità di prezzo, determina un aumento della domanda; effetto di cambiamento di
tendenza, che provoca una variazione dell’elasticità della domanda. Per quanto possa
essere ben strutturata ed articolata, una campagna pubblicitaria risente ed è condizionata
da alcuni fattori specifici, che ne determinano l’esito finale. Nello specifico, ci si
riferisce alla tendenza allo sviluppo della domanda per una classe di prodotti, alla




                                             8
validità del prodotto, al grado di differenziazione, all’efficienza della rete di
distribuzione ed infine all’impostazione della campagna pubblicitaria della concorrenza.
       Quale ulteriore tipologia di pubblicità, tipica del mercato contemporaneo, la
pubblicità “indiretta” (product placement) si inserisce in contesti non dichiaratamente
pubblicitari, insinuandosi in spazi dedicati ad altri scopi.


7. Promozione e sponsorizzazione
       Per “promozione” si intende uno strumento della comunicazione below the line,
che si differenzia dalla pubblicità in termini di tempestica, essendo finalizzata a favorire
un aumento tempestivo delle vendite di un prodotto, mediante il coinvolgimento diretto
del consumatore. Si riconoscono diverse forme di promozione: operazioni a premio
(raccolta punti), concorsi a premio (estrazione), riduzione dei prezzi, campioni omaggio,
telepromozione. Inoltre, la comunicazione della promozione deve basarsi su tre
presupposti logici: utilizzo di media a carattere locale, packaging strategico, presenza
effettiva dei prodotti oggetto di promozione.
Ed ancora, la “sponsorizzazione” si configura come comunicazione associata ad un
evento e/o personaggio. È possibile distinguere quattro diverse tipologie di
sponsorizzazione: s. sociale, s. culturale, s. sportiva, s. cinematografica-televisiva.


8. Il comunicatore d’impresa in Italia
       Il comunicatore d’impresa si occupa della progettazione e della gestione delle
dinamiche comunicative interne ed esterne all’impresa. L’affermarsi della suddetta
categoria professionale è favorita e determinata dal mutamento del contesto socio-
culturale ed economico proprio dell’età contemporanea: i cambiamenti organizzativi e
le trasformazioni dei processi comunicativi concorrono al costituirsi di nuove
professioni.
       Nello specifico, ci si riferisce all’impianto organizzativo delle imprese, definito
reticolare o “a rete”, che, attuando un processo di esternalizzazione di taluni servizi,
richiede figure atte a gestire tale potenziamento del flusso di comunicazione. Inoltre,
con l’avvento delle Information and Communication Technology (ITC) si impone un
cambiamento tecnologico nella gestione delle informazioni che, a sua volta, fa scaturire
maggiori e più complessi flussi comunicativi interni ed esterni all’impresa,




                                              9
opportunamente coordinati dai comunicatori d’impresa, con modalità di gestione del
lavoro meno gerarchiche e più partecipative.
           I comunicatori d’impresa operano sia in strutture esterne, grandi agenzie di
consulenza e servizio, piccoli e medi studi professionali, singoli consulenti in proprio
(freelance). Nello specifico, attraverso la consultazione della fonte Excelsior, database
online che definisce le previsioni sulle richieste di mercato, è stato possibile stilare una
lista di tipologie di professioni intellettuali e ad elevata specializzazione (NUP -
Nomenclatura delle unità professioni). Si distinguono: specialisti delle pubbliche
relazioni e dell’immagine (responsabile della comunicazione, responsabile delle
pubbliche relazioni); specialisti nei rapporti con il mercato (responsabile marketing,
account manager, key account manager); specialisti dei problemi del personale e
dell’organizzazione del lavoro (responsabile comunicazione interna, responsabile
risorse umane).
           Nell’ambito delle professioni tecniche, si collocano: tecnici del marketing
(addetto marketing, addetto sviluppo prodotti, product manager, assistente ricerche di
mercato); tecnici della pubblicità e delle pubbliche relazioni (addetto alle relazioni
pubbliche, tecnico pubblicitario). La consultazione delle tabelle contenenti le
percentuali delle previsioni di assunzione consente di elaborare alcune congetture sulle
prospettive future per il comunicatore d’impresa, in relazione ad alcuni parametri
specifici, quali: titolo di studio, esperienza e reperimento, area geografica e dimensione,
settore.
           In tale contesto analitico, assume particolare rilevanza la questione inerente
all’identità della comunicazione d’impresa come professione effettiva e dotata di un
proprio statuto disciplinare, etico e metodologico. In particolare, per “professione” si
intende un’attività lavorativa qualificata, di riconosciuta utilità sociale, svolta da
individui che hanno acquisito una competenza specializzata, seguendo un percorso di
studi complesso ed articolato. Al fine di illustrare le caratteristiche specifiche
dell’attività del comunicatore d’impresa, viene descritto un particolare caso di studio
che si propone di verificare se è possibile ritenere avviato il processo di
professionalizzazione della figura del comunicatore d’impresa.
           Come premessa metodologica, si espongono due diverse teorie che si incentrano
proprio sul concetto e sul significato del termine “professione”. Il funzionalista Talcott




                                             10
Parsons elabora una differenziazione tra “professione” ed “occupazione”: la prima, a
differenza della seconda, si svolge a partire dall’applicazione di una conoscenza
scientifica acquisita con un lungo percorso formativo, è applicata in ottemperanza di
determinanti valori etici ed è fondata sull’interesse collettivo. L’altra interpretazione
risale agli studiosi della Scuola di Chicago, secondo i quali è tendenza diffusa operare
idealizzazioni, generalizzando, del concetto di “professione”, che quindi si configura
come categoria d’uso comune utilizzata per raggiungere un determinato obiettivo.
       Dunque, la professionalizzazione costituisce un processo di normalizzazione
delle caratteristiche di una data attività, per il primo; può avviarsi a partire sia
dall’interno che dall’esterno, per i secondi. Emerge quindi il profilo professionale dei
comunicatori d’impresa, caratterizzato da un’alta expertise e da un ampio background
conoscitivo derivante da un lungo e complesso percorso formativo. Le diverse
segmentazioni categoriali di questa nuova figura professionale si articolano in relazione
al tipo di rapporto istituito con l’impresa e con lo Stato, ai programmi di formazione ed
alle relative competenze acquisite, al codice deontologico assunto come parametro di
comportamento. Nello specifico, il percorso formativo intrapreso e seguito dal
comunicatore d’impresa risulta essere multidisciplinare e trasversale in virtù delle
caratteristiche proprie delle scienze della comunicazione, nonché generalista ed aperto,
come conseguenza del dinamismo dei contesti organizzativi e tecnologici.
       Quanto detto, avvalora la tesi dell’esistenza della differenziazione dei profili
professionali della comunicazione d’impresa. Ed ancora, risulta opportuno focalizzarsi
sulle tipologie di competenze che devono essere possedute dalla figura in analisi:
competenze tacite, di tipo comunicativo, relazionale, emozionale e creativo; competenze
“codificate”,    di    stampo    informatico,    linguistico,   redazionale,    analitico,
psicologico/sociologico    ed   organizzativo/gestionale.   Tali   competenze     devono
necessariamente essere accompagnate da flessibilità formativa e disciplinare, secondo i
canoni dell’apprendimento on the job, a causa della disomogeneità e della pluralità dei
contesti lavorativi.
       Per l’analisi del rapporto tra comunicatore d’impresa e contesto lavorativo nel
quale esso si colloca ed agisce, occorre considerare due diversi modelli organizzativi. In
particolare, nel modello di “organizzazione razionale o meccanica”, il comunicatore
deve trasmettere informazioni verso i pubblici di interesse, implementando le sue




                                           11
attività entro limitati margini di discrezionalità nella gestione dei processi organizzativi,
che saranno standardizzati e razionalizzati, con condizioni di lavoro e carriera
gerarchicamente definite. Al contrario, nel modello di “organizzazione reticolare o a
nodi”, il comunicatore d’impresa deve instaurare un dialogo tra l’impresa ed i differenti
soggetti con cui essa entra in contatto, sfruttando la condizione di maggiore autonomia e
discrezionalità nella gestione dei flussi comunicativi, con un orientamento al servizio,
alla responsabilità ed alla crescita professionale.
       Altro aspetto importante attiene all’“associazionismo” nel campo della
comunicazione, che si concretizza in tre diverse tipologie di “associazione”: le
community, comunità di scelta e interazione individualizzata con limitate barriere
all’ingresso; i club, comunità professionali composte da membri influenti dell’élite
economica e culturale (es. direttori di imprese pubbliche e private, docenti universitari);
le associazioni di categoria, associazioni di rappresentanza sociale e istituzionale di
particolari categorie di professionisti (es. tecnici pubblicitari, professionisti delle
relazioni pubbliche). Le associazioni di categoria hanno precisi obiettivi e funzioni:
individuazione delle linee di sviluppo delle attività e definizione dei contenuti operativi;
determinazione dei contenuti deontologici delle attività professionali; riconoscimento
istituzionale delle attività professionali del settore della comunicazione.
       Particolare importanza viene data, soprattutto nel contesto contemporaneo, ai
codici deontologici, ossia alle regole di comportamento professionale atte ad ottenere
fiducia nella professione: l’autoregolazione nel campo della comunicazione è integrata
con la regolazione del mercato (es. assenza di tariffari minimi, nessuna limitazione di
pubblicità informativa circa le caratteristiche del servizio offerto).
       Infine, la questione della rappresentanza professionale si pone in termini di
dualismo tra professioni non regolamentate e professioni regolamentate; “unionismo
professionale” delle professioni della comunicazione come movimento per il
riconoscimento istituzionale (ICI - Interassociazione Comunicazione d’Impresa);
difficoltà delle nuove strategie collettive di riconoscimento, legate alla variabilità degli
interessi associativi ed all’eterogeneità della base sociale di riferimento; regolazione
professionale internazionale e definizione delle politiche a livello europeo.




                                             12
9. La comunicazione nei modelli organizzativi e nel contesto sociale
       I diversi modelli organizzativi esistenti trovano applicazione in specifiche
modalità di comunicazione, attraverso le quali vengono implementati ed applicati gli
schemi gestionali propri di ciascun modello. Nello specifico, al primo dei tre modelli
organizzativi individuati, il modello meccanico-razionale, corrisponde una strategia
comunicativa che si basa sul trasferimento di informazioni; al modello contingente-
proattivo è abbinato il controllo delle risorse comunicative; al modello reticolare-
interattivo si associa una costruzione di relazioni comunicative. I suddetti modelli, pur
differenziandosi in termini di metodologie organizzative proposte ed impostazione
generale strutturale, tuttavia presentano quattro tipologie di elementi costitutivi comuni:
elementi materiali, elementi economici, cultura e valori, relazioni sociali e
comunicative.
       In particolare, l’organizzazione razionale o meccanica si caratterizza per una
struttura di tipo piramidale estremamente incentrata sul contesto interno dell’impresa,
poco attenta all’ambiente esterno ad essa, tendente alla specializzazione dell’attività
lavorativa come conseguenza del carattere ripetitivo dell’attività pratica (catena di
montaggio). Il lavoro ad economia scalare si esplica in scambi retributivi e nella forma
peculiare del mercato ad assorbimento.
       Per quanto riguarda la dimensione etico-culturale, si osserva l’applicazione nel
processo produttivo di regole esterne (scienza ed economia), con il prevalere di valori
monetaristi abbinati a criteri di utilità ed efficienza. Il rapporto tra lavoratori assume
un’impostazione gerarchica di controllo disciplinare e gli scambi di informazione si
attengono sia al modello top down, sia al modello bottom up. Fulcro principale del
modello organizzativo razionale/meccanico è l’atto della comunicazione: in questo
contesto è necessario comunicare per comandare e controllare, per motivare e integrare
gli individui nel modello organizzativo (consenso, premi economici), per amministrare
con efficienza ed equità impersonale, infine, per valorizzare e coinvolgere i lavoratori in
obiettivi organizzativi. In sintesi, l’agire comunicativo nell’organizzazione razionale
assumerà le seguenti connotazioni: impersonale/strumentale; motivazionale/formale;
stabile/prevedibile.
       Il secondo modello organizzativo considerato si riferisce ad un’organizzazione
contingente e pro-attiva dell’impresa. Differente rispetto al modello precedentemente




                                            13
analizzato, quello contingente/pro-attivo si caratterizza per confini aperti e
maggiormente orientati verso l’ambiente esterno, nonché per una struttura di tipo socio-
tecnico. L’assetto economico si esplica in una produzione da mercato ed in scambi
retributivi. Dal punto di vista deontologico, prevalgono regole di autodisciplina
internalizzate, associate a valori sociali che orientano il sistema produttivo verso la
pubblica utilità ed il comune interesse. Le relazioni tra lavoratori e tra i vari strati
gerarchici si connotano in termini di bidirezionalità e di scambi di informazioni interno-
esterno e viceversa. In tale contesto, l’atto comunicativo assume quattro diverse finalità,
e il “comunicare” funge da strumento per: contenere i limiti della razionalità, riducendo
l’ambiguità nei processi decisionali; ridurre l’incertezza ambientale, favorendo
l’intervento pro-attivo; legittimare l’organizzazione, creando un’identità distintiva;
suscitare   il   sentimento   di    appartenenza.   L’agire      comunicativo   è   dunque
interpersonale/strutturale, informale/formale, interno/esterno.
       Come per l’organizzazione razionale/meccanica ci si avvale della metafora
dell’orologio meccanico per raffigurarne simbolicamente il funzionamento, per il
modello organizzativo contingente/proattivo si utilizza la metafora dell’azienda come
organismo dotato di una spiccata capacità di adattamento al contesto sociale,
economico,         politico        ed     ambientale        ad       esso       circostante.
       Infine, l’organizzazione reticolare ed interattiva si caratterizza per una serie di
elementi costitutivi specifici: materiali (open office, struttura senza confini - non
piramidale, ICT); economici (lavoro flessibile scambi progettuali - non materiali,
mercati plurimi); culturali (regolazioni - sanzioni sociali, reciprocità, negoziazione tra
soggetti in una rete interattiva); relazionali (cooperazione e partecipazione finalizzate al
raggiungimento di un comune obiettivo, scambi comunicativi bidirezionali).
       Tale modello viene stilizzato con la metafora dell’ologramma, determinando una
configurazione dell’azienda come struttura che, sebbene visualizzata da diverse
angolazioni, conserva le medesime peculiarità ontologiche. Attestata l’esistenza dei
sudetti modelli organizzativi e descrittene le proprietà principali, sarà opportuno
focalizzarsi sull’oggetto “impresa” generalmente inteso, alla luce degli effetti che la
società dell’informazione ha sortito su di essa. Nello specifico, i numerosi cambiamenti
sociali, scaturenti da una confluenza di elementi culturali e contestuali, hanno attivato
un processo di responsabilizzazione dell’impresa, sia verso l’interno sia verso l’esterno.




                                            14
L’impresa, quindi, ricopre il ruolo di istituzione sociale, ponendosi al centro tra
economia e società, in virtù della congettura di weberiana memoria. Un sostanziale
cambiamento attiene anche alla sfera prettamente organizzativa (de-gerarchizzazione,
sviluppo a rete, importanza degli intangibles), nonché a quella economica
(internazionalizzazione, nuove tecnologie, economia della conoscenza), ed in fine al
settore del consumo (diversificazione dei gruppi sociali, differenziazione culturale,
nuovi modelli di consumo). Notevoli sono altresì i mutamenti nella comunicazione:
maggiori flussi e articolazione della comunicazione, coerenza tra comunicazione interna
ed esterna, comunicazione d’impresa come identità distintiva.


10. La responsabilità sociale delle imprese
       Per “Responsabilità Sociale d’Impresa” (Corporate Social Responsibility, CSR)
si intende l’integrazione di preoccupazioni di natura etica all’interno della visione
strategica d’impresa. La CSR può essere definita come “integrazione volontaria delle
preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e
nei loro rapporti con le parti interessate. Nel dibattito incentrato sul rapporto tra etica e
mercato, occorre valutare quale sia il giusto equilibrio da raggiungere.
       Per quanto riguarda il processo di razionalizzazione dell’economia, si fa
riferimento all’Etica Protestante di Weber, in cui si sostiene che un sostrato culturale
aveva determinato la nascita del Capitalismo. In Weber la modernità si basa sulla
razionalità: si lavora perché è giusto farlo dal punto di vista individuale, come
individuale era il rapporto con Dio.
       L’impresa attraverso una visione consensuale del rapporto con l’individuo si
impegna a mantenere una buona condotta sociale: la RSI si connota per un carattere
volontario, per l’abbinamento di aspetti sociali ed ambientali nell’agire economico, per
una continua interazione tra impresa e soggetti con i quali entra in contatto. La CSR è
una strategia volta a riscuotere fiducia e notorietà presso diversi pubblici: l’impegno
sociale delle aziende si configura come elemento costitutivo dell’impresa che comunica
se stessa in un ottica di valori. L’attenzione per la responsabilità sociale scaturisce dal
rapporto instauratosi tra la pressione dei soggetti sociali e morali e la risposta/proposta
degli attori economici e delle aziende: i cittadini esercitano una pressione sugli attori
economici che, di conseguenza, rispondono a tali forze pressorie con proposte




                                             15
strategiche. La CSR in una prima fase assume la connotazione di filantropia,
successivamente diviene più strutturata configurandosi come welfare aziendale.
       Dopo la Grande Depressione, cade il mito del businessman e nasce il manager
come mediatore tra i beneficiari ed il business. Negli anni Cinquanta, si innesca un
processo di individualizzazione dell’azione responsabile. La figura del manager si
istituzionalizza e si pone come “servitore della società”, restituendo output specifici in
relazione a determinante richieste. La formalizzazione delle Human Relations è prova
dell’enfasi che viene applicata alla dimensione socio-umana delle dinamiche aziendali,
in termini di rispetto e sviluppo della persona. Il modello del welfare capitalism si
dispiega nel rapporto tra pressione sociale e possibili risposte ad essa collegate:
orientamento sociale (passivo) e responsabilità sociale (attiva). A tal proposito, il
bilancio sociale si configura come uno strumento attraverso il quale l’impresa
implementa pratiche di rendicontazione del proprio operato nei riguardi degli
stakeholder.
       La piramide di Carroll (1991) si propone di schematizzare i diversi tipi di
responsabilità sociale in relazione al rapporto tra ciascun livello della struttura
piramidale ed il consumatore. Nello specifico, si distinguono quattro diverse
declinazioni del concetto di CSR: responsabilità economica, pretesa dal cittadino;
responsabilità legale, richiesta dalla società; responsabilità etica, attesa dagli
stakeholders; responsabilità filantropica, desiderata dalla società. Il passaggio da una
responsabilità “dovuta” ad una “discrezionale” rappresenta quello che alcuni
definiscono come l’orientamento comunitario dell’impresa: in tal caso, si parla di
strategia sociale proattiva dell’impresa (marketing filantropico, Cause Related
Marketing).
       Ed ancora, la responsabilità etica riguarda le attese della comunità rispetto
all’attività aziendale. Tale responsabilità è stimolata dalla nuova consapevolezza del
consumatore e dall’emergere di una cultura della qualità della vita. A tali aspettative, le
imprese hanno risposto attraverso strumenti di comunicazione specifici in modo
autonomo o mediati da soggetti esterni.
       Per comunicazioni “dirette” si intendono messaggi pubblicitari che assicurano
l’impegno da parte dell’impresa verso attese etiche sulla produzione e sul ciclo del
prodotto (es. comunicazione ecologica). Al contrario, le comunicazioni “mediate” sono




                                            16
prodotte utilizzando soggetti terzi ed agenzie esterne all’impresa che certificano
l’impegno etico dell’azienda (es. ecolabel).
       Inoltre, la responsabilità filantropica riguarda le azioni messe in atto da
un’impresa indipendentemente dalle attese della comunità o degli stakeholders, in
quest’ottica l’impresa riconosce a se stessa un ruolo di soggetto che deve socializzare la
ricchezza prodotta al di là dei processi distributivi contrattuali e di mercato. In tale
ottica, costituiscono esempi di strumenti attraverso i quali implementare attività di
responsabilità filantropica: sponsorizzazioni sociali, donazioni, attività di marketing
legate ad una causa (CRM - Cause Related Marketing).
       In particolare, la CRM è uno strumento strategico che lega un’azienda o una
marca ad un’importante causa sociale o ad un’organizzazione non-profit per mutuo
beneficio. Le iniziative CRM prevedono la creazione di un legame tra l’entità del
contributo offerto dall’impresa per la causa con la vendita di un prodotto/servizio
aziendale. L’azione di CRM può durare per lungo tempo o per un periodo limitato alla
realizzazione della causa in oggetto.


11. Il consumo
       Il tema del consumo viene analizzato in funzione dei mutamenti affermatisi nel
settore e delle diverse teorie che ne hanno descritto le modalità di fruizione da parte
dell’individuo, evidenziandone caratteristiche e criticità. In primo luogo, il
cambiamento dei beni di consumo si ricollega al processo di smaterializzazione che ne
ha determinato una trasformazione in termini di tipologie di spinte all’uso da parte del
consumatore. Si parla, infatti, di perdita della sostanza fisica e durevole e di
acquisizione dell’immaterialità esperenziale e non durevole.
       Numerosi autori hanno proposto diverse interpretazioni dell’atto consumistico
alla luce delle principali teorie sociologiche e dell’assetto socioculturale proprio
dell’epoca in cui essi operavano. In particolare, Karl Marx (1818 - 1883) introduce il
concetto di “carattere feticcio” della merce, teorizzando un processo di mercificazione
delle relazioni sociali e del consumo. Nello specifico, il consumo, nella sua accezione di
godimento del bene di consumo stesso, viene descritto come “alienazione”. In tale
ottica, l’autore in questione spiega il passaggio dal “valore d’uso”, inteso come
relazione sociale tra il bene ed il consumatore, al ”valore di scambio”, quale relazione




                                           17
(non sociale) tra merci (feticci). Pertanto, il consumo si configura come variabile
dipendente dal sistema di produzione ed i bisogni individuali si conformano alle
esigenze della produzione capitalistica: la produzione produce il bene di consumo, il
modo del consumo e l’impulso al consumo. Ed ancora, Jean Baudrillard (1929 - 2007)
analizza la società consumistica nel suo passeggio dal valore d’uso al segno-valore,
determinante l’innescarsi di un processo di omologazione sociale e valoriale dell’agire
di consumo.
       I beni di consumo non si connotano solo per il loro valore d’uso (funzionalità
intrinseca), ma anche per il valore di scambio (significati astratti). Il bene assume
l’essenza di segno-valore, in quanto espressione di significati e marca di prestigio; essi,
inoltre, orientano il comportamento d’acquisto, creando un’immagine da ostentare ed
influenzando le relazioni sociali.
       Pierre Bourdieu (1930 - 2002) spiega il consumo in termini di “distinzione”: le
pratiche di consumo costituiscono un riflesso dei gusti nello spazio sociale. Nello
specifico, il consumo è determinato dall’habitus e dal contesto socioculturale personale
di ciascun individuo: l’habitus si attesta come status del corpo e la relazione tra habitus
individuale e di classe è definita dal capitale economico e culturale, in una struttura
sociale e gerarchica. In tale ottica, le pratiche di consumo si configurano come
espressione di posizione gerarchica e configurazione di potere simbolico: il grado
elevato di risorse economiche e culturali riesce a definire i gusti ed a orientare l’agire di
consumo stesso.
       In tale dibattito si colloca anche Veblen, noto per la funzione comunicativa che
attribuisce alle pratiche consumistiche, in termini di consumo vistoso. I beni di
consumo, collocabili alla base della rispettabilità del sistema sociale di riferimento,
concorrono all’ostentazione della ricchezza da parte di individui appartenenti a
determinate classi sociali. Le speculazioni sociologiche di Veblen appaiono fortemente
influenzate dal contesto sociale in cui egli operava, nonché dal processo involutivo
dell’aristocrazia francese con la complementare ascesa della nuova classe borghese che,
proprio nel consumo, poneva le fondamenta della sua legittimazione.
       Infine, Simmel introduce il concetto di trickle down (effetto fontana), secondo
cui le modalità di consumo proprie delle classi più elevate indirizzano ed influenzano
quelle delle classi subalterne. Pertanto, la cultura del denaro oggettivizza gli oggetti ed




                                             18
entra nell’agire di consumo, facendo perdere le connotazioni soggettive ai desideri; i
beni caratterizzano gli stili di vita come conseguenza del consumo e di relative
esperienze. In questo contesto, l’agire di consumo rappresenta una tendenza dei gruppi
sociali all’eguaglianza ed anche alla differenziazione.
       A tal punto, occorre precisare che, a causa del verificarsi di un sostanziale
cambiamento nel modello socio - economico, si è innescato un processo di
smaterializzazione      nella   società:   dal     fordismo   (rigidità,   standardizzazione,
massificazione) al postfordismo (flessibilità, innovazione, personalizzazione).


12. Il consumo, teorie contemporanee
       Consumo come cultura visibile: il soggetto consumatore attivo rielabora i
processi di scambio tra significati impliciti ed espliciti. Tali significati si collocano nelle
relazioni tra i beni e tutti controllano l’informazione quale bene principale della
contemporaneità. Pertanto, il consumo assume le caratteristiche di un’area in cui gli
individui lottano per accedere all’uso di determinati beni e controllare l’informazione.
       Consumo come significato culturale: il significato del bene è culturalmente
costruito e gli strumenti che si presuppongo reciprocamente per l’attribuzione dei
significati sono le categorie ed i principi culturali. Nei contesti sociali i beni di consumo
hanno biografia culturale o storia sociale e possono uscire dalla condizione di merce in
base all’uso fatto nella specifica società.
       Consumo come forma di linguaggio. Il consumo autonomo e indipendente dalle
logiche di produzione assume una funzione comunicativa di presenza e appartenenza
sociale, consentendo al consumatore di effettuare una scelta libera ed individuale, in
termini di accesso nel gruppo e nella stratificazione sociale.


13. Il biocapitalismo
       Il biocapitalismo è la più recente evoluzione del modello economico e sociale
capitalistico. È caratterizzato dall’intreccio dell’esistenza psicologica e materiale degli
individui con il processo di produzione di valore. Tale sistema attribuisce al
consumatore un ruolo estremamente attivo, evidenziando la sua capacità d’orientamento
della produzione in seguito alla richiesta maggiore o minore di un determinato bene. È
altresì verificabile l’innescarsi di un processo di esternalizzazione di determinate attività




                                              19
precedentemente svolte all’interno dell’azienda: l’outsourcing prevede appunto che il
consumatore provveda all’esecuzione di talune fasi così da consentire l’effettivo
completamento della produzione di un dato bene di consumo. Il percorso che ha
condotto alla determinazione ed all’affermazione del biocapitalismo ha origine a partire
dal processo di astrazione del mercato considerato nelle sue componenti costitutive.
       Il capitalismo, infatti, è caratterizzato dalla capacità di astrazione del lavoro, del
denaro, delle merci e del corpo. Pertanto, si passa dalla materialità ad un assetto
immateriale. La natura del biocapitalismo si connota anche in termini di passaggio
dall’economia materiale all’economia della conoscenza: dalla fabbrica che produce beni
alla società che produce conoscenza. In questo contesto, nasce la figura del prosumer, il
produttore-consumatore che, collocandosi nel sistema del libero mercato, concorre a
determinare gli orientamenti dello stesso. Il consumatore è quindi visto non solo come
punto d’arrivo del processo di consumo o come soggetto che fa un uso creativo del
consumo, ma anche come produttore di sapere, cultura, creatività, lavoro e
comunicazione.
       L’affermarsi del modello biocapitalistico determina una rottura della dimensione
spaziale e temporale: i mezzi di comunicazione consentono di abbattere le consuete
barriere sociali e con la rete nasce “l’individuo collettivo” confacente ai flussi del
biocapitalismo. Si assesta una diffusa tendenza alla crescita senza limiti ed il processo di
produzione di valore ingloba qualunque aspetto della vita e la tendenza è la crescita per
la crescita, definita da Codeluppi “escrescenza”, inseguita anche dal corpo. Questo è
sempre stato oggetto di controllo nella storia del capitalismo e la “medicalizzazione
della società” (M. Foucault) ne rappresenta un esempio. Attualmente il fenomeno è
divenuto estremo.
       Uno degli strumenti del biocapitalismo è collocabile nella marca, intesa come
nominativo applicato ad una determinata merce, atto a distinguere un prodotto dagli altri
appartenenti allo stesso settore merceologico. La marca identifica un significato,
creando emozioni; nasconde l’oggetto enfatizzando la dimensione simbolica; crea
valore (brand equity); assimila gli elementi culturali della società e si diffonde
nell’ambiente sociale, mutando gli stili di vita e di consumo. Il biocapitalismo presenta
altresì dei rischi ascrivibili ad una possibile appropriazione - e del relativo controllo -
delle forme culturali della società, all’ingerenza dell’agire strumentale nell’agire




                                            20
comunicativo; alla riduzione dello spazio privato occupato dalla cultura del consumo. Il
rischio principale del biocapitalismo, tuttavia, è collocabile nella possibile autofagia del
sistema: il modello economico biocapitalista, attraverso lo sfruttamento della cultura,
dei corpi, degli individui e della natura, potrebbe incorrere in un depauperamento del
sistema stesso.


14. Il commercio equo e il consumatore etico
       Il Commercio Equo e Solidale è un approccio alternativo al commercio
convenzionale; esso promuove la giustizia sociale ed economica, lo sviluppo
sostenibile, il rispetto per le persone e per l’ambiente, la crescita della consapevolezza
dei consumatori, l’educazione, l’informazione e l’azione politica. Tale forma di
commercio nasce negli anni Cinquanta e si configura, almeno nella sua fase aurorale,
come movimento a sfondo religioso, attestandosi come relazione paritaria fra tutti i
soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai produttori ai consumatori.
       In particolare, la determinazione dei prezzi dei prodotti, in questo caso, segue
criteri fondati sulla “coscienza”, non sulla classica relazione tra domanda ed offerta,
pratica, questa, che spiega il motivo per il quale i prezzi dei prodotti venduti nell’ambito
del commercio equo risultano più elevati rispetto a quelli del commercio tradizionale
(15 - 20 %).
       Nel contesto italiano, la forma di commercio in analisi assume un orientamento
più “locale” rispetto a quello tipico del commercio equo a livello mondiale, improntato
secondo logiche di una più ampia diffusione e visibilità di questa attività: in Italia si
registra l’esistenza di botteghe esclusivamente deputate alla vendita di prodotti importati
che, pertanto, ad eccezione di pochi casi, non vengono proposti e venduti nell’ambito di
grandi centri commerciali, come invece accade per altri paesi.
       Ai fini di un’implementazione efficace e fruttifera di pratiche di commercio
equo, è necessario che tra produttore ed importatore si instauri un rapporto di fiducia
che favorisca un’agevole collaborazione tra le suddette figure, in termini anche di
trasparenza circa le modalità di produzione delle merci importate. In particolare, il
commercio equo prevede una serie di specifiche attività e procedure: stabilire rapporti
economici diretti e continuativi, determinando un prezzo equo con i produttori;
effettuare un prefinanziamento ai produttori pari al 50% del costo totale della




                                            21
produzione; agevolare pratiche di agricoltura biologica e rispettose dell’ambiente,
finanziando progetti di sviluppo locale; favorire processi democratici, partecipativi e
trasparenti, sostenendo le minoranze ed i gruppi svantaggiati nell’ingresso ai mercati.
        Nel momento in cui i produttori stringono rapporti con gli importatori su base
fiduciaria, specificano determinati accordi con questi ultimi in relazione alle modalità di
produzione dei prodotti, effettuando periodicamente dei controlli per accettare
l’effettivo attenersi ai patti.
        A prezzi elevati, dunque, corrisponde un’alta qualità dei prodotti, caratteristica,
questa, che può essere anche certificata dai produttori. Nell’ambito del commercio equo,
si osserva un categorico rifiuto delle canoniche forme di promozione ed aumento della
visibilità dei prodotti, per il fatto che la pubblicità è ritenuta eccessivamente
“commerciale” rispetto all’impianto proprio della forma in analisi: il commercio equo si
prefigge l’obiettivo di accumulare profitto, per ovvi motivi economici, ma, allo stesso
tempo, non intende spingere il consumatore verso atteggiamenti ed inclinazioni
orientate al consumo esasperato dei beni.
        Ed ancora, la certificazione è la garanzia per il consumatore del rispetto dei
principi del ComES. La certificazione riduce i costi di transazione (certificazione di
filiera o di prodotto), in termini di verifica delle qualità che si suppone abbia un
prodotto, grazie anche alla base fiduciaria che si instaura tra produttore ed importatore
(CTM e Altro Mercato). Il prezzo equo rappresenta per il cliente la concretizzazione dei
principi del ComES e rende esplicita la composizione dei costi. Un esempio di struttura
che implementa pratiche di commercio equo è quello della cooperativa “E’ Pappici”, la
realtà più importante di ComES della Campania. Nasce nel 1993 come Associazione e
nel 1996 si trasforma in Cooperativa; nel 2008 comprende tre botteghe ed un
Magazzino Regionale, 224 soci, circa 10 persone a contratto (lavoratori e di servizio
civile) e circa 20 volontari.
        La campagna della cooperativa in analisi si propone di informare sul diritto
universale al cibo, valorizzare un mercato per ridurre le disuguaglianze nell’accesso al
cibo, offrire l’opportunità di costruire una cultura del consumo del cibo più consapevole
e responsabile, lanciare o ripresentare prodotti di filiera ComES inerenti alla campagna.
Le iniziative per la campagna “E’ Pappice” comprendono comunicazioni “in-store”
(volantini, brochure, manifesti), relazioni pubbliche (incontri con esponenti istituzionali,




                                            22
scuole, parrocchie, associazioni), iniziative “in-store” ed esterne (colazioni solidali,
presentazione di libri sul tema, concerti). Nel contesto del commercio equo, si colloca la
figura del consumatore responsabile. Le scelte di consumo sono attente alle
conseguenze sociali ed ambientali degli acquisti. I soggetti - definibili come
responsabili, etici e critici - costituiscono circa il 10% dei consumatori italiani. Le scelte
di consumo responsabile sono un ulteriore elemento che caratterizza l’identità e lo stile
di vita di questi consumatori (attivi nel volontariato, nella politica in attività
caritatevoli).
         Il consumatore responsabile si distingue per caratteristiche soggettive (alta
istruzione, reddito mensile alto, occupazioni di alto profilo, in prevalenza del Nord
Italia) e per una specifica visione del mercato in termini di: bassa fiducia nel mercato e
nelle pratiche commerciali (pubblicità); attuazione di comportamenti di non-acquisto;
valutazione dell’impatto ambientale del bene, della necessità della sostituzione di un
bene già in possesso, della facilità di utilizzo del prodotto.
        È possibile distinguere tre tipi di orientamento in base al senso attribuito
all’azione di acquisto dei beni delle filiere di commercio equo. Nello specifico, secondo
l’orientamento militante, il commercio è un’opportunità di attività politica sganciata
dalle forme partitiche tradizionali considerate corrotte o inadeguate (acquisto come atto
politico). L’orientamento devoto considera il commercio equo come un modo per poter
compiere un atto di “bene”, di “bontà” verso i poveri del mondo (acquisto come
impegno religioso). In relazione al terzo ed ultimo orientamento, quello ritualista, il
commercio equo si configura come una moda, un atto che guarda alla caratteristica
intrinseca del bene (es. prodotto biologico) ma anche un acquisto distratto (acquisto
come moda o atto differenziato).




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  • 1. Università degli Studi di Napoli “Federico II” Facoltà di Sociologia Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione pubblica, sociale e politica Corso di Comunicazione d’impresa Slide Anno Accademico 2011/2012 Augusto Cocorullo
  • 3. Slide Gruppi 1-7 Pecchenino - Gruppo 8 De Feo - Gruppo 9 Invernizzi - Gruppo 10 ? - Gruppi 11-12 Signorelli - Gruppo 13 Codeluppi - Gruppo 14 ? 1. La comunicazione d’impresa 2. Le relazioni pubbliche 3. Il direct marketing 4. Il brand name 5. La visual identity 6. La pubblicità 7. Promozione e sponsorizzazione 8. Il comunicatore d’impresa in Italia 9. La comunicazione nei modelli organizzativi e nel contesto sociale 10. La responsabilità sociale delle imprese 11. Il consumo 12. Il consumo, teorie contemporanee 13. Il biocapitalismo 14. Il commercio equo e il consumatore etico 1. La comunicazione d’impresa Lo studio del settore disciplinare afferente alla sfera della comunicazione d’impresa necessita di alcune premesse metodologiche, atte a fornire strumenti idonei per una corretta interpretazione ed un’efficace comprensione dei concetti successivamente esposti. Nello specifico, risulta opportuno focalizzarsi sulla definizione di “informazione” e sulle caratteristiche della comunicazione, in quanto elementi strutturanti della disciplina in analisi. In particolare, l’informazione costituisce un concetto centrale per lo studio della società contemporanea, configurandosi come un’azione sociale cui si attribuisce un significato collettivamente condiviso, divenendo in tal modo parte integrante del processo comunicativo. Inoltre, per “comunicazione” si intende un processo di trasmissione di informazioni tra soggetti, un’azione sociale, reciproca e comunitaria, che si connota come “agire comunicativo” in termini di 3
  • 4. dinamicità tra individui. Infatti, la comunicazione può essere considerata come relazione tra soggetti che vogliono comunicare (intenzionalità), che possono comunicare (mezzi e contesti), che riescono a comunicare (valori condivisi). Nell’ambito della comunicazione d’impresa, interagiscono due tipologie di soggetti: l’impresa, che si focalizza su modelli organizzativi e su modalità comunicative; il consumatore, che sviluppa modelli di consumo mediante specifiche modalità comunicative. La relazione che si è progressivamente instaurata tra i suddetti soggetti ha subito una sostanziale evoluzione, provocando un mutamento del rapporto sia per l’impresa (dall’informazione di mercato alla relazione con il consumatore) sia per il consumatore (dal bene di consumo all’agire di consumo), fino all’“evaporazione” della relazione impresa- consumatori. Questione particolarmente complessa è quella della definizione delle peculiarità della professione del comunicatore d’impresa, in termini di competenze, di possibilità occupazionali, di istituzionalizzazione professionale. Collegate alla precedente, si elencano altre tematiche da approfondire: il piano di comunicazione, l’ITC ed il telelavoro, il commercio equo e solidale, il consumo critico. 2. Le relazioni pubbliche Per “relazioni pubbliche” si intende l’insieme dei nessi relazionali strategici che le organizzazioni mettono in atto nell’ambiente di riferimento. Le R. P. si configurano come l’insieme delle attività dell’azienda finalizzate a sviluppare la credibilità, potenziandone l’immagine e la reputazione, per ottenere benevolenza e consenso: vengono altresì considerate come lo strumento finalizzato a governare in modo pro- attivo i sistemi di relazione con i soggetti influenti, ai fini di un tempestivo raggiungimento degli obiettivi aziendali. In particolare, le azioni di R. P. possono rivolgersi ai media, agli attori economici (fornitori e concorrenti), alla sfera politica (istituzioni e partiti), alla società civile (opinione pubblica e comunità locali), agli opinion leader. Le R. P. sono uno strumento comunicativo di tipo composito, per il fatto che possono essere utilizzati diversi canali per la loro implementazione (strumenti scritti, strumenti “immagine”, strumenti orali); applicabile a diversi ambiti, dall’impresa al prodotto; rilevante in tutti i settori della comunicazione d’impresa. Esse possono riguardare la comunicazione istituzionale (Pubblic Affairs), la comunicazione di marketing (Consumer Relations), la 4
  • 5. comunicazione economico-finanziaria (Financial PR), la comunicazione organizzativa (Internal Relations). Tali forme si servono di alcuni strumenti operativi specifici: relazioni con i media, ossia strumenti di attivazione e gestione dei rapporti con i mezzi ed i veicoli della comunicazione e con i giornalisti (conferenza stampa, comunicato stampa, rassegna stampa); eventi di comunicazione, manifestazioni che prevedono la partecipazione di pubblici interessati a specifiche tematiche (convention, mostre, convegni, open day, workshop); eventi speciali, manifestazioni che implicano l’associazione del nome di un soggetto aziendale ad una attività non direttamente riferita all’operatore economico (sponsorizzazione, mecenatismo, patronage); pubblicazioni editoriali, prodotti editoriali attraverso cui l’azienda divulga la propria mission, i propri valori e la propria condizione sociale ed economica (bilanci, house-organ, newsletter, brochure); media digitali, strumenti per coniugare le caratteristiche peculiari della stampa unitamente agli aspetti tipici dei mezzi della comunicazione via web (email, blog aziendale, forum, press room virtuale); musei aziendali, istituzioni culturali che raccolgono e rendono fruibile il patrimonio materiale della produzione e della storia di un’impresa. Inoltre, risulta opportuno analizzare le fasi di programmazione delle relazioni pubbliche, sintetizzabili in specifici passaggi del metodo Gòrel. Nello specifico, dopo aver individuato il pubblico di riferimento, sarà necessario specificare l’obiettivo che si intende perseguire alla luce delle variabili (interne ed esterne) e degli influenti; si procederà quindi con lo studio dei messaggi-chiave, effettuando alcuni pre-test su piccoli campioni, al fine di definire una strategia operativa efficace in termini di trasferimento dei contenuti, per poi valutare e misurare i risultati ottenuti. 3. Il direct marketing Il direct marketing è uno strumento che mira ad instaurare un rapporto diretto e interattivo tra impresa e cliente, inteso come individuo singolo e specifico. Si distinguono due forme di marketing diretto: tradizionale, rivolto a pubblici vasti; specifico, finalizzato alla promozione. È opportuno specificare che il direct marketing si differenzia dalle relazioni pubbliche per il fatto che esse si riferiscono a pratiche comunicative considerate nella loro generalità e numerosità tipologica, a differenza 5
  • 6. della metodologia in analisi che, invece, si incentra esclusivamente sulla promozione di un prodotto. Il d. m. si caratterizza per una serie di dimensioni particolari, focalizzandosi su di un target specifico di utenti dei quali si hanno informazioni aggiornate, configurandosi come relazione interattiva e biunivoca tra impresa e cliente, servendosi di tecniche e strumenti per la misurazione del feedback, utilizzando, infine, una pluralità di mezzi e di canali di comunicazione. Ed ancora, il marketing diretto si discosta dal marketing di massa (mass marketing) in relazione a numerosi parametri: mentre il d. m. si basa su di un approccio one-to-one, il m. m. si serve di un approccio standardizzato. Altre differenze possono essere collocate nelle seguenti opposizioni: focus sull’individuo/focus sul mercato; comunicazione impersonale/comunicazione personale; fidelizzazione dei clienti/acquisizione di nuovi clienti; customer relationship management/customer care. Nello specifico, il customer relationship management, concetto strettamente legato a quello di fidelizzazione del cliente, prevede una continua attività di monitoraggio in itinere del comportamento del cliente in termini di preferenze d’acquisto, al fine di adattare l’offerta alla richiesta. In tal modo, il consumatore, estremamente coinvolto nel processo produttivo, diviene “prosumer”, ossia produttore e consumatore allo stesso tempo, determinando con la sua richiesta il prodursi di quella data merce maggiormente richiesta. Il direct marketing trova ampia diffusione nell’ambito della società contemporanea a causa dell’affermarsi di una serie di fattori contestuali specifici: la frammentazione della società, attivando un processo di individualizzazione dei consumi - indicatori dello status sociale ed economico dell’utente - ha determinato un’evoluzione dei modelli consumistici, inducendo le imprese ad una iper-competizione. Inoltre, concorrono all’affermazione del d. m. anche la diffusione dei new media, nonché la riduzione dei costi di elaborazione e trasmissione dei dati. Un piano di direct marketing, perché risulti valido ed efficace, deve articolarsi sulla base di sei fasi operative: definizione degli obiettivi; individualizzazione del target; definizione della lista di distribuzione sui target; selezione dei mezzi; creazione del messaggio; misurazione dei risultati. Nello specifico, le due possibili strategie utilizzabili nel direct marketing, in relazione ai mezzi di comunicazione, si riferiscono rispettivamente ai mass media, caratterizzati da un ridotto livello di interattività, un target di ampie dimensioni e bassi 6
  • 7. costi di implementazione, la prima; a tecniche face-to-face, che si connotano in termini di alti livelli di interattività, target di dimensioni ridotte ed alti costi per contatto, la seconda. 4. Il brand name Per “brand name” si intende il nome di un prodotto o di un’azienda e, precisamente, l’indicativo di un bene o servizio offerto sul mercato. È possibile considerare due diverse accezioni del concetto in questione: quando ricorda il bene/servizio e richiama direttamente il settore merceologico congiuntamente alle sue funzioni od utilità, è detto b. n. “punto zero”; quando invece si prefigge l’obiettivo di conferire una carica valoriale all’oggetto cui si riferisce, all’interno di un contesto di marketing, viene definito b. n. “making sense”, applicato soprattutto ai prodotti che, a causa di una saturazione di consumo, necessitano di un rinnovamento identitario. In particolare, il brand name “punto zero” deve essere facilmente pronunciabile e memorizzabile, capace di distinguere il prodotto nella varietà esistente in quel determinato segmento di mercato, anticipando funzioni e/o benefit. I criteri di misurazione dell’efficacia di questa tipologia di b. n. sono la brand familiarity ed il brand quale valore aggiunto, nella misura in cui esso concorre ad incrementare l’affidabilità della merce cui si riferisce. Differenti sono le peculiarità del brand name “making sense”. Quest’ultimo, infatti, deve marcare l’identità e la differenza rispetto ai concorrenti, facilitando la awareness e l’accesso al senso. I criteri di misurazione dell’efficacia della tipologia di brand name in analisi sono collocabili rispettivamente nella brand personality e nel brand meaning. Un’ulteriore differenza tra i due tipi di b. n. citati attiene alla strategia da utilizzare per la diffusione del brand stesso: nel caso di un b. n. del primo tipo, sarà opportuno scegliere il mass marketing; nel caso di un b. n. del secondo tipo, sarà utile optare per il direct marketing. A prescindere dalla tipologia, prima del lancio di un brand name si dovranno verificare e valutare alcuni parametri: fittingness (capacità di richiamo); distinctiviness (capacità di distinzione); mood (affettività del nome); speed of learning (semplicità d’apprendimento). 7
  • 8. 5. La visual identity Per “visual identity” si intende l’insieme degli elementi visuali, organizzati in un programma di applicazioni specifiche (Visual Identity Program), che conferisce all’impresa un profilo estetico definito e riconoscibile verso i diversi pubblici o partner. Il “simbolo” ed il “marchio” hanno funzione sia segnaletica, indicando la presenza, sia significante, essendo finalizzato a distinguere un determinato prodotto nel contesto di mercato cui si inserisce. Nello specifico, il “marchio”, in quanto caso specifico di visual identity, identifica un’entità trasmettendo se stesso come messaggio, sintetizza valori ed informazioni raccontandoli in forma di elementi visibili e memorabili, consente una rapida identificazione delle proprietà dei prodotti e dei servizi aziendali, garantisce e difende la qualità della proposta prima dell’atto di acquisto. Si riconoscono tre diverse tipologie di marchio: il logotipo, il pittogramma ed il diagramma. Diversi sono i requisiti che devono connotare la visual identity di un prodotto o di un’azienda: originalità, visibilità, semplicità, correttezza morale, riproducibilità, attrattività, alta qualità grafica, longevità, presenza sul web, protezione legale. Infine, il Visual Identity Program assolve alla funzione di fornire un preciso ed universale profilo visivo dell’azienda, concretizzandosi nell’identificazione coerente dell’oggetto per il quale è strutturato, definendone il corrispettivo posizionamento estetico. 6. La pubblicità Si distinguono tre diverse tipologie di pubblicità: p. “di prodotto”, atta a qualificare l’immagine di un prodotto con lo scopo di aumentarne la richiesta; p. “di impresa”, finalizzata all’affermazione dell’immagine dell’impresa per sviluppare atteggiamenti positivi nel pubblico; p. “collettiva”, diretta all’incentivazione dell’uso dei prodotti collocabili nello stesso settore merceologico. La pubblicità, in quanto strumento capace di favorire l’aumento della richiesta di un bene, può produrre due tipi di effetti sulla domanda: effetto di traslazione, che, a parità di prezzo, determina un aumento della domanda; effetto di cambiamento di tendenza, che provoca una variazione dell’elasticità della domanda. Per quanto possa essere ben strutturata ed articolata, una campagna pubblicitaria risente ed è condizionata da alcuni fattori specifici, che ne determinano l’esito finale. Nello specifico, ci si riferisce alla tendenza allo sviluppo della domanda per una classe di prodotti, alla 8
  • 9. validità del prodotto, al grado di differenziazione, all’efficienza della rete di distribuzione ed infine all’impostazione della campagna pubblicitaria della concorrenza. Quale ulteriore tipologia di pubblicità, tipica del mercato contemporaneo, la pubblicità “indiretta” (product placement) si inserisce in contesti non dichiaratamente pubblicitari, insinuandosi in spazi dedicati ad altri scopi. 7. Promozione e sponsorizzazione Per “promozione” si intende uno strumento della comunicazione below the line, che si differenzia dalla pubblicità in termini di tempestica, essendo finalizzata a favorire un aumento tempestivo delle vendite di un prodotto, mediante il coinvolgimento diretto del consumatore. Si riconoscono diverse forme di promozione: operazioni a premio (raccolta punti), concorsi a premio (estrazione), riduzione dei prezzi, campioni omaggio, telepromozione. Inoltre, la comunicazione della promozione deve basarsi su tre presupposti logici: utilizzo di media a carattere locale, packaging strategico, presenza effettiva dei prodotti oggetto di promozione. Ed ancora, la “sponsorizzazione” si configura come comunicazione associata ad un evento e/o personaggio. È possibile distinguere quattro diverse tipologie di sponsorizzazione: s. sociale, s. culturale, s. sportiva, s. cinematografica-televisiva. 8. Il comunicatore d’impresa in Italia Il comunicatore d’impresa si occupa della progettazione e della gestione delle dinamiche comunicative interne ed esterne all’impresa. L’affermarsi della suddetta categoria professionale è favorita e determinata dal mutamento del contesto socio- culturale ed economico proprio dell’età contemporanea: i cambiamenti organizzativi e le trasformazioni dei processi comunicativi concorrono al costituirsi di nuove professioni. Nello specifico, ci si riferisce all’impianto organizzativo delle imprese, definito reticolare o “a rete”, che, attuando un processo di esternalizzazione di taluni servizi, richiede figure atte a gestire tale potenziamento del flusso di comunicazione. Inoltre, con l’avvento delle Information and Communication Technology (ITC) si impone un cambiamento tecnologico nella gestione delle informazioni che, a sua volta, fa scaturire maggiori e più complessi flussi comunicativi interni ed esterni all’impresa, 9
  • 10. opportunamente coordinati dai comunicatori d’impresa, con modalità di gestione del lavoro meno gerarchiche e più partecipative. I comunicatori d’impresa operano sia in strutture esterne, grandi agenzie di consulenza e servizio, piccoli e medi studi professionali, singoli consulenti in proprio (freelance). Nello specifico, attraverso la consultazione della fonte Excelsior, database online che definisce le previsioni sulle richieste di mercato, è stato possibile stilare una lista di tipologie di professioni intellettuali e ad elevata specializzazione (NUP - Nomenclatura delle unità professioni). Si distinguono: specialisti delle pubbliche relazioni e dell’immagine (responsabile della comunicazione, responsabile delle pubbliche relazioni); specialisti nei rapporti con il mercato (responsabile marketing, account manager, key account manager); specialisti dei problemi del personale e dell’organizzazione del lavoro (responsabile comunicazione interna, responsabile risorse umane). Nell’ambito delle professioni tecniche, si collocano: tecnici del marketing (addetto marketing, addetto sviluppo prodotti, product manager, assistente ricerche di mercato); tecnici della pubblicità e delle pubbliche relazioni (addetto alle relazioni pubbliche, tecnico pubblicitario). La consultazione delle tabelle contenenti le percentuali delle previsioni di assunzione consente di elaborare alcune congetture sulle prospettive future per il comunicatore d’impresa, in relazione ad alcuni parametri specifici, quali: titolo di studio, esperienza e reperimento, area geografica e dimensione, settore. In tale contesto analitico, assume particolare rilevanza la questione inerente all’identità della comunicazione d’impresa come professione effettiva e dotata di un proprio statuto disciplinare, etico e metodologico. In particolare, per “professione” si intende un’attività lavorativa qualificata, di riconosciuta utilità sociale, svolta da individui che hanno acquisito una competenza specializzata, seguendo un percorso di studi complesso ed articolato. Al fine di illustrare le caratteristiche specifiche dell’attività del comunicatore d’impresa, viene descritto un particolare caso di studio che si propone di verificare se è possibile ritenere avviato il processo di professionalizzazione della figura del comunicatore d’impresa. Come premessa metodologica, si espongono due diverse teorie che si incentrano proprio sul concetto e sul significato del termine “professione”. Il funzionalista Talcott 10
  • 11. Parsons elabora una differenziazione tra “professione” ed “occupazione”: la prima, a differenza della seconda, si svolge a partire dall’applicazione di una conoscenza scientifica acquisita con un lungo percorso formativo, è applicata in ottemperanza di determinanti valori etici ed è fondata sull’interesse collettivo. L’altra interpretazione risale agli studiosi della Scuola di Chicago, secondo i quali è tendenza diffusa operare idealizzazioni, generalizzando, del concetto di “professione”, che quindi si configura come categoria d’uso comune utilizzata per raggiungere un determinato obiettivo. Dunque, la professionalizzazione costituisce un processo di normalizzazione delle caratteristiche di una data attività, per il primo; può avviarsi a partire sia dall’interno che dall’esterno, per i secondi. Emerge quindi il profilo professionale dei comunicatori d’impresa, caratterizzato da un’alta expertise e da un ampio background conoscitivo derivante da un lungo e complesso percorso formativo. Le diverse segmentazioni categoriali di questa nuova figura professionale si articolano in relazione al tipo di rapporto istituito con l’impresa e con lo Stato, ai programmi di formazione ed alle relative competenze acquisite, al codice deontologico assunto come parametro di comportamento. Nello specifico, il percorso formativo intrapreso e seguito dal comunicatore d’impresa risulta essere multidisciplinare e trasversale in virtù delle caratteristiche proprie delle scienze della comunicazione, nonché generalista ed aperto, come conseguenza del dinamismo dei contesti organizzativi e tecnologici. Quanto detto, avvalora la tesi dell’esistenza della differenziazione dei profili professionali della comunicazione d’impresa. Ed ancora, risulta opportuno focalizzarsi sulle tipologie di competenze che devono essere possedute dalla figura in analisi: competenze tacite, di tipo comunicativo, relazionale, emozionale e creativo; competenze “codificate”, di stampo informatico, linguistico, redazionale, analitico, psicologico/sociologico ed organizzativo/gestionale. Tali competenze devono necessariamente essere accompagnate da flessibilità formativa e disciplinare, secondo i canoni dell’apprendimento on the job, a causa della disomogeneità e della pluralità dei contesti lavorativi. Per l’analisi del rapporto tra comunicatore d’impresa e contesto lavorativo nel quale esso si colloca ed agisce, occorre considerare due diversi modelli organizzativi. In particolare, nel modello di “organizzazione razionale o meccanica”, il comunicatore deve trasmettere informazioni verso i pubblici di interesse, implementando le sue 11
  • 12. attività entro limitati margini di discrezionalità nella gestione dei processi organizzativi, che saranno standardizzati e razionalizzati, con condizioni di lavoro e carriera gerarchicamente definite. Al contrario, nel modello di “organizzazione reticolare o a nodi”, il comunicatore d’impresa deve instaurare un dialogo tra l’impresa ed i differenti soggetti con cui essa entra in contatto, sfruttando la condizione di maggiore autonomia e discrezionalità nella gestione dei flussi comunicativi, con un orientamento al servizio, alla responsabilità ed alla crescita professionale. Altro aspetto importante attiene all’“associazionismo” nel campo della comunicazione, che si concretizza in tre diverse tipologie di “associazione”: le community, comunità di scelta e interazione individualizzata con limitate barriere all’ingresso; i club, comunità professionali composte da membri influenti dell’élite economica e culturale (es. direttori di imprese pubbliche e private, docenti universitari); le associazioni di categoria, associazioni di rappresentanza sociale e istituzionale di particolari categorie di professionisti (es. tecnici pubblicitari, professionisti delle relazioni pubbliche). Le associazioni di categoria hanno precisi obiettivi e funzioni: individuazione delle linee di sviluppo delle attività e definizione dei contenuti operativi; determinazione dei contenuti deontologici delle attività professionali; riconoscimento istituzionale delle attività professionali del settore della comunicazione. Particolare importanza viene data, soprattutto nel contesto contemporaneo, ai codici deontologici, ossia alle regole di comportamento professionale atte ad ottenere fiducia nella professione: l’autoregolazione nel campo della comunicazione è integrata con la regolazione del mercato (es. assenza di tariffari minimi, nessuna limitazione di pubblicità informativa circa le caratteristiche del servizio offerto). Infine, la questione della rappresentanza professionale si pone in termini di dualismo tra professioni non regolamentate e professioni regolamentate; “unionismo professionale” delle professioni della comunicazione come movimento per il riconoscimento istituzionale (ICI - Interassociazione Comunicazione d’Impresa); difficoltà delle nuove strategie collettive di riconoscimento, legate alla variabilità degli interessi associativi ed all’eterogeneità della base sociale di riferimento; regolazione professionale internazionale e definizione delle politiche a livello europeo. 12
  • 13. 9. La comunicazione nei modelli organizzativi e nel contesto sociale I diversi modelli organizzativi esistenti trovano applicazione in specifiche modalità di comunicazione, attraverso le quali vengono implementati ed applicati gli schemi gestionali propri di ciascun modello. Nello specifico, al primo dei tre modelli organizzativi individuati, il modello meccanico-razionale, corrisponde una strategia comunicativa che si basa sul trasferimento di informazioni; al modello contingente- proattivo è abbinato il controllo delle risorse comunicative; al modello reticolare- interattivo si associa una costruzione di relazioni comunicative. I suddetti modelli, pur differenziandosi in termini di metodologie organizzative proposte ed impostazione generale strutturale, tuttavia presentano quattro tipologie di elementi costitutivi comuni: elementi materiali, elementi economici, cultura e valori, relazioni sociali e comunicative. In particolare, l’organizzazione razionale o meccanica si caratterizza per una struttura di tipo piramidale estremamente incentrata sul contesto interno dell’impresa, poco attenta all’ambiente esterno ad essa, tendente alla specializzazione dell’attività lavorativa come conseguenza del carattere ripetitivo dell’attività pratica (catena di montaggio). Il lavoro ad economia scalare si esplica in scambi retributivi e nella forma peculiare del mercato ad assorbimento. Per quanto riguarda la dimensione etico-culturale, si osserva l’applicazione nel processo produttivo di regole esterne (scienza ed economia), con il prevalere di valori monetaristi abbinati a criteri di utilità ed efficienza. Il rapporto tra lavoratori assume un’impostazione gerarchica di controllo disciplinare e gli scambi di informazione si attengono sia al modello top down, sia al modello bottom up. Fulcro principale del modello organizzativo razionale/meccanico è l’atto della comunicazione: in questo contesto è necessario comunicare per comandare e controllare, per motivare e integrare gli individui nel modello organizzativo (consenso, premi economici), per amministrare con efficienza ed equità impersonale, infine, per valorizzare e coinvolgere i lavoratori in obiettivi organizzativi. In sintesi, l’agire comunicativo nell’organizzazione razionale assumerà le seguenti connotazioni: impersonale/strumentale; motivazionale/formale; stabile/prevedibile. Il secondo modello organizzativo considerato si riferisce ad un’organizzazione contingente e pro-attiva dell’impresa. Differente rispetto al modello precedentemente 13
  • 14. analizzato, quello contingente/pro-attivo si caratterizza per confini aperti e maggiormente orientati verso l’ambiente esterno, nonché per una struttura di tipo socio- tecnico. L’assetto economico si esplica in una produzione da mercato ed in scambi retributivi. Dal punto di vista deontologico, prevalgono regole di autodisciplina internalizzate, associate a valori sociali che orientano il sistema produttivo verso la pubblica utilità ed il comune interesse. Le relazioni tra lavoratori e tra i vari strati gerarchici si connotano in termini di bidirezionalità e di scambi di informazioni interno- esterno e viceversa. In tale contesto, l’atto comunicativo assume quattro diverse finalità, e il “comunicare” funge da strumento per: contenere i limiti della razionalità, riducendo l’ambiguità nei processi decisionali; ridurre l’incertezza ambientale, favorendo l’intervento pro-attivo; legittimare l’organizzazione, creando un’identità distintiva; suscitare il sentimento di appartenenza. L’agire comunicativo è dunque interpersonale/strutturale, informale/formale, interno/esterno. Come per l’organizzazione razionale/meccanica ci si avvale della metafora dell’orologio meccanico per raffigurarne simbolicamente il funzionamento, per il modello organizzativo contingente/proattivo si utilizza la metafora dell’azienda come organismo dotato di una spiccata capacità di adattamento al contesto sociale, economico, politico ed ambientale ad esso circostante. Infine, l’organizzazione reticolare ed interattiva si caratterizza per una serie di elementi costitutivi specifici: materiali (open office, struttura senza confini - non piramidale, ICT); economici (lavoro flessibile scambi progettuali - non materiali, mercati plurimi); culturali (regolazioni - sanzioni sociali, reciprocità, negoziazione tra soggetti in una rete interattiva); relazionali (cooperazione e partecipazione finalizzate al raggiungimento di un comune obiettivo, scambi comunicativi bidirezionali). Tale modello viene stilizzato con la metafora dell’ologramma, determinando una configurazione dell’azienda come struttura che, sebbene visualizzata da diverse angolazioni, conserva le medesime peculiarità ontologiche. Attestata l’esistenza dei sudetti modelli organizzativi e descrittene le proprietà principali, sarà opportuno focalizzarsi sull’oggetto “impresa” generalmente inteso, alla luce degli effetti che la società dell’informazione ha sortito su di essa. Nello specifico, i numerosi cambiamenti sociali, scaturenti da una confluenza di elementi culturali e contestuali, hanno attivato un processo di responsabilizzazione dell’impresa, sia verso l’interno sia verso l’esterno. 14
  • 15. L’impresa, quindi, ricopre il ruolo di istituzione sociale, ponendosi al centro tra economia e società, in virtù della congettura di weberiana memoria. Un sostanziale cambiamento attiene anche alla sfera prettamente organizzativa (de-gerarchizzazione, sviluppo a rete, importanza degli intangibles), nonché a quella economica (internazionalizzazione, nuove tecnologie, economia della conoscenza), ed in fine al settore del consumo (diversificazione dei gruppi sociali, differenziazione culturale, nuovi modelli di consumo). Notevoli sono altresì i mutamenti nella comunicazione: maggiori flussi e articolazione della comunicazione, coerenza tra comunicazione interna ed esterna, comunicazione d’impresa come identità distintiva. 10. La responsabilità sociale delle imprese Per “Responsabilità Sociale d’Impresa” (Corporate Social Responsibility, CSR) si intende l’integrazione di preoccupazioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa. La CSR può essere definita come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Nel dibattito incentrato sul rapporto tra etica e mercato, occorre valutare quale sia il giusto equilibrio da raggiungere. Per quanto riguarda il processo di razionalizzazione dell’economia, si fa riferimento all’Etica Protestante di Weber, in cui si sostiene che un sostrato culturale aveva determinato la nascita del Capitalismo. In Weber la modernità si basa sulla razionalità: si lavora perché è giusto farlo dal punto di vista individuale, come individuale era il rapporto con Dio. L’impresa attraverso una visione consensuale del rapporto con l’individuo si impegna a mantenere una buona condotta sociale: la RSI si connota per un carattere volontario, per l’abbinamento di aspetti sociali ed ambientali nell’agire economico, per una continua interazione tra impresa e soggetti con i quali entra in contatto. La CSR è una strategia volta a riscuotere fiducia e notorietà presso diversi pubblici: l’impegno sociale delle aziende si configura come elemento costitutivo dell’impresa che comunica se stessa in un ottica di valori. L’attenzione per la responsabilità sociale scaturisce dal rapporto instauratosi tra la pressione dei soggetti sociali e morali e la risposta/proposta degli attori economici e delle aziende: i cittadini esercitano una pressione sugli attori economici che, di conseguenza, rispondono a tali forze pressorie con proposte 15
  • 16. strategiche. La CSR in una prima fase assume la connotazione di filantropia, successivamente diviene più strutturata configurandosi come welfare aziendale. Dopo la Grande Depressione, cade il mito del businessman e nasce il manager come mediatore tra i beneficiari ed il business. Negli anni Cinquanta, si innesca un processo di individualizzazione dell’azione responsabile. La figura del manager si istituzionalizza e si pone come “servitore della società”, restituendo output specifici in relazione a determinante richieste. La formalizzazione delle Human Relations è prova dell’enfasi che viene applicata alla dimensione socio-umana delle dinamiche aziendali, in termini di rispetto e sviluppo della persona. Il modello del welfare capitalism si dispiega nel rapporto tra pressione sociale e possibili risposte ad essa collegate: orientamento sociale (passivo) e responsabilità sociale (attiva). A tal proposito, il bilancio sociale si configura come uno strumento attraverso il quale l’impresa implementa pratiche di rendicontazione del proprio operato nei riguardi degli stakeholder. La piramide di Carroll (1991) si propone di schematizzare i diversi tipi di responsabilità sociale in relazione al rapporto tra ciascun livello della struttura piramidale ed il consumatore. Nello specifico, si distinguono quattro diverse declinazioni del concetto di CSR: responsabilità economica, pretesa dal cittadino; responsabilità legale, richiesta dalla società; responsabilità etica, attesa dagli stakeholders; responsabilità filantropica, desiderata dalla società. Il passaggio da una responsabilità “dovuta” ad una “discrezionale” rappresenta quello che alcuni definiscono come l’orientamento comunitario dell’impresa: in tal caso, si parla di strategia sociale proattiva dell’impresa (marketing filantropico, Cause Related Marketing). Ed ancora, la responsabilità etica riguarda le attese della comunità rispetto all’attività aziendale. Tale responsabilità è stimolata dalla nuova consapevolezza del consumatore e dall’emergere di una cultura della qualità della vita. A tali aspettative, le imprese hanno risposto attraverso strumenti di comunicazione specifici in modo autonomo o mediati da soggetti esterni. Per comunicazioni “dirette” si intendono messaggi pubblicitari che assicurano l’impegno da parte dell’impresa verso attese etiche sulla produzione e sul ciclo del prodotto (es. comunicazione ecologica). Al contrario, le comunicazioni “mediate” sono 16
  • 17. prodotte utilizzando soggetti terzi ed agenzie esterne all’impresa che certificano l’impegno etico dell’azienda (es. ecolabel). Inoltre, la responsabilità filantropica riguarda le azioni messe in atto da un’impresa indipendentemente dalle attese della comunità o degli stakeholders, in quest’ottica l’impresa riconosce a se stessa un ruolo di soggetto che deve socializzare la ricchezza prodotta al di là dei processi distributivi contrattuali e di mercato. In tale ottica, costituiscono esempi di strumenti attraverso i quali implementare attività di responsabilità filantropica: sponsorizzazioni sociali, donazioni, attività di marketing legate ad una causa (CRM - Cause Related Marketing). In particolare, la CRM è uno strumento strategico che lega un’azienda o una marca ad un’importante causa sociale o ad un’organizzazione non-profit per mutuo beneficio. Le iniziative CRM prevedono la creazione di un legame tra l’entità del contributo offerto dall’impresa per la causa con la vendita di un prodotto/servizio aziendale. L’azione di CRM può durare per lungo tempo o per un periodo limitato alla realizzazione della causa in oggetto. 11. Il consumo Il tema del consumo viene analizzato in funzione dei mutamenti affermatisi nel settore e delle diverse teorie che ne hanno descritto le modalità di fruizione da parte dell’individuo, evidenziandone caratteristiche e criticità. In primo luogo, il cambiamento dei beni di consumo si ricollega al processo di smaterializzazione che ne ha determinato una trasformazione in termini di tipologie di spinte all’uso da parte del consumatore. Si parla, infatti, di perdita della sostanza fisica e durevole e di acquisizione dell’immaterialità esperenziale e non durevole. Numerosi autori hanno proposto diverse interpretazioni dell’atto consumistico alla luce delle principali teorie sociologiche e dell’assetto socioculturale proprio dell’epoca in cui essi operavano. In particolare, Karl Marx (1818 - 1883) introduce il concetto di “carattere feticcio” della merce, teorizzando un processo di mercificazione delle relazioni sociali e del consumo. Nello specifico, il consumo, nella sua accezione di godimento del bene di consumo stesso, viene descritto come “alienazione”. In tale ottica, l’autore in questione spiega il passaggio dal “valore d’uso”, inteso come relazione sociale tra il bene ed il consumatore, al ”valore di scambio”, quale relazione 17
  • 18. (non sociale) tra merci (feticci). Pertanto, il consumo si configura come variabile dipendente dal sistema di produzione ed i bisogni individuali si conformano alle esigenze della produzione capitalistica: la produzione produce il bene di consumo, il modo del consumo e l’impulso al consumo. Ed ancora, Jean Baudrillard (1929 - 2007) analizza la società consumistica nel suo passeggio dal valore d’uso al segno-valore, determinante l’innescarsi di un processo di omologazione sociale e valoriale dell’agire di consumo. I beni di consumo non si connotano solo per il loro valore d’uso (funzionalità intrinseca), ma anche per il valore di scambio (significati astratti). Il bene assume l’essenza di segno-valore, in quanto espressione di significati e marca di prestigio; essi, inoltre, orientano il comportamento d’acquisto, creando un’immagine da ostentare ed influenzando le relazioni sociali. Pierre Bourdieu (1930 - 2002) spiega il consumo in termini di “distinzione”: le pratiche di consumo costituiscono un riflesso dei gusti nello spazio sociale. Nello specifico, il consumo è determinato dall’habitus e dal contesto socioculturale personale di ciascun individuo: l’habitus si attesta come status del corpo e la relazione tra habitus individuale e di classe è definita dal capitale economico e culturale, in una struttura sociale e gerarchica. In tale ottica, le pratiche di consumo si configurano come espressione di posizione gerarchica e configurazione di potere simbolico: il grado elevato di risorse economiche e culturali riesce a definire i gusti ed a orientare l’agire di consumo stesso. In tale dibattito si colloca anche Veblen, noto per la funzione comunicativa che attribuisce alle pratiche consumistiche, in termini di consumo vistoso. I beni di consumo, collocabili alla base della rispettabilità del sistema sociale di riferimento, concorrono all’ostentazione della ricchezza da parte di individui appartenenti a determinate classi sociali. Le speculazioni sociologiche di Veblen appaiono fortemente influenzate dal contesto sociale in cui egli operava, nonché dal processo involutivo dell’aristocrazia francese con la complementare ascesa della nuova classe borghese che, proprio nel consumo, poneva le fondamenta della sua legittimazione. Infine, Simmel introduce il concetto di trickle down (effetto fontana), secondo cui le modalità di consumo proprie delle classi più elevate indirizzano ed influenzano quelle delle classi subalterne. Pertanto, la cultura del denaro oggettivizza gli oggetti ed 18
  • 19. entra nell’agire di consumo, facendo perdere le connotazioni soggettive ai desideri; i beni caratterizzano gli stili di vita come conseguenza del consumo e di relative esperienze. In questo contesto, l’agire di consumo rappresenta una tendenza dei gruppi sociali all’eguaglianza ed anche alla differenziazione. A tal punto, occorre precisare che, a causa del verificarsi di un sostanziale cambiamento nel modello socio - economico, si è innescato un processo di smaterializzazione nella società: dal fordismo (rigidità, standardizzazione, massificazione) al postfordismo (flessibilità, innovazione, personalizzazione). 12. Il consumo, teorie contemporanee Consumo come cultura visibile: il soggetto consumatore attivo rielabora i processi di scambio tra significati impliciti ed espliciti. Tali significati si collocano nelle relazioni tra i beni e tutti controllano l’informazione quale bene principale della contemporaneità. Pertanto, il consumo assume le caratteristiche di un’area in cui gli individui lottano per accedere all’uso di determinati beni e controllare l’informazione. Consumo come significato culturale: il significato del bene è culturalmente costruito e gli strumenti che si presuppongo reciprocamente per l’attribuzione dei significati sono le categorie ed i principi culturali. Nei contesti sociali i beni di consumo hanno biografia culturale o storia sociale e possono uscire dalla condizione di merce in base all’uso fatto nella specifica società. Consumo come forma di linguaggio. Il consumo autonomo e indipendente dalle logiche di produzione assume una funzione comunicativa di presenza e appartenenza sociale, consentendo al consumatore di effettuare una scelta libera ed individuale, in termini di accesso nel gruppo e nella stratificazione sociale. 13. Il biocapitalismo Il biocapitalismo è la più recente evoluzione del modello economico e sociale capitalistico. È caratterizzato dall’intreccio dell’esistenza psicologica e materiale degli individui con il processo di produzione di valore. Tale sistema attribuisce al consumatore un ruolo estremamente attivo, evidenziando la sua capacità d’orientamento della produzione in seguito alla richiesta maggiore o minore di un determinato bene. È altresì verificabile l’innescarsi di un processo di esternalizzazione di determinate attività 19
  • 20. precedentemente svolte all’interno dell’azienda: l’outsourcing prevede appunto che il consumatore provveda all’esecuzione di talune fasi così da consentire l’effettivo completamento della produzione di un dato bene di consumo. Il percorso che ha condotto alla determinazione ed all’affermazione del biocapitalismo ha origine a partire dal processo di astrazione del mercato considerato nelle sue componenti costitutive. Il capitalismo, infatti, è caratterizzato dalla capacità di astrazione del lavoro, del denaro, delle merci e del corpo. Pertanto, si passa dalla materialità ad un assetto immateriale. La natura del biocapitalismo si connota anche in termini di passaggio dall’economia materiale all’economia della conoscenza: dalla fabbrica che produce beni alla società che produce conoscenza. In questo contesto, nasce la figura del prosumer, il produttore-consumatore che, collocandosi nel sistema del libero mercato, concorre a determinare gli orientamenti dello stesso. Il consumatore è quindi visto non solo come punto d’arrivo del processo di consumo o come soggetto che fa un uso creativo del consumo, ma anche come produttore di sapere, cultura, creatività, lavoro e comunicazione. L’affermarsi del modello biocapitalistico determina una rottura della dimensione spaziale e temporale: i mezzi di comunicazione consentono di abbattere le consuete barriere sociali e con la rete nasce “l’individuo collettivo” confacente ai flussi del biocapitalismo. Si assesta una diffusa tendenza alla crescita senza limiti ed il processo di produzione di valore ingloba qualunque aspetto della vita e la tendenza è la crescita per la crescita, definita da Codeluppi “escrescenza”, inseguita anche dal corpo. Questo è sempre stato oggetto di controllo nella storia del capitalismo e la “medicalizzazione della società” (M. Foucault) ne rappresenta un esempio. Attualmente il fenomeno è divenuto estremo. Uno degli strumenti del biocapitalismo è collocabile nella marca, intesa come nominativo applicato ad una determinata merce, atto a distinguere un prodotto dagli altri appartenenti allo stesso settore merceologico. La marca identifica un significato, creando emozioni; nasconde l’oggetto enfatizzando la dimensione simbolica; crea valore (brand equity); assimila gli elementi culturali della società e si diffonde nell’ambiente sociale, mutando gli stili di vita e di consumo. Il biocapitalismo presenta altresì dei rischi ascrivibili ad una possibile appropriazione - e del relativo controllo - delle forme culturali della società, all’ingerenza dell’agire strumentale nell’agire 20
  • 21. comunicativo; alla riduzione dello spazio privato occupato dalla cultura del consumo. Il rischio principale del biocapitalismo, tuttavia, è collocabile nella possibile autofagia del sistema: il modello economico biocapitalista, attraverso lo sfruttamento della cultura, dei corpi, degli individui e della natura, potrebbe incorrere in un depauperamento del sistema stesso. 14. Il commercio equo e il consumatore etico Il Commercio Equo e Solidale è un approccio alternativo al commercio convenzionale; esso promuove la giustizia sociale ed economica, lo sviluppo sostenibile, il rispetto per le persone e per l’ambiente, la crescita della consapevolezza dei consumatori, l’educazione, l’informazione e l’azione politica. Tale forma di commercio nasce negli anni Cinquanta e si configura, almeno nella sua fase aurorale, come movimento a sfondo religioso, attestandosi come relazione paritaria fra tutti i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai produttori ai consumatori. In particolare, la determinazione dei prezzi dei prodotti, in questo caso, segue criteri fondati sulla “coscienza”, non sulla classica relazione tra domanda ed offerta, pratica, questa, che spiega il motivo per il quale i prezzi dei prodotti venduti nell’ambito del commercio equo risultano più elevati rispetto a quelli del commercio tradizionale (15 - 20 %). Nel contesto italiano, la forma di commercio in analisi assume un orientamento più “locale” rispetto a quello tipico del commercio equo a livello mondiale, improntato secondo logiche di una più ampia diffusione e visibilità di questa attività: in Italia si registra l’esistenza di botteghe esclusivamente deputate alla vendita di prodotti importati che, pertanto, ad eccezione di pochi casi, non vengono proposti e venduti nell’ambito di grandi centri commerciali, come invece accade per altri paesi. Ai fini di un’implementazione efficace e fruttifera di pratiche di commercio equo, è necessario che tra produttore ed importatore si instauri un rapporto di fiducia che favorisca un’agevole collaborazione tra le suddette figure, in termini anche di trasparenza circa le modalità di produzione delle merci importate. In particolare, il commercio equo prevede una serie di specifiche attività e procedure: stabilire rapporti economici diretti e continuativi, determinando un prezzo equo con i produttori; effettuare un prefinanziamento ai produttori pari al 50% del costo totale della 21
  • 22. produzione; agevolare pratiche di agricoltura biologica e rispettose dell’ambiente, finanziando progetti di sviluppo locale; favorire processi democratici, partecipativi e trasparenti, sostenendo le minoranze ed i gruppi svantaggiati nell’ingresso ai mercati. Nel momento in cui i produttori stringono rapporti con gli importatori su base fiduciaria, specificano determinati accordi con questi ultimi in relazione alle modalità di produzione dei prodotti, effettuando periodicamente dei controlli per accettare l’effettivo attenersi ai patti. A prezzi elevati, dunque, corrisponde un’alta qualità dei prodotti, caratteristica, questa, che può essere anche certificata dai produttori. Nell’ambito del commercio equo, si osserva un categorico rifiuto delle canoniche forme di promozione ed aumento della visibilità dei prodotti, per il fatto che la pubblicità è ritenuta eccessivamente “commerciale” rispetto all’impianto proprio della forma in analisi: il commercio equo si prefigge l’obiettivo di accumulare profitto, per ovvi motivi economici, ma, allo stesso tempo, non intende spingere il consumatore verso atteggiamenti ed inclinazioni orientate al consumo esasperato dei beni. Ed ancora, la certificazione è la garanzia per il consumatore del rispetto dei principi del ComES. La certificazione riduce i costi di transazione (certificazione di filiera o di prodotto), in termini di verifica delle qualità che si suppone abbia un prodotto, grazie anche alla base fiduciaria che si instaura tra produttore ed importatore (CTM e Altro Mercato). Il prezzo equo rappresenta per il cliente la concretizzazione dei principi del ComES e rende esplicita la composizione dei costi. Un esempio di struttura che implementa pratiche di commercio equo è quello della cooperativa “E’ Pappici”, la realtà più importante di ComES della Campania. Nasce nel 1993 come Associazione e nel 1996 si trasforma in Cooperativa; nel 2008 comprende tre botteghe ed un Magazzino Regionale, 224 soci, circa 10 persone a contratto (lavoratori e di servizio civile) e circa 20 volontari. La campagna della cooperativa in analisi si propone di informare sul diritto universale al cibo, valorizzare un mercato per ridurre le disuguaglianze nell’accesso al cibo, offrire l’opportunità di costruire una cultura del consumo del cibo più consapevole e responsabile, lanciare o ripresentare prodotti di filiera ComES inerenti alla campagna. Le iniziative per la campagna “E’ Pappice” comprendono comunicazioni “in-store” (volantini, brochure, manifesti), relazioni pubbliche (incontri con esponenti istituzionali, 22
  • 23. scuole, parrocchie, associazioni), iniziative “in-store” ed esterne (colazioni solidali, presentazione di libri sul tema, concerti). Nel contesto del commercio equo, si colloca la figura del consumatore responsabile. Le scelte di consumo sono attente alle conseguenze sociali ed ambientali degli acquisti. I soggetti - definibili come responsabili, etici e critici - costituiscono circa il 10% dei consumatori italiani. Le scelte di consumo responsabile sono un ulteriore elemento che caratterizza l’identità e lo stile di vita di questi consumatori (attivi nel volontariato, nella politica in attività caritatevoli). Il consumatore responsabile si distingue per caratteristiche soggettive (alta istruzione, reddito mensile alto, occupazioni di alto profilo, in prevalenza del Nord Italia) e per una specifica visione del mercato in termini di: bassa fiducia nel mercato e nelle pratiche commerciali (pubblicità); attuazione di comportamenti di non-acquisto; valutazione dell’impatto ambientale del bene, della necessità della sostituzione di un bene già in possesso, della facilità di utilizzo del prodotto. È possibile distinguere tre tipi di orientamento in base al senso attribuito all’azione di acquisto dei beni delle filiere di commercio equo. Nello specifico, secondo l’orientamento militante, il commercio è un’opportunità di attività politica sganciata dalle forme partitiche tradizionali considerate corrotte o inadeguate (acquisto come atto politico). L’orientamento devoto considera il commercio equo come un modo per poter compiere un atto di “bene”, di “bontà” verso i poveri del mondo (acquisto come impegno religioso). In relazione al terzo ed ultimo orientamento, quello ritualista, il commercio equo si configura come una moda, un atto che guarda alla caratteristica intrinseca del bene (es. prodotto biologico) ma anche un acquisto distratto (acquisto come moda o atto differenziato). 23